Il libro raccoglie testi già apparsi su "Lotta
Comunista" negli anni 1980-1989.
Trascritto per internet da Antonio
Maggio - Primo Maggio
Mark-up: Dario Romeo, novembre 2003
CAP. 1 - I FATTORI DELLA NUOVA CONTESA, 1980
1 L'espansione russa nell'Asia Centrale
2 L'arteria pluridimensionale del Golfo Persico
3 Anche l'Europa punta al Golfo Persico
4 I parametri sconosciuti di Z. Brzezisnski
5 Declino delle priorità triangolari
6 L'ascesa delle terze potenze
7 I fattori della nuova contesa imperialistica
8 Colpi sordi della nuova contesa all'Est
9 Caccia libera per la nuova contesa delle grandi potenze nel
Golfo
10 Un presidente USA per la nuova contesa imperialista
11 L'India nella nuova
contesa imperialistica [link a L'imperialismo unitario]
1 L'espansione russa nell'Asia Centrale
Il continente asiatico si presenta sempre più come l'epicentro delle tensioni mondiali dell'imperialismo. L'accumulo di queste tensioni provoca, in modo costante, conflitti militari; segno che lo scontro economico e politico non riesce a determinare un equilibrio di potenze che non sia di breve durata. La seconda guerra mondiale, che in Asia è stata soprattutto vittoria dell'imperialismo statunitense su quello giapponese, non è riuscita a determinare un equilibrio di potenze di media durata. Se si tiene presente che il Giappone subì una sconfitta di grandi proporzioni, si ha subito idea della dinamica asiatica. Neppure la schiacciante affermazione militare statunitense è riuscita ad arrestarla se non per pochi anni. La potenza americana ha avuto, per un certo periodo, la supremazia finanziaria e militare in un continente dove per decenni si erano affrontati gli imperialisti europei, russi e giapponesi; essa si trovò a muoversi in un improvviso "vuoto di potenza" e rapidamente lo colmò.
Ma ben presto scoppiò la guerra di Corea. Da allora la catena delle guerre indocinesi, indiane, pakistane e cinesi non si è più interrotta. Ironia delle parole: tutto ciò è avvenuto nel periodo che è stato chiamato di "distensione"! Per noi leninisti è proprio la dimostrazione pratica che il periodo di guerre e di rivoluzioni che contrassegna il nostro secolo non ha mai avuto pause e non le ha avute specialmente nella gigantesca zona dello sviluppo capitalistico costituita dall'Asia.
L'imperialismo è un fenomeno unitario: non se ne può accettare una parte senza accettarlo tutto, non si può accettare la "distensione" in Europa e rifiutare la "guerra" in Asia. L'imperialismo è unitario poiché è la "distensione" in Europa a permettere la "guerra" in Asia ed è la "guerra" in Asia a permettere la "distensione" in Europa.
I rapporti tra le potenze sono rapporti reciproci e globali. Essi danno luogo ad equilibri globali ed equilibri parziali. Dato che i rapporti tra le potenze ed i relativi equilibri poggiano sulla forza economica, la quale si esprime in una forza militare in esercizio potenziale, essi variano con il variare della forza economica stessa.
E' nella natura del capitalismo l'ineguale sviluppo delle imprese, dei settori, dei mercati; di conseguenza vi è un ineguale sviluppo della forza economica che è alla base delle singole potenze e, dato che l'equilibrio tra le singole potenze è la situazione contingente del rapporto tra le forze economiche, esso diventa l'equilibrio dell'ineguale sviluppo. L'equilibrio globale, quindi, varia incessantemente ma in proporzioni ridotte sulle singole forze. Se bastasse lo spostamento delle quote minime di forza economica a rompere l'equilibrio globale questo non potrebbe esistere e non si costituirebbe un sistema di Stati basato proprio sull'equilibrio globale. In pratica non potrebbe sussistere il sistema imperialistico come sistema unitario poggiante proprio sull'equilibrio globale.
La variazione della forza economica e, quindi, del rapporto di potenza si manifesta nella variazione degli equilibri parziali. L'accumulo di tali variazioni dà luogo, certamente, alla variazione dell'equilibrio generale sancita da guerre mondiali, ma ciò non avviene automaticamente. La storia dell'imperialismo e delle sue guerre sta a dimostrarlo. Yalta sancisce un equilibrio globale centrato sull'Europa e sulla suddivisione della Germania, ossia sulla contrapposizione russo-tedesca a beneficio della potenza americana dominante, ma non può e non riesce a determinare la stabilità degli equilibri parziali in Asia. Yalta prepara, quindi, le guerre d'Asia. La "distensione" nell'equilibrio globale ha come condizione ineluttabile la "guerra" negli equilibri parziali. È l'ineguale sviluppo delle forze economiche nel mondo a far sì che non vi sia stata, e non vi poteva essere, una Yalta mondiale.
Inevitabilmente la variazione degli equilibri parziali, e alla lunga distanza dell'equilibrio globale, doveva avvenire proprio dove l'ineguale sviluppo del capitalismo mondiale si manifestava con maggiore vigore: nel bacino del Pacifico. Capita alla scoperta scientifica di anticipare il corso degli avvenimenti storici e di trovare piena verifica dopo alcune generazioni. Siamo per la scienza marxista anche perché tale verità è nel nostro abbecedario. Ci è capitata la fortunata sorte di vivere il trionfo di Marx. A Marx è capitata la sorte di anticiparlo.
Dopo il 1848 egli prevede che lo sviluppo del capitalismo abbraccerà il bacino del Pacifico, dopo quello del Mediterraneo e dell'Atlantico. Il ritmo del bacino del Pacifico ha marciato e marcia al doppio di quello degli altri bacini. Nel suo cammino provoca squilibri in continuazione, provoca guerre. Ha creato l'epicentro asiatico delle maggiori tensioni di forze dell'imperialismo unitario. Verso questo epicentro si indirizza una delle direttrici della espansione russa. In quanto potenza continentale, la Russia ha varie direttrici di espansione: una delle più facili è quella verso l'Asia centrale e verso il sottocontinente indiano. Qui trova un ventre molle a cui può opporre un Turkmenistan e un Uzbekistan, con retrovia nel Kazahstan, sviluppati da cinquant'anni di capitalismo statale.
La Russia ha una vecchia esperienza colonialista, ha personale politico e militare qualificato, ha assimilato nel suo sistema imperiale strati dirigenti dei gruppi etnici regionali. La espansione in questa zona viene portata avanti da dirigenti di questi gruppi etnici, ha l'appoggio di altri gruppi etnici presenti in Afghanistan, ad esempio, ed è rifiutata da altri gruppi etnici. Non è esatto paragonare l'invasione russa all'occupazione statunitense dell'Indocina come non è esatto paragonare la resistenza che incontra al movimento nazionale capeggiato da Hanoi. Il paragone, caso mai, va fatto con le invasioni inglesi che utilizzavano tutti i conflitti etnici. Se ciò sottolinea i tratti colonialistici della invasione russa caratterizza pure radici più profonde della occupazione.
L'orso non mollerà tanto facilmente il boccone tanto più che, in quella regione, tutti i bocconi li ha digeriti nella sua storia. Può darsi che le altre potenze glielo lascino digerire. Se vogliono rendergli difficile la digestione devono spendere parecchio. Può farlo la Cina ed ha poco da rimetterci, salvo provocare tensione tra Pakistan e India e spingere ancor più l'India verso la Russia. Tutto sta a vedere quanto altre potenze siano disposte ad appoggiare la Cina in questo ruolo. Importante è vedere la dinamica della spesa militare sia su scala mondiale che su scala continentale e regionale.
Il sovietico Vatim Nedbaev, citato da "Le Nouvel Economiste", dice che la Cina occupa il terzo posto nella spesa militare. Ovviamente, è un'affermazione interessata che sottintende, però, un discorso mai fatto apertamente ma che circola tra le righe dei vari dibattiti sugli equilibri militari. E il discorso sulle "armi di teatro" e della nuova generazione di missili sovietici; sennonché si è fatto finta che la nuova generazione di missili sovietici riguardasse solo un "teatro" e che questo "teatro" fosse quello europeo. Si è taciuto sul fatto che esiste anche un "teatro" asiatico e cinese.
Il sottinteso era che la nuova generazione di missili sovietici, già da tempo in attuazione, dovesse riguardare in gran parte il "teatro" cinese; vi sono molti indizi e, in alcuni casi, esplicite ammissioni che provano questo sottinteso. Ma, soprattutto, vi è l'improvviso esplodere della questione in sede NATO e l'altrettanto rapida decisione sugli euromissili su iniziativa tedesca ed inglese e dopo che autorevoli correnti politiche e militari francesi propugnavano una autonoma forza missilistico-nucleare franco-tedesca. Anche questa è una storia tutta da ricostruire. Per ora accontentiamoci di riscontrare che la questione missilistica di colpo si addensa sull'Europa occidentale. Non è un caso, ma la conseguenza di una tendenza in atto negli ultimi due o tre anni.
Tirare fuori la "carta" cinese è semplicistico perché al tavolo non si sono seduti in tre ma, come non ci stanchiamo di ripetere, in quattro. Ognuno gioca a suo modo la "carta" cinese. La gioca anche la Germania che non è seduta al tavolo ma che conta di valersene nei rapporti con la Russia. La scelta attuale tedesca di aiutare la Russia a contenere l'utilizzo americano e giapponese della "carta" cinese è, in fin dei conti, un condizionamento tedesco sulla Russia stessa. Ma la Germania sa pure che la Russia è una potenza che ha troppa forza per lasciarsi contenere contemporaneamente ad Oriente e ad Occidente. Compressa dai due lati troverà altri sfoghi, come li sta trovando verso l'Oceano Indiano dove finirà per danneggiare gli interessi del Giappone e della Cina.
Il sottinteso di dirottare la pressione militare russa verso Oriente e verso
la Cina coinvolgeva, quindi, Germania, Francia, Stati Uniti e, un po' meno,
Gran Bretagna. Mentre era in atto un forte riarmo russo, con il sottinteso che
si rivolgesse verso l'Oriente e la Cina, Germania e Francia non accettavano di
vendere moderna tecnologia militare alla Cina e ridimensionavano il viaggio di
Hua Kuofeng. Solo la Gran Bretagna interveniva nel riarmo cinese. Gli Stati
Uniti non decidevano e si lasciavano aperte due strade; è questo il loro modo
di giocare la "carta" cinese e chi non lo ha ancora capito avrà
difficoltà a capire cosa accade e cosa accadrà nel continente asiatico.
Se è vero che vi è un riarmo russo o un rinnovamento tecnologico, come
ammettono i russi stessi quando promettono ai tedeschi un dislocamento più ad
Oriente di nuovi missili, il problema dell'equilibrio o di un ulteriore
squilibrio militare si pone nei confronti del Giappone e della Cina.
L'ingresso massiccio del Giappone nell'industrializzazione cinese è, dal punto di vista militare, una forma di riarmo. Una delle "quattro modernizzazioni" è, appunto, quella militare e questa può essere assicurata dalla modernizzazione e dallo sviluppo dell'apparato produttivo ad opera dei capitali e delle tecnologie giapponesi. Mentre la NATO decideva sugli euromissili ed i russi preparavano l'invasione all'Afghanistan, Ohira concedeva nuovi crediti alla Cina. Le nuove armi si possono acquistare ma anche costruire. Nell'uno o nell'altro modo, il risultato è il riarmo cinese a livello, forse, ancora basso e a tempi ancora lunghi ma certo come tendenza. Del resto, come in altra occasione avvertimmo, una massiccia ed esterna iniezione di tecnologia militare in Cina rappresenterebbe uno sconvolgimento dei rapporti con effetti dirompenti in Asia e in Europa.
La tendenza, anche se più graduale, ha avuto comunque la forza di frenare la pressione militare russa ad Oriente e di rilanciarla parzialmente sul lato opposto. L'Europa Occidentale non poteva più pensare di farla franca e di scaricare sul concorrente asiatico la pressione russa, generata a sua volta dalla impossibilità dell'URSS ad espandersi nell'Asia Orientale. I ritmi dell'industrializzazione siberiana sono rapidi ma quelli del Giappone e dell'Asia Orientale lo sono ancora di più e quelli della Cina possono accelerarsi.
Ipotesi nostra è che l'espansione russa in quella direzione sia stata
battuta sul tempo. Scaricare su quel terreno il riarmo russo è stato, da parte
NATO, un calcolo sbagliato che ha precipitato le mosse giapponesi e cinesi. La
palla è ritornata indietro e la Germania ha dovuto respingerla per non
trovarsela in porta, sotto lo sguardo volutamente distratto dell'arbitro
americano. Ora l'orso la sta giocando a metà campo nell'Asia centrale e con
tentazioni di tiri laterali verso l'Oceano Indiano. Le squadre si stanno
ricomponendo con l'acquisto americano dell'oriundo cinese. La partita di fuoco
è appena incominciata e già le gradinate di curva tifano. L'imperialismo
unitario è in tribuna d'onore, al coperto.
2 L'arteria pluridimensionale del Golfo Persico
Nel 1970, nella "Strategia per il domani", Hanson W. Baldwin sosteneva: «E' oggi il bacino dell'Oceano Indiano il nuovo teatro del dramma moderno della politica mondiale: nel filo degli anni rischia di disputare in importanza l'Atlantico e il Pacifico. Non è un settore dove azioni e reazioni possono restare isolate». La tesi di H. W. Baldwin, teorico "realista" e "falco" in polemica con i "revisionisti", è oggi, in parte, accolta dalla dottrina Carter sul Golfo Persico. Il futuro dimostrerà se verrà accolta anche la sua visione sulle centralità dell'Oceano Indiano.
Che il Golfo Persico sia una zona che ha un peso economico sui 200 miliardi di dollari e che sia un'arteria energetica, sulla quale ne scorre un altro centinaio, è indiscutibile. Toccarla significa provocare una convulsione bellica in tutto il corpo imperialistico, dai piedi alla testa. Gli Stati Uniti dichiarandola loro "interesse vitale", la pongono sotto la loro tutela militare. L'arteria risulta ad una sola dimensione, quella del rapporto USA-URSS. Il fatto è che di dimensioni ne ha parecchie: da quella giapponese a quella europea. Non è la finalissima a due, è un torneo. Il primo girone è in corso e ha per palio i rapporti di forza tra le potenze.
L'occupazione russa dell'Afghanistan rappresenta indubbiamente un fatto che incide sull'equilibrio delle varie potenze. Pensiamo, però, che non costituisca un fattore nuovo nella somma degli equilibri in quanto che è solo una manifestazione di un fattore preesistente, ossia del fattore costituito dalla espansione russa nell'Asia Centrale. Questa direttrice espansiva dell'imperialismo russo non è nuova; essa è stata ampiamente analizzata dallo studio di Lenin, alla fine del secolo scorso, riguardante lo sviluppo del capitalismo in Russia. La zona caucasica e la zona asiatica dell'impero zarista sono, appunto, considerate da Lenin come le zone che possono offrire al capitalismo russo un vasto terreno di colonizzazione all'americana.
Solo chi non ha analizzato la natura sociale dell'URSS e non ha individuato le tendenze imperialistiche del capitalismo statale russo può ridurre l'espansione nell'Asia Centrale ad un semplice intervento militare. Il problema da risolvere, caso mai, è perché l'espansione russa si riduca all'intervento militare. Indubbiamente, la contesa nella zona va oltre ai colpi di cannone. Viene fatta a colpi di miliardi di dollari, come fanno gli americani con l'Aramco e i giapponesi in Iran, come fanno tutti in India. I colpi di cannone possono essere sufficienti nell'Afghanistan arretrato e montuoso ma non nei mari caldi dove nuotano meglio gli squali che gli orsi. Se ha solo cannoni l'orso rischia di rimanere confinato nell'Asia Centrale. Può fare uscite, data la sua forza militare, ma più per ricattare che per conquistare. Può forzare gli equilibri parziali per incidere sugli equilibri globali. E dubbio che vi riesca. Comunque è un rischio, anche se calcolato.
Nell'Asia Centrale si sono incrinati gli equilibri parziali esistenti nella zona tra le piccole e le medie potenze quali Iran, il Pakistan, l'India e la Cina. In realtà, questi equilibri, come del resto quelli di tutta l'Asia, sono stati estremamente instabili negli ultimi decenni che hanno visto una serie di conflitti militari tra Pakistan, India e Cina. Il carattere di questa zona "calda" è la instabilità degli equilibri. Da questo punto di vista, l'ingresso di una grande potenza come quella russa di nuovo porta solo l'occupazione militare dell'Afghanistan. L'URSS aveva da tempo incluso l'Afghanistan nella sua sfera di influenza e, quindi, era già presente come fattore esterno nel quadro degli equilibri instabili della zona.
Il suo intervento militare aggiunge instabilità agli equilibri parziali. Provoca anche una rottura negli equilibri globali tra le grandi potenze? Basta l'intervento di una grande potenza in una zona periferica per spostare gli equilibri generali tra tutte le grandi potenze? La storia dell'imperialismo ha due risposte: a volte l'intervento in un punto periferico e caldo ha alterato profondamente gli equilibri sino a scatenare un conflitto mondiale e a volte, invece, non ha avuto effetti di così grande portata. Due esempi classici, nell'una e nell'altra risposta, sono le guerre balcaniche e le guerre indocinesi. Dire che oggi c'è la tecnologia militare di tipo nucleare a frenare gli effetti significa solo riconoscere che il rapporto tra grandi potenze è ad un più alto livello industriale.
In altre parole: significa riconoscere che l'equilibrio globale si instaura tra potenze economiche enormemente sviluppate e che lo spostamento di pesi economici minimi, quali possono essere quelli di certe zone periferiche, non è sufficiente a determinare uno spostamento rilevante dei pesi economici, e quindi politico militari, delle grandi potenze. Avviene un po' come nella dinamica dei grandi gruppi finanziari-economici: non è sufficiente la sconfitta o l'arretramento in un combattimento in un singolo settore a determinare lo scontro generale di tutto l'insieme finanziario e, tanto meno, il suo fallimento. Per comprendere, perciò, se l'alterazione di un equilibrio parziale ad opera di una grande potenza conduce all'alterazione dell'equilibrio generale di tutte le grandi potenze occorre analizzare non il singolo punto di tensione ma tutti i fronti sui quali sono impegnate. Può essere che un singolo episodio sia la classica goccia che fa traboccare il vaso, ma solo quando questo sia pieno di gocce.
L'imperialismo è un fenomeno globale, un vaso pieno di gocce,e come tale va analizzato. Non esiste un imperialismo a suddivisioni e a comparti, esiste solo un imperialismo che è un insieme globale di una serie di fattori, un imperialismo unitario. Esso esplode nella sua massima contraddizione, nella guerra generale, solo quando gli equilibri globali che reggono l'insieme sono saltati. La ricomposizione bellica diventa, allora, contingente e genera schieramenti compositi e momentanei per la nuova spartizione del mondo, per i nuovi equilibri globali quali risultati d'assestamento dopo il terremoto.
A quale grado corrisponde la scossa dell'Afghanistan? La politica internazionale ruota, ormai, attorno a questa scossa e vi ruoterà nel prossimo futuro. Dalla dinamica dei rapporti internazionali si può giudicare l'effetto di propagazione. Vediamolo. Gli Stati Uniti sostengono che l'URSS punta al controllo del Golfo Persico. Che l'URSS lo voglia è probabile e naturale. Ma l'URSS può farlo?
Sulla distensione sono circolate e circolano, nelle metropoli imperialistiche, due dottrine. La prima dice che la distensione è indivisibile, ossia che vale in Europa come in Asia. E' la dottrina delle correnti politiche in minoranza in Germania, in Francia e, fino a ieri, negli Stati Uniti. La seconda dice che la distensione è divisibile, ossia che vale in Europa e può non valere in Asia: la maggioranza delle correnti politiche vi aderisce in Germania e in Francia. In pratica, anche in Italia dove la demagogia cattolica e l'intrallazzo ideologico della sinistra parlamentare impediscono persino un minimo di dottrina di politica estera. Se la tensione afgana si prolungherà, si affermerà, invece, come è già avvertibile, il "partito americano" mentre il PCI si relegherà sempre più nel ruolo del "partito russo" essendosi progressivamente ristretto lo spazio del "partito europeo". Infatti, anche in Francia e in Germania le correnti politiche della dottrina della distensione divisibile sono destinate, nel caso del prolungamento della tensione afgana, a perdere terreno. Già lo stanno perdendo e, all'interno dell'alleanza franco-tedesca si profila, nella teoria e nella pratica, una particolare versione della distensione divisibile.
Mentre in Giappone la maggioranza delle correnti politiche prosegue in una politica estera defilata e senza posizioni chiaramente definite, nel tentativo di condurre una particolare azione di "bilancia di potenze" privilegiante il legame con la Cina, nelle metropoli europee sono in atto importanti rettifiche di politica internazionale e sono in gestazione nuove linee d'azione.
Queste essendo il risultato dello scontro di interessi tra grandi gruppi internazionali (inglesi, tedeschi, francesi in primo luogo) ed essendo in pieno corso la elaborazione e la discussione, queste nuove linee non sono ancora definite. In parte sono condizionate dal rapporto USA-URSS e possono dispiegarsi più lentamente nel caso che l'URSS, di fronte alla pressione USA, faccia qualche passo indietro.
In altra occasione le illustreremo, sia per quanto si esprimono già nella
pratica che per quanto siano ancora allo stadio di dottrine generali. Comunque,
tutte si caratterizzano in duplice direzione: distensiva in Europa con il
congelamento dello status quo e dinamica nel resto del mondo. In sostanza sono
linee che esprimono l'interesse e la volontà di non lasciare al confronto
USA-URSS l'esclusività della contesa nelle zone in sviluppo. Correnti inglesi,
francesi e tedesche dalla tensione sull'arteria del Golfo Persico hanno
ricevuto una spinta ad intervenire nella nuova partita di caccia alle sfere di
influenza. Già vi intervengono con più peso, come dimostrano le incursioni
francesi e inglesi. Ma anche qui siamo appena all'inizio e in discussione è
ancora il calendario di gioco.
(apparso su lotta comunista 114
- febbraio, 1980)
3 Anche l'Europa punta al Golfo Persico
Il prolungamento della tensione afghana ha finito, come era inevitabile e prevedibile al suo sorgere, con il dare corpo a quelle importanti rettifiche di politica internazionale in gestazione nelle metropoli europee alle quali accennammo nel febbraio scorso. Che l'arteria del Golfo Persico abbia più dimensioni nel rapporto tra le potenze non è più una ipotesi ma è ormai un fatto.
All'atto dell'invasione russa dell'Afghanistan fu la Cina, in una dichiarazione del suo governo, a sostenere apertamente che l'azione dell'URSS «rappresenta un grave passo per la penetrazione verso Sud allo scopo di giungere all'Oceano Indiano e controllare le vie marittime. Essa è anche una parte importante della strategia sovietica per impossessarsi delle zone produttrici di petrolio e aggirare l'Europa in modo da assicurarsi l'egemonia mondiale». Ritenemmo che, se ciò era probabile, non era possibile dati i rapporti di forza e dato che si sarebbero messe in moto le nuove linee delle potenze europee. D'altra parte, la politica estera russa è una politica calcolata che utilizza più il ricatto che l'avventura, o per meglio dire, si avventura solo dove ritiene che possa agire il ricatto militare. Tale è il rischio calcolato.
La nostra analisi dei rapporti globali tra le potenze si basa, da tempo, su di una interpretazione di Yalta che ha trovato negli anni alcune particolari conferme e che, ovviamente, solo il futuro potrà giudicare definitivamente come è giusto per ogni ipotesi scientifica. Ci sembra, intanto, che i fatti vadano in quella direzione. Comunque, questo tipo di questioni si risolve non negli anni ma nei decenni. Amadeo Bordiga riteneva che Yalta segnasse il dominio dell'imperialismo statunitense e la conquista finanziaria del mercato cosiddetto socialista da parte degli USA. La teoria del "miliardollaro" su Yalta attribuiva una supremazia all'imperialismo statunitense tale da farlo apparire come un superimperialismo non intaccabile seriamente neppure dalla ripresa, del resto attentamente seguita, degli imperialismi europei.
A nostro avviso, il rapporto tra le potenze imperialiste non può essere ricavato esclusivamente dal rapporto finanziario in quanto che il rapporto finanziario, poggiante su di un rapporto di forze economiche, si esprime in una serie di relazioni concrete. In definitiva, il rapporto tra le forze economiche diventa un rapporto tra gli Stati che dà luogo ad un sistema di equilibri. Il concetto di equilibrio, utilizzato ampiamente da Marx e da Engels nell'analisi delle relazioni internazionali del secolo scorso, è un concetto utile a rappresentare l'azione di molteplici forze economiche che si esplica tramite molteplici Stati che si trovano, oggettivamente, in un sistema di rapporti reciproci. L'azione delle forze economiche sul mercato mondiale determina spostamenti e movimenti sulle sovrastrutture politiche, ma tale determinazione non può avvenire direttamente ma solo attraverso le sovrastrutture politiche stesse. Nel campo della politica mondiale: tramite gli Stati.
Gli Stati vengono a trovarsi l'uno rispetto all'altro in un rapporto di forze che corrisponde, in definitiva, al rapporto tra le forze economiche che li esprimono. Si trovano, quindi, in un rapporto di equilibrio che è un equilibrio globale perché determinato da molteplici forze economiche e realizzato concretamente, specificatamente e contingentemente tramite il rapporto reciproco tra i molteplici Stati. Se il rapporto fosse solo tra due sole forze economiche e tra due soli Stati non vi sarebbe bisogno del concetto di equilibrio per analizzarlo, dato che il rapporto, di estrema semplicità, sarebbe a due forze equivalenti le quali se statiche avrebbero cancellato per sempre il problema e se dinamiche richiederebbero esclusivamente l'analisi del movimento. Anche nel secondo caso, per non parlare del primo, non esisterebbe un terreno specifico per la scienza marxista delle relazioni internazionali, bastando lo studio del movimento economico.
In realtà, il rapporto è tra molteplici forze economiche e tra molteplici Stati. L'analisi dell'equilibrio, di conseguenza, diventa complessa poiché il concetto stesso di equilibrio non è altro che una astrazione, scientificamente fondata, utile a sintetizzare una infinità di nessi reciproci nel sistema di Stati in un momento determinato. L'analisi diventa ancor più complessa quando, per la natura di ineguale sviluppo economico e politico del capitalismo, le forze sono in movimento e mutamento e determinano movimenti e mutamenti nel sistema degli Stati. Alla complessità dell'analisi del movimento delle forze economiche si aggiunge la complessità di una analisi, che non può essere che specifica, sul riflesso che tale movimento ha sul sistema degli Stati. Se si parte da una concezione materialistica della politica internazionale di questo tipo diventa impossibile stabilire, in teoria, la supremazia assoluta di un singolo Stato nell'epoca imperialista. Qualora essa esistesse in termini economici, non si vede come potrebbe affermarsi concretamente nel rapporto con gli altri Stati.
Prendiamo il caso degli Stati Uniti ad Yalta. Erano l'imperialismo più forte, che aveva vinto e che aveva la metà della produzione industriale mondiale. Potevano stabilire una supremazia assoluta su tutto il mondo? Indubbiamente no, altrimenti non avrebbero avuto bisogno di Yalta. Perché? Perché, innanzitutto, l'altra metà della produzione industriale mondiale equivaleva la loro e, se unita, poteva costituire una equivalenza di forza economica. Inoltre, la forza industriale degli USA era il risultato dell'ineguale sviluppo capitalistico. Scartiamo il caso che questo continuasse a giocare a favore degli USA, data la impossibilità di una ipotesi di progressiva unificazione del mercato mondiale in un unico Stato imperialistico che porterebbe alla scomparsa graduale di ogni contraddizione internazionale.
Prendiamo, invece, il caso dell'ineguale sviluppo capitalistico che giocasse a favore degli Stati più deboli o vinti, in altri termini della Russia, dell'Europa e del Giappone. La supremazia statunitense non sarebbe stata più assoluta, ma relativa. E come potrebbe una supremazia relativa mantenere le posizioni acquisite precedentemente con una supremazia assoluta? Evidentemente, se tale supremazia assoluta si fosse concretizzata direttamente in termini finanziari il mantenimento delle sue posizioni sarebbe divenuto impossibile.
Poiché è, in effetti, accaduto che il peso specifico della forza economica e finanziaria degli Stati Uniti, da Yalta ad oggi, si è dimezzato in confronto all'aumento di quello del Giappone, della Germania e della Francia c'è da spiegarsi quale reale consistenza abbia ancora il rapporto di forze stabilito formalmente a Yalta.
In realtà, dal punto di vista del rapporto tra forze economiche, ne ha ben poco. Il criterio di Bordiga, fissato sul rapporto di forze finanziarie, ci aiuta ancor meno a comprendere la reale evoluzione del rapporto tra le potenze. Per districarci da questo groviglio contraddittorio occorre rimettere la questione in piedi sul sistema degli Stati. Ossia, riproporla in termini di equilibrio tra le potenze.
Dividendo la Germania e assegnandone la parte orientale alla sfera di influenza dell'URSS, gli Stati Uniti non stabilivano la supremazia del dollaro ma frenavano la inevitabile ascesa del marco.
Consegnando l'Europa Orientale all'URSS non stabilivano la supremazia del dollaro, non rinunciavano ad un loro mercato, ma stabilivano un equilibrio Germania - URSS che tornava a vantaggio di chi poteva sempre, anche se indebolito, far pendere la bilancia a favore dell'una o dell'altra ed impedire la loro alleanza. Certo, ciò è stato reso possibile dalla supremazia del dollaro ma lo è stato perché ha agito sull'equilibrio delle potenze e lo ha posto in una dinamica che lo sviluppo economico non poteva ribaltare ma solo rinsaldare. Infatti ha determinato lo status quo europeo.
La Germania potrebbe economicamente unificarsi, data la debolezza economica russa, ma non lo può politicamente senza sconvolgere militarmente l'attuale equilibrio. Porta avanti, con l'Ostpolitik, la penetrazione economica e finanziaria nell'Europa Orientale, ma ad ogni suo rafforzamento in questa direzione corrisponde, immancabilmente, un accordo americano - russo che agisce in funzione antitedesca. In questo senso, l'alleanza franco-tedesca è sabotata in vari modi dall'imperialismo americano e dall'imperialismo russo.
L'invasione russa nell'Afghanistan è un ulteriore ostacolo alla lenta espansione tedesca nell'Europa Orientale. La nuova linea Carter ne è la controprova. Bisogna partire da queste premesse oggettive per comprendere come Germania e Francia non possano farsi bloccare in Europa in un equilibrio stagnante con la Russia ma debbano seguire la Gran Bretagna nel Golfo Persico. La dimensione europea del Golfo Persico si è profilata. Quella russa non ha tardato a profilarsi.
Dicono i giornali sovietici che anche l'URSS ha interesse al petrolio del Golfo, confessando così che, di fronte alle difficoltà degli investimenti siberiani, anch'essa può divenire acquirente del petrolio arabo. L'URSS potrà comportarsi come gli Stati Uniti i quali, pur essendo stati i primi produttori mondiali di petrolio, incrementarono i loro acquisti esterni di fronte all'aumento dei costi di estrazione interna. Dicono i giornali russi che gli Stati Uniti pretendono di considerare loro "interesse vitale" il Golfo Persico mentre lo è, in realtà, per l'Europa e per l'URSS. Europa e Russia dovrebbero negoziare un accordo a questo fine. La novità è proprio questa, dato che quella di escludere inizialmente il Giappone lo è un po' meno e ribadisce, caso mai, l'avversione russa all'avvicinamento cino-giapponese.
Se gli europei accettassero le “avances"; russe si troverebbero contro non solo gli americani ma pure i giapponesi che sono, tra l'altro, i maggiori acquirenti di petrolio dal Golfo Persico attraverso loro società di commercializzazione, collegate prevalentemente alle multinazionali statunitensi. In realtà, il discorso russo è rivolto alla Shell, alla BP e alla CFP.
Schmidt risponde che il discorso russo ha una sua logica e che per evitare l'accesso russo al petrolio arabo non c'è che la via della concessione tecnologica americana alla prospezione e alla estrazione nelle zone fredde della Siberia. Il cancelliere dimentica di dire che non è solo una questione di tecnologie statunitensi ad essere in gioco; è una questione di costi e di ingenti investimenti. Chi può, chi deve, chi vuole farli? Giapponesi e americani, per ora, no. Tedeschi, a quanto pare, nemmeno. L'annosa questione dell'industrializzazione siberiana si trascina da anni e trova soluzioni parziali, con il risultato di sospingere verso sud una espansione russa che trova difficoltà verso est.
Non può essere risolto nei prossimi anni il nodo storico che, sciolto, cambierebbe la configurazione dell'Asia come l'industrializzazione dell'Ovest statunitense cambiò la configurazione del continente americano. E poi, non si tratta di soli capitali: occorrono decine di milioni di uomini che il serbatoio demografico sovietico non può fornire e che potrebbe fornire il più capiente serbatoio asiatico. Ma se l'industrializzazione cinese, con l'iniezione di capitale giapponese, dovesse procedere più rapidamente di quella siberiana si può ritenere che le tendenze di fondo, su quel terreno, si siano già delineate.
Comunque, la pressione russa a sud è destinata a permanere. Le metropoli imperialistiche europee ne devono, in ogni modo tenere conto. In primo luogo, perché sospingere l'orso ad est è impossibile senza una spinta gigantesca di investimenti siberiani. In secondo luogo, perché, data questa impossibilità a breve termine, è meglio che l'orso si riversi a sud che ad ovest.
In terzo luogo, perché la pressione dell'orso a sud accelera il movimento in tutta quella zona e riapre la scacchiera delle sfere di influenza. L'Europa ritorna ad est di Suez, dopo che vi si sono consolidate le sue multinazionali. In questo modo ritorna, agitando la bandiera dei palestinesi, anche a Suez dove era uscita nel 1956, sotto la minaccia delle cannoniere di Kruscev e di Eisenhower e i colpi di spillo dei fedayn.
(apparso su lotta comunista n°114 - marzo, 1980)
4 I parametri sconosciuti di Z. Brzezisnski
All'inizio degli anni '70, il Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon enunciò la sua dottrina del pentapolarismo nei seguenti termini:«Io credo che il mondo diventerà più sicuro e migliore, quando si avranno degli Stati Uniti, una Europa, una Unione Sovietica, una Cina e un Giappone forti e sovrani, controbilanciantesi mutualmente, senza agire gli uni contro gli altri, in un vero equilibrio». In questa concezione dell'equilibrio di potenze, in parte rispecchiante quella di H.Kissinger, R. Nixon vedeva il presupposto per giungere a «una generazione di pace».
In altri termini, la dottrina del pentapolarismo implicitamente assegnava agli Stati Uniti il ruolo determinante nella bilancia delle potenze lasciando ad Europa, Unione Sovietica, Cina e Giappone il ruolo determinato ed oggettivo di "controbilanciarsi mutualmente". Il "vero equilibrio", in definitiva, veniva assicurato, nella dottrina del pentapolarismo, dagli Stati Uniti i quali, in questo modo, venivano ad usufruire di un margine di manovra amplissimo, nello spazio di cinque continenti e nel tempo di due o tre decenni della "generazione di pace". H. Kissinger vedrà negli Stati Uniti la "potenza insulare" del nostro secolo alla quale è permessa quella politica di bilancia di potenze che, nel secolo scorso, fu il capolavoro dell'Inghilterra.
Nell'estate del 1972, Z. Brzezinski, in "Foreign policy" attacca la dottrina del pentapolarismo. Già nel titolo la definisce: "Illusione nell'equilibrio di potenze". Perché "illusione"? Perché, dice, «non bisogna confondere l'equilibrio delle forze con le manovre diplomatiche aventi per oggetto di controbilanciare la potenza di uno all'altro Stato, o di aumentare il suo potere d'azione su di esso. Un equilibrio di forze implica qualcosa di più durevole e di più stabile». Ad avviso di Z. Brzezinski non esistono nella realtà mondiale tre condizioni. Prima: «non vi è un "giusto equilibrio" ed esso è improbabile in un futuro prevedibile». Seconda: né le cinque "potenze", né le tre sono in grado di costituire una premessa di uno status quo, essendo questo estremamente fragile. Terza: non si può assicurare il mantenimento dello status quo sulla base della fiducia nel potere e nella diplomazia tradizionale.
Delle cinque potenze indicate da Nixon, solo due, secondo Z. Brzezinski sono «vere potenze, nel senso che esercitano una autorità effettiva, con vantaggi militari ed economici. In effetti, vi è una tale sproporzione tra la loro potenza e quella delle altre tre, che, sul piano del potere, il mondo resta bipolare e lo resterà verosimilmente a lungo. Ciò spiega il 2 nella nostra equazione». Ed ecco l'equazione di Z.Brzezinski: 2 + 1/2 + y + z = il mondo delle potenze. Il 2, lo abbiamo già visto, sta per USA e URSS, il 1/2 sta per Cina. Spiega l'autore: «Siccome la Cina gioca un ruolo sempre più importante, abbiamo ciò che potremmo chiamare un mondo di due potenze e mezza, ma che rappresenta un equilibrio stabile».
Ed arriviamo alla parte più interessante dell'equazione di Z. Brzezinski, la parte che aiuta a comprendere molti degli scontri interni all'imperialismo americano che sono già costati la testa a parecchi artefici della sua politica estera:Le entità Y e Z, che designano in algebra dei parametri sconosciuti, sono rappresentate dall'Europa e dal Giappone. Né l'una né l'altro posseggono una potenza militare notevole e, secondo tutte le previsioni, non l'acquisiranno tanto presto. Né l'una né l'altro hanno obiettivi politici definiti e non lo avranno nel prossimo avvenire. Tuttavia l'Europa e il Giappone sono potenze economiche maggiori e questo fatto riserva loro, virtualmente, un ruolo politico importante».
In sostanza, per Brzezinski, Europa e Giappone sono grandi potenze economiche ma non grandi potenze militari e grandi potenze politiche. Non sono neppure mezze potenze, come la Cina; sono semplicemente "parametri sconosciuti". L'equazione di Z. Brzezinski, però, è valida, da un lato, e non valida, da un altro. Non è valida perché il rapporto fondamentale tra le potenze è il rapporto di forza economica. Non è un caso che la Cina sia considerata una mezza potenza malgrado abbia obiettivi politici definiti e, quindi, autonomia di potenza militare. Se la Cina non è grande potenza militare è perché non è grande potenza economica. Europa e Giappone, invece, sono grandi potenze economiche ma non sono grandi potenze militari.
E qui sta la validità dell'equazione di Z. Brzezinski. Grandi potenze economiche che non siano grandi potenze militari sono, è vero, "parametri sconosciuti" nell'equilibrio di potenze; non perché impediscono l'equilibrio ma perché possono alterarlo in proporzioni sconosciute. Nell'equazione, il dato certo e conosciuto è la loro potenza economica e quello incerto e sconosciuto è la traduzione in potenza militare della loro potenza economica. Ciò è abbastanza naturale nella storia delle relazioni internazionali dove, spesso, la potenza economica non si esprime con una equivalente potenza militare e dove, di conseguenza, è difficile stabilire quali siano effettivamente i rapporti di forza militare.
La traduzione della potenza economica di uno Stato in potenza militare dipende da una molteplicità di fattori interni ed esterni, dall'incidenza di alcuni interessi interni in confronto ad altri, dal prevalere di alcune direttrici di espansione esterna in confronto ad altre, dalla influenza di alcune relazioni con determinati Stati in confronto ad altre, infine dalla contingenza dello stesso equilibrio di potenze. L'incognita viene ad essere costituita, perciò, dal potenziale militare di uno o più Stati e, soprattutto, dalla loro capacità spaziale e temporale di traduzione militare della potenza economica. Tale incognita lascia un certo margine alla strategia internazionale e alla strategia militare di ogni singolo Stato ma, nello stesso tempo, rende incognito il suo esito.
La dottrina militare rispecchia abbastanza fedelmente, in tutta la sua storia, l'incognita della traduzione militare della potenza economica. In questo senso, la formula di Clausewitz della guerra come continuazione della politica con altri mezzi non vuole dire altro. Parafrasando, potremo dire che la potenza militare è la continuazione della potenza economica con i mezzi della politica internazionale.
Quando Z. Brzezinski afferma che Europa e Giappone non hanno obiettivi politici definiti e non hanno potenza militare in fondo afferma che non hanno obiettivi politici definiti perché non hanno potenza militare. Quando Z. Brzezinski afferma che, mancando di potenza militare e di obiettivi politici definiti, Europa e Giappone non possono costituire due poli conosciuti e valutabili del pentapolarismo in fondo afferma che, in queste condizioni, non vi può essere un "durevole", "stabile", "giusto equilibrio", per gli Stati Uniti. Poiché un equilibrio di potenze esiste e ad esso concorrono, indubbiamente, i due "parametri sconosciuti", costituiti da Europa e Giappone.
Si può dire di più: l'Europa è un risultato di equilibrio costituito da quattro "parametri sconosciuti" europei, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia. L'Europa della equazione di Brzezinski non esiste. Esistono potenze economiche imperialistiche che possono allearsi in una superpotenza europea e possono farlo solo attorno al perno tedesco. L'alleanza franco-tedesca può agire da spinta in tal senso, ma a prescindere dalle sue interne contraddizioni, non è ancora sufficiente. Essa ha bisogno almeno dell'accordo inglese per controbilanciare le controspinte americane e russe, isolate e spesso unite.
E' inevitabile che una grande alleanza europea di questo tipo e un processo di formazione di una nuova superpotenza di questa dimensione comporti un proporzionale aumento di potenza militare che si basi sul già consistente apparato militare tedesco, francese e inglese, il quale nel decennio scorso ha continuato a crescere. Ebbene, un processo di tale portata significa la liquidazione definitiva dell'assetto uscito dalla seconda guerra mondiale imperialistica,
Lo stesso discorso vale per il Giappone. Non è una valutazione accademica quella di Z. Brzezinski per cui "secondo tutte le previsioni", Europa e Giappone non acquisiranno tanto presto "una potenza militare notevole": è una linea di politica internazionale. Così come è una linea di politica internazionale il suo rifiuto del pentapolarismo e le sue "priorità triangolari", con al centro gli Stati Uniti. Le "priorità triangolari", sulle quali ci soffermeremo in altra occasione, rifiutano il pentapolarismo ma anche la stretta versione del "bipolarismo", di una certa fase kissingeriana. Una loro esemplificazione può essere vista nel gioco della "mezza potenza" o "carta cinese".
Comunque, esse si basano sulla netta contrapposizione alla liquidazione dell'assetto di Yalta e sull'adeguamento alla situazione di movimento determinata dalla lenta liquidazione di quell'assetto ad opera delle potenze riemergenti e delle potenze emergenti. Europa e Giappone sono i "parametri sconosciuti" dell'una e dell'altra. La contesa sul Golfo sta accelerando nuove equazioni nell'algebra dell'imperialismo mondiale e dei suoi protagonisti più o meno conosciuti.
(Apparso su lotta comunista n°
117 - Maggio, 1980)
5
Declino delle priorità triangolari
La politica estera dell'imperialismo statunitense, negli anni '70, oscilla tra una concezione pentapolare, una concezione multipolare e una concezione tripolare delle relazioni internazionali. La concezione bipolare, del resto, non trova più corrispondenza con una situazione in movimento che ha visto il riemergere di vecchie potenze e l'emergere di nuove. Il rigido bipolarismo USA-URSS è, ormai, esaurito e il tentativo kissingeriano di prorogarlo provoca crisi politiche nella stessa classe dominante americana e costringe R. Nixon a teorizzare il pentapolarismo e H. Kissinger a rettificare il bipolarismo in un tripolarismo che, in sostanza, sarà ereditato e proseguito dalla Amministrazione Carter. Se il dibattito sul pentapolarismo, all'inizio del decennio scorso, non ha trovato soluzione pratica neppure con la Amministrazione Carter, la quale ha riproposto al suo interno la divergenza tra Z. Brzezinski, C. Vance e E. Muskie, è perché la conduzione di tipo tripolare delle relazioni internazionali da parte della metropoli americana ha incontrato ostacoli insormontabili ed ha imposto scelte non ancora definitive. In altre parole, la concezione tripolare di Z. Brzezinski non è riuscita ad essere la concezione generale della politica estera USA e non vi è riuscita perché, da un lato, non è riuscita ad abbracciare tutti gli interessi dell'imperialismo americano e, dall'altro, non è riuscita a seguire tutti i movimenti dei rapporti reciproci tra vecchie e nuove potenze. I "parametri sconosciuti", costituiti dall'Europa e dal Giappone, hanno accentuato la loro incalcolabile presenza ed hanno cominciato a modificare la equazione di Z. Brzezinski.
La politica estera di una metropoli imperialistica, anche se ha di fronte "parametri sconosciuti" per cui non riesce a far quadrare una equazione di equilibri di potenze, è pur sempre mossa da interessi concreti e, in gran parte, immediati. Essa è l'espressione di alcune decine di grandi gruppi finanziari-economici proiettati sul mercato mondiale ed intenti a modificare a loro vantaggio i rapporti politici tra gli Stati esistenti nell'arena mondiale. Siccome tali interessi specifici non coincidono, e a volte contrastano, non vi può essere una politica estera ideale ma vi può essere solo una serie di politiche estere potenziali. Esse trovano vari interpreti che le riassumono in schemi generali, che le razionalizzano in apposite dottrine, che le propagandano in termini accessibili e divulgativi, che le propugnano in contrasto con altre. Via via tali istanze di politica estera trovano punti di contatto con altre e, sulla base di concordanza di interessi, si aggregano in alcune linee semi generali. Sarà, poi, dalla mediazione successiva e dal compromesso raggiunto che sorgerà la linea generale di politica estera di uno Stato imperialistico, dopo che le linee rappresentanti interessi troppo settoriali e minoritari sono state scartate e che le linee rappresentanti gli interessi più consistenti si sono ravvicinate.
Solo in casi estremi, coalizioni equivalenti di interessi non riescono a dar luogo ad una linea generale di politica estera e provocano una profonda crisi politica. Spesso la coalizione riesce ad allargarsi al punto di esprimere una linea generale comprensiva della stragrande maggioranza degli interessi in gioco e dei grandi gruppi finanziario-economici. Questo non vuol dire che la linea generale lo sia in modo definitivo. Data la natura del suo processo di formazione e data la natura degli interessi in gioco, che a loro volta sono influenzati dal movimento internazionale stesso, ogni politica estera di uno Stato imperialista è soggetta ad oscillazioni, a correzioni, a svolte. Le attuali relazioni internazionali, provocate dalla nuova contesa tra le potenze imperialistiche, stanno a dimostrarlo. Il dibattito statunitense ne è, tra l'altro, un chiaro esempio. Se si tengono presenti queste cose si capisce meglio cosa significhi il pentapolarismo, il multipolarismo, il bipolarismo e il tripolarismo.
Vediamo come uno degli artefici della politica estera USA, Z. Brzezinski, sostenga il tripolarismo in una particolare versione, quella delle "priorità triangolari". E' in fondo questa particolare versione che viene contrastata, sia negli Stati Uniti che fuori.
Che l'Europa e il Giappone abbiano dei rapporti reciproci e li abbiano singolarmente con l'URSS costituisce, per Z. Brzezinski un motivo di considerazione sull'equilibrio di potenza. Infatti, pur non accettando che possa esistere un "giusto equilibrio" nella concezione pentapolare di R. Nixon, dice che lo stesso Nixon non può pensare che sia un "giusto equilibrio" il rapporto URSS/Europa e il rapporto URSS/Giappone considerato eguale al rapporto USA/Europa e al rapporto USA/Giappone. Se ciò fosse una realtà non si potrebbe, secondo l'autore, neppure pensare di raggiungere un equilibrio. Dal punto di vista di un equilibrio favorevole agli USA, ciò è vero. Possiamo, però, aggiungere che l'equilibrio sarebbe diverso da quello degli anni '70. La nuova contesa interimperialistica, apertasi negli anni '80, dimostra quanto possa divenire diverso, anche se gli interessi ad una ripartizione USA-URSS sono ben presenti e finiranno con il prevalere. Comunque nella nuova contesa protagonisti di rilevante peso sono anche Giappone ed Europa e questi protagonisti finiscono con il fare contare il loro peso. In quale misura non è possibile sapere perché ci troviamo di fronte a tre incognite.
Prima: la nuova contesa tra le potenze imperialistiche per la ridefinizione delle sfere d'influenza è appena agli inizi. Il periodo che è stato chiamato di distensione, basato prevalentemente sul rapporto bipolare USA/URSS avente il carattere di una sostanziale alleanza, è definitivamente esaurito. Incrinato già al finire degli anni '60, subisce scossoni negli anni '70 ed accelera la sua decadenza sul finire del decennio, con l'ingresso massiccio del Giappone in Cina e con l'alleanza franco-tedesca concretizzatasi nello SME. Bloccata ad Est ed ad Ovest, la Russia dà il colpo di grazia al periodo della cosiddetta distensione e, con la espansione al Sud, riapre la nuova caccia alle sfere di influenza. La partita è aperta.
Seconda: Europa e Giappone sono, appunto, "parametri sconosciuti". Conosciamo la loro potenza economica ma non sappiamo come e quanto questa può tradursi in potenza politica e militare nell'iniziante periodo della nuova contesa imperialistica
Terza: l'Europa non esiste come potenza imperialista unificata. Esiste una alleanza tra la potenza francese e la potenza tedesca. Assieme queste possono rappresentare circa un sesto della potenza mondiale; ma la alleanza è soggetta a tensioni, divaricazioni, rigidità, anche se in essa prevalgono le ragioni di unità. Malgrado queste tre incognite, e forse proprio grazie ad esse, possiamo ritenere che sia in declino quel tipo di relazioni internazionali che Z. Brzezinski chiama "priorità triangolari".
Lo stratega dell'imperialismo americano ritiene che possano sussistere anche
se il ritmo dei mutamenti socio-economici e politici è molto più rapido di
quello che ha regolato il Congresso di Vienna ed il secolo scorso. Prevede però
che: «Un deterioramento progressivo delle condizioni socio-economiche e
politiche del Terzo Mondo imporrà, per la forza delle cose, scelte politiche e
morali alle potenze dell'equazione 2-1/2 + y + z ed esaspereranno le differenze
che le separano». E' quello che sta accadendo, anche se il termine
"deterioramento" dovrebbe essere sostanziato con la realtà dello
sviluppo. Per rappresentare la teoria di Z. Brzezinski sulle "priorità
triangolari", la cosa migliore è quella di riprodurre il suo diagramma:
«In
seno a questi diversi rapporti triangolari, gli USA hanno guadagnato un campo
considerevole di manovre diplomatiche. Gli USA sono attualmente impegnati
attivamente in due combinazioni maggiori e in due combinazioni minori, essendo
impegnate le altre parti unicamente in una di queste manovre», dice Z.
Brzerinski dopo aver precisato che: «Al presente, e senza dubbio per qualche
tempo ancora, esiste la combinazione di un mondo di forze bipolari con multiple
interazioni statali». Teniamo presente che ciò viene detto nei primi anni '70,
anche per avere più chiara l'azione di una parte dell'Amministrazione Carter,
da un lato, e per verificare di quanto si sia modificato il quadro esposto,
dall'altro.
Per Brzezinski, vi sono due triangoli che si accavallano: uno di competizione (USA, Cina, URSS) e l'altro cooperativo e di alleanza (USA, Europa, Giappone). Questo sarebbe il perno del "gioco di potenze multiple", basato fondamentalmente sugli Stati Uniti e sul rapporto bipolare USA-URSS.
Se cessasse questo rapporto bipolare vi sarebbe squilibrio e, siccome l'autore precisa che solo gli USA sono impegnati in tutte le combinazioni e che le altre potenze sono impegnate unicamente in una, ne deriva che qualora ogni polo entrasse in un rapporto triangolare e in una combinazione che non faccia perno sugli Stati Uniti ne verrebbe modificato il «mondo di forze bipolari con multiple interazioni statali», come lo chiama Z. Brzezinski il quale, non dimentichiamolo, ritiene illusorio credere che vi sia attualmente un equilibrio di potenze.
In fondo, nella sua dottrina, l'unico equilibrio è costituito dagli Stati Uniti che sono il perno dei due triangoli che si accavallano. Ogni rapporto triangolare deve, quindi, passare per gli Stati Uniti e comprenderli. Un rapporto Giappone/Cina/Europa, ad esempio, esce fuori dal diagramma delle "priorità triangolari" e costringe, ovviamente, gli Stati Uniti ad operare con altre priorità. Ci vuol poco a capire con quale: con quella bipolare USA/URSS.
Il diagramma, a ben guardarlo, è di una chiarezza impressionante. Asia ed Europa possono, sommando le loro potenze, superare la potenza della Russia e la potenza dell'America, prese singolarmente. Russia e America sarebbero costrette a sommare le loro potenze per equilibrare quelle congiunte di Asia ed Europa.
Una situazione di questo genere non si è mai verificata nella storia. Anche nella seconda guerra mondiale imperialistica si è avuta una alleanza Germania e Giappone contro gli Stati Uniti ma non una alleanza nippo-tedesca contro l'URSS. Il declino delle "priorità triangolari" può riservare molte sorprese.
(Apparso su lotta comunista n°
118 - Giugno, 1980)
6
L'ascesa delle terze potenze
Una tornata di incontri al vertice si è addensata in poco più di un mese, segnando anche nella intensità la straordinaria attività delle relazioni internazionali. Messe in moto da avvenimenti sconvolgenti non possono che seguirli nel lavorio diplomatico. La diplomazia spesso predispone il terreno per l'azione degli Stati, ma sempre si trova, in determinati momenti di svolta, di fronte ai fatti compiuti, determinati dalla più profonda azione economica ed eseguiti dalla immediata azione politica e militare. Deve, quindi, correre a riallacciare la ragnatela dei contatti, dei sondaggi, delle proposte, dei progetti, degli incontri.
La sua frenetica attività è in rapporto proporzionale allo sconvolgimento avvenuto. E' quello che sta accadendo e il delinearsi di un sistema di Stati a ridotto rapporto bipolare e ad aumentato rapporto multipolare non può che esasperare l'attività diplomatica stessa. Uno dei tanti incontri di quelli avvenuti avrebbe, in altro momento, fatto storia a sé. In questo momento, invece, deve essere visto come un aspetto di un complessivo gioco multipolare. Lo stesso vertice a Sette di Venezia, per quanto importante, deve essere analizzato come una delle tante mosse con le quali si è intrecciato. In questo senso, il sesto vertice economico si differenzia da quelli che lo hanno preceduto e che hanno costituito il punto di riferimento principale, per ogni singolo anno, per le relazioni internazionali. Si differenzia anche per il tema energetico che ha affrontato. Vediamo come.
Le grandi compagnie petrolifere la tempo stanno operando una diversificazione di investimenti che le trasforma in grandi imprese energetiche. Anche le compagnie statunitensi seguono questa via, anzi la precedono. Sotto molti aspetti una impresa petrolifera è una impresa mineraria in quanto vi è una attiguità nei procedimenti lavorativi specie per la prospezione e l'estrazione; di conseguenza, la ristrutturazione dell'industria petrolifera non trova particolari ostacoli d'ordine tecnico. Il problema fondamentale è, invece, la decisione d'investimento in quanto richiede ingenti capitali e lunghi tempi di realizzo sia per il petrolio che, ad esempio, per il carbone. Porre in attività un pozzo petrolifero o una miniera carbonifera richiede da mezzo ad un miliardo di dollari e, quindi, la convenienza si calcola su il probabile prezzo futuro di mercato del prodotto. Ciò spiega perché, pur essendo presenti nell'industria carbonifera tutte le principali società petrolifere americane, lo siano in proporzioni diverse.
Da anni, negli Stati Uniti, è incorso uno scontro tra le grandi società petrolifere, sia con singole imprese che in alleanza con altri gruppi minerari, riguardante l'investimento nel carbone. Questo scontro, assieme a molti altri, si riflette sulle correnti politiche nella campagna presidenziale, dalle primarie alle convenzioni. Indubbiamente è il candidato J. Carter quello che sostiene maggiormente l'investimento carbonifero e non è un caso che questi interessi li abbia sostenuti, con una probabile adesione dei tedeschi, al vertice di Venezia.
La linea carbonifera uscita da questo vertice è significativa per il modo nuovo di impostare il rapporto con l'OPEC e, di conseguenza, con i consorzi petroliferi. Certamente dall'enunciazione di principio contenuta nel comunicato all'attuazione c'è un intervallo di tempo da verificare. Solo tra qualche anno si potranno delineare le tendenze operanti in campo energetico; però, è indicativo il fatto che, nell'ultimo anno, siano crollati gli investimenti di prospezione e di estrazione, ma non quelli di raffinazione, nel Golfo Persico. Se continuasse un tale andamento, la riduzione del peso del Golfo nella bilancia energetica mondiale diventerebbe inevitabile. Va da sé che ancor più inevitabile diventerebbe la controtendenza all'investimento.
Il risultato contingente è, comunque, un allentamento, seppur minimo, della tensione sul Golfo Persico, anche a causa di una minore domanda mondiale, di una maggiore offerta di altre zone petrolifere, di un minore consumo energetico per unità di prodotto. Da questa condizione oggettiva scaturisce, oltre che da altri fattori, l'avallo del vertice all'iniziativa tedesca verso l'URSS. E' nostra opinione, non soggettiva ma ispirata da una considerazione sui rapporti di forza, che Gran Bretagna e Giappone siano stati determinanti nell'isolare gli Stati Uniti di fronte al una iniziativa, la quale, indipendentemente dal suo esito, segnava ufficialmente un ridimensionamento degli Stati Uniti stessi.
Pur conservando l'alleanza con gli USA, ogni potenza partecipante al vertice ha un suo interesse specifico a diminuire il peso politico dell'alleato, essendo la diminuzione del peso economico un fenomeno oggettivo in atto da parecchi anni. Per la Francia, che ha stretto una alleanza speciale con la Germania, ciò è evidente. Tralasciando l'Italia che è la più stretta alleata degli Stati Uniti, anche se certamente non rifiuta il beneficio che le deriva dal gioco multipolare imposto dagli altri, meno evidente è per la Gran Bretagna e per il Giappone. Se si interpreta l'iniziativa tedesca in termini ideologici di maggiore o minore "distensione", effettivamente diventa difficile comprendere la reale posizione inglese e giapponese. Con la chiave della "distensione" non si apre più alcuna porta. E in atto non la conservazione della "distensione" ma una nuova contesa imperialistica per la ripartizione delle sfere d'influenza.
Quando la Russia invade l'Afghanistan sa perfettamente che accelera questa nuova contesa, ma sa anche che l'espansione a Sud è la carta più importante che le rimane di fronte ad un Giappone che ascende ad Est, utilizzando la carta cinese, ed una Germania che ascende ad Ovest, rafforzando l'alleanza con la Francia e stabilendo, tramite lo SME, una solida egemonia sull'Europa Occidentale. L'URSS sa che non può arrestare la tendenza oggettiva dell'ascesa della potenza giapponese e della potenza tedesca e valuta che, dato l'indebolimento americano, non può arrestarlo neppure mantenendo uno stretto rapporto bipolare con gli USA.
Anzi, sono proprio gli Stati Uniti a prendere atto di tale impossibilità e ad inserirsi nel gioco della carta cinese aperto dal Giappone. Per l'URSS la "distensione" è, quindi, finita, anche se continua ad usarla in termini propagandistici. Con la sua iniziativa, l'URSS lascia aperta l'ascesa ufficiale della Germania, della Francia, del Giappone e della Gran Bretagna. Aperta, in questo modo, la nuova contesa imperialistica è inevitabile che ogni potenza aspiri ad ascendere e che ognuna punti a indebolire gli Stati Uniti, anche se ne è alleata. Tra il vertice di Venezia e l'incontro di Mosca, Parigi tira fuori la bomba N e dichiara che è pronta a produrla in serie. E' uno dei risultati della nuova contesa imperialistica, ed è il segno del riarmo in atto; tanto è vero che nessuno protesta.
Ogni potenza cerca di trarre vantaggio dalla nuova situazione di movimento e la Francia, dopo la Russia in direzione del Golfo, ne ha tratto il suo. La bomba N è un'arma tattica, da "battaglia in avanti", estranea alla strategia della "dissuasione". Essa può essere concepita solo per il teatro europeo e per un utilizzo combinato in un quadro di alleanze. La discussione, principalmente tra giscardiani e gollisti, che ha accompagnato, in Francia, la sua preparazione e la sua nascita è stata incentrata sul suo carattere di arma europea. I gollisti più ortodossi sostengono che sacrifica la strategia autonoma francese all'alleanza militare con la Germania. I giscardiani, appoggiati dai gollisti governativi, rispondono che il quadro mondiale sta mutando, che la vecchia strategia militare non è più possibile e che occorre puntare sulla forza militare europea dove la Francia, potenza nucleare, avrà l'egemonia.
Alla supremazia economica della Germania, secondo loro, la Francia può aggiungere la superiorità militare nucleare e bilanciare l'asse dell'alleanza franco-tedesca, frenando, da un lato, l'eccessivo peso tedesco e trattenendo, dall'altro, la pressione russa alla neutralizzazione della Germania in cambio dell'unificazione. L'alleanza franco-tedesca, cementata dalla potenza nucleare, legherebbe in modo definitivo la RFT all'Europa Occidentale, vanificherebbe ogni sua tentazione, del resto tradizionale, di pendolarità tra Est ed Ovest, toglierebbe spazio ad ogni manovra sovietica.
Da questa base di forza (e non tanto dagli euromissili voluti dai tedeschi per condizionare gli americani, per respingere le offerte francesi, per poter trattare con i russi, ma che gli americani possono sempre usare come pedina di trattativa con i russi stessi), l'asse franco-tedesco può veramente trattare con l'URSS da posizione di vantaggio e sfruttare il relativo indebolimento degli USA per allargare la sua sfera di influenza nel Medio Oriente e in Africa e, in prospettiva, nell'America Latina. Questa strategia giscardiana è in incubazione da tempo e sarebbe stata portata avanti comunque, poiché gioca sul vantaggio che ha la Francia di essere una delle quattro potenze vincitrici della Germania, di essere una delle quattro potenze occupatrici e di essere, infine, una delle quattro potenze garanti degli accordi su Berlino. L'invasione russa dell'Afghanistan l'ha resa pienamente possibile.
E' la Germania, però, che non l'accetta, per ora e forse per il futuro, perché lascia la chiave della potenza militare in mano alla Francia. La RFT avrebbe tutti gli svantaggi dell'essere potenza nucleare ricavandone pochi vantaggi. Diventerebbe una potenza nucleare ma minorenne, senza la chiave in tasca, come, del resto, lo è con gli euromissili degli americani.
D'altra parte, una potenza nucleare autonoma la Germania non lo può diventare a breve scadenza perché glielo impedirebbero le quattro potenze vincitrici, la Francia per prima. Perciò continua ad usare, con i russi, con gli americani, con gli inglesi, con i francesi stessi, la carta degli euromissili. La Francia, per forzare il gioco, introduce la bomba N.
Helmut Schmidt ritorna da Mosca con una semidisponibilità di Leonida Breznev a trattare, senza le pregiudiziali della ratifica del Salt II e del ritiro della decisione NATO sugli euromissili, sulle armi di "teatro" europeo. Ma quali armi nucleari? Tutte, anche la bomba N francese? Qui l'altalena delle mezze frasi ambigue e delle dichiarazioni ufficiose diventa frenetica. Se la trattativa include anche la bomba N è chiaro che coinvolge anche la Francia, se non la include, come sembra, rimane a due. Per ora la palla, o per meglio dire la palla al neutrone, è rimbalzata ai piedi di Jimmy Carter che l'ha rispedita subito a Tokyo dove ha ripreso la triangolazione antirussa con Cina e Giappone.Ad una mezza porta aperta all'Ovest, l'orso si ritrova subito una tripla porta in faccia ad Est.
Il copione dei suggeritori del dialogo distensivo deve saltare, a questo punto, qualche pagina. Tra bombe N ed euromissili ad Ovest, carri armati russi a Sud, riarmo giapponese e cinese ad Est, tre o quattro piccole potenze che sconfinano ogni giorno, un paio di flotte americane che scorazzano su tre Oceani e il coro muto del Terzo Mondo, hanno più ben poco da suggerire.
Non si accorgono che, dopo trentacinque anni dalla sua sconfitta, la potenza tedesca è diventata ufficialmente, riconosciuta e corteggiata da tutte le altre, la terza potenza imperialistica mondiale, in attesa, però, di essere soppiantata da quella giapponese. Questa pagina, che segna una nostra vittoria teorica, era scritta da alcuni decenni nel libro maestro del marxismo dell'analisi dei lunghi cicli economici e delle svolte politiche. Oggi tutti possono leggerla.
(Apparso su lotta comunista n° 119 - Luglio, 1980)
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I fattori della nuova contesa imperialistica
La ripartizione del mondo in sfere di influenza e, in alcuni casi, di controllo da parte delle potenze imperialistiche avviene sulla base della loro forza economica, la quale si esprime in forza politica e militare. Quando si parla di sfere di influenza e, in alcuni casi, di controllo non bisogna intendere un qualcosa che assomiglia ad un disegno, un progetto, una trama come sempre vien rappresentato dalla polemica politica, dalla grande stampa e dalla pubblicistica imperante in Italia. Questo modo volgare di concepire le relazioni internazionali è puramente fantastico, non corrisponde alla realtà ed è estraneo alla serietà scientifica della scuola marxista la quale non è andata a ricercare le caratteristiche dell'imperialismo nei complotti, nelle alcove e nei pettegolezzi.
Le sfere di influenza dell'imperialismo sono un qualcosa di ben più profondo ed oggettivo perché sono il risultato dinamico di una fitta rete di interessi tra imprese, tra settori, tra mercati: dove si stabilisce una infinità di rapporti soggetti, a loro volta, ad una infinità di variazioni. Dice Trotsky che la vita sociale corrisponde più alla biologia che alla meccanica. Ciò è ancor più vero quando il corpo della vita sociale è il mondo e quando le relazioni che vi intercorrono hanno la dimensione internazionale.
Siccome il processo che trasforma la forza economica in forza politica e militare non si svolge in modo rettilineo e simultaneo, necessariamente dà luogo ad una serie di tensioni e di scontri di tipo economico, finanziario, commerciale, monetario e politico. Se il peso economico si traducesse meccanicamente in un peso politico basterebbe un calcolatore a regolare le relazioni internazionali. Non vi sarebbero le lotte, gli scontri, le guerre dell'imperialismo.
E' assurdo pensare ad un mondo di potenze statico ed in equilibrio perpetuo. Il mondo è un campo di forze, piccole, medie, grandi in continuo movimento perché è un campo di forze che variano in termini economici, dato lo sviluppo ineguale del capitalismo. Ciò avviene non solo sul terreno economico ma pure sul terreno politico, dato che le forze economiche tendono ad esprimere una corrispondente forza politica.
L'attuale campo mondiale di forze economiche comprende parecchi milioni di piccole imprese, parecchie centinaia di migliaia di medie imprese, parecchie migliaia di grandi imprese, alcune migliaia di grandi gruppi ed alcune centinaia di grandi insiemi finanziari-economici. Questi fattori dinamici modificano in continuazione il peso delle forze economiche e, nel lungo periodo, il rapporto tra gli Stati. Ma come possono influire sul breve periodo e in che modo è compito della analisi marxista delle relazioni internazionali stabilirlo. Nessuna teoria può sostituire la necessità dell'esame del processo in corso.
Occorre iniziare dai fattori economici per stabilire il mondo delle potenze e per potere analizzare in che modo possono giocare il ruolo di potenze politiche. In base al prodotto lordo una ventina di Stati conta sopra, o attorno, il centesimo, ossia è composta da Stati ciascuno dei quali ha un peso economico superiore, o attorno all'1 per cento del prodotto lordo mondiale. Possono essere considerati medie potenze e sono i protagonisti principali della scena politica internazionale. Una ventina di Stati conta sopra, o attorno, il centesimo, ossia è composta da Stati ciascuno dei quali ha un peso economico superiore, o attorno all'1 per cento del prodotto lordo mondiale. Possono essere considerati medie potenze e sono i protagonisti principali della scena politica internazionale.
Questa ventina di potenze rappresenta circa l'85% del prodotto lordo mondiale. Gli altri 141 Stati rappresentano, quindi, il restante 15% e possono essere considerati piccole potenze; però un 12% va ad una quarantina di Stati ed il rimanente 3% va ripartito tra gli ultimi cento Stati che possono essere considerati piccolissime potenze. In sostanza, cento piccolissime potenze contano economicamente per il 3 per cento, quaranta piccole potenze per il 12% e venti medie potenze per l'85%. Le prime dieci di queste rappresentano il 72% del totale mondiale e possono essere considerate grandi potenze. Questa è la scala piramidale delle potenze economiche e la graduatoria mondiale delle forze economiche.
Se consideriamo la produzione industriale, includente l'attività estrattiva, troviamo una scala piramidale analoga, anche se con alcune variazioni che non approfondiamo dato che ciò richiederebbe una trattazione statistica a parte, con inevitabile e necessario confronto di numerose fonti. In questo caso si dovrebbero trattare, oltre ai centesimi di produzione industriale mondiale, millesimi, decimillesimi e centomillesimi. In questa sede ci basti un confronto ad alto grado di aggregazione, sufficiente comunque a fornirci un quadro delle forze industriali.
Anche qui le prime dieci potenze industriali rappresentano il 72% della produzione industriale mondiale, le seconde dieci il 13%, altre quaranta il 14% e le ultime cento l'1%. Nella produzione industriale manifatturiera la variazione, specie per le piccolissime potenze, diventa ancora più sensibile. In definitiva, significative sono realmente le prime venti potenze mondiali e, in subordine, le seconde quaranta. Per dare una immagine ancora più chiara suggeriamo un paragone con la graduatoria delle imprese costruttrici di automobili e veicoli industriali. Se paragoniamo le prime 161 imprese mondiali e i 161 Stati ricostruiamo una impressionante analogia nelle due scale piramidali.
Questa è la base oggettiva sulla quale poggiano le relazioni internazionali e dalla quale si sprigionano incessantemente i tentativi di modificarle in un verso o nell'altro. Spesso i mutamenti avvengono in modo impercettibile, tramite una infinità di azioni reciproche, ma molto più spesso si vengono a creare situazioni che impediscono i mutamenti delle relazioni internazionali. Se le modificazioni nel rapporto di forze economiche sono state consistenti, ogni situazione che presenta forti ostacoli d'ordine politico ad una corrispondente modificazione nelle relazioni tra gli Stati diventa esplosiva.
Quando la ripartizione del mondo in base alla forza economica non riesce a compiersi, dati gli innumerevoli ostacoli d'ordine politico, si creano le condizioni oggettive per una soluzione di tipo bellico. L'ultima grande ripartizione del mondo è quella che ha seguito la seconda guerra mondiale imperialistica durante e per mezzo della quale la Germania, alleandosi all'Italia e stabilendo un compromesso con la Francia sconfitta militarmente, ha cercato di dominare il mercato europeo e il Giappone, cercando di fare leva sulle borghesie nazionali dei paesi asiatici conquistati, ha cercato di creare un mercato asiatico escludendo militarmente le potenze occidentali.
Gli Stati Uniti, appoggiando l'URSS che pagava seccamente il tipo tedesco e il tipo giapponese di ripartizione mondiale e sostenendo la Gran Bretagna, anch'essa destinata a pagare le spese di quella ripartizione che in buona parte avveniva sui suoi possessi, riuscirono ad impedire quelle due ripartizioni e a sconfiggere duramente i suoi promotori. Lo stesso andamento della guerra, combattuta dagli USA sui due fronti e contro le due ripartizioni, lo dimostra. Gli Stati Uniti, portando avanti la linea della "resa incondizionata", ridussero talmente la forza economica dei loro avversari e concorrenti da portarla praticamente alla inefficienza con il calcolo, abbastanza fondato, che questa dovesse durare per alcuni decenni.
La stessa linea di condotta è valsa anche per i loro alleati, anche se erano interessati alla linea della "resa incondizionata". Gran Bretagna e Unione Sovietica, che pur avevano interesse a che Germania e Giappone uscissero dal conflitto sconfitti e ridimensionati al massimo tanto da propugnare la divisione della Germania stessa, finirono con il pagare a caro prezzo, almeno per il decennio post bellico, la soluzione finale concordata con gli USA della guerra, ma soprattutto voluta ed imposta dalla potenza americana. E' vero che l'URSS ricevette, nella ripartizione di Yalta, l'Europa Orientale; ma ciò in un altro contesto e che, comunque, non cancella il fatto che l'URSS dovesse pagare con un progressivo indebolimento la continuazione del conflitto tesa a spezzare talmente la forza della Germania da poterla occupare e dividere. D'altra parte una "resa condizionata", con ogni probabilità, sarebbe andata a scapito della espansione della potenza russa la quale veniva, così, a trovarsi tra la padella e la brace.
Non bisogna dimenticare un dato che quasi sempre è taciuto: mentre tutte le altre potenze belligeranti si indeboliscono economicamente e militarmente negli ultimi due anni di guerra, quella statunitense si rafforza in modo straordinario. Si può dire, sulla base di tutta una serie di indicatori e, soprattutto, di quelli riguardanti la produzione industriale, che più continuava quel tipo di guerra che aveva impresso un altissimo ritmo di distruzione e di produzione industriale, più si rafforzavano gli Stati Uniti. Di fatto essi si trovavano ad avere quasi la metà della produzione industriale mondiale.
Thomas A. Siefring, nella sua opera "L'US Air Force durante la seconda guerra mondiale", documenta come durante i bombardamenti sulla Germania vennero persi ben 8314 aerei e 6378 equipaggi. Sono annate di produzione della Boeing, della Mc Donnel-Douglas, della Lookheed! Nel 1943 gli USA avevano già vinto la guerra. Produssero ancora due anni per vincere definitivamente ed imporre la ripartizione di Yalta.
Montagne di libri sono state ormai scritte su Yalta. I retroscena della diplomazia, quando esistono, hanno poca importanza. La storia segreta aggiunge ben poco alla storia, specie per chi la legge nei grandi fatti sociali. Se anche non esistesse alcun patto segreto, esisterebbe comunque la ripartizione di Yalta, ossia un particolare assetto imperialistico scaturito dalla conclusione della seconda guerra mondiale e poggiante su di un rapporto oggettivo di forze che non ha niente di misterioso.
Questo rapporto di forze è, dal punto di vista economico, definitivamente tramontato. Tre decenni di sviluppo capitalistico nel mondo hanno profondamente mutato la situazione economica del dopoguerra. Gli Stati Uniti non hanno più la metà della produzione industriale mondiale; ne hanno un quinto. Per molte potenze aver mantenuto la quota che avevano prima della guerra ha rappresentato già un rafforzamento di fronte agli Stati Uniti in declino, relativo s'intende, e alle nuove potenze industriali emergenti. Giappone e Germania hanno modificato profondamente il loro rapporto economico con gli USA e sono emerse come potenze industriali rafforzate in assoluto.
Nessuno può mettere le brache ad un processo storico-naturale che è fatto da
mille fattori impersonali. L'assetto economico di Yalta è seppellito. Si è
aperta la lotta per la fine dell'assetto politico. E una lotta sorda, aspra,
aperta a molti imprevisti perché chi conta economicamente finirà con il contare
politicamente, ma nessuno può sapere in quale modo e per quali vie. La nuova
contesa imperialistica è iniziata. Segnerà gli anni '80 e il destino di un
mondo caotico.
(Apparso su lotta comunista n°
120 - Agosto, 1980)
8
Colpi sordi della nuova contesa all'Est
L'ondata di scioperi in Polonia e la crisi politica che ha provocato non possono essere considerate come episodi che si esauriscono in quella zona dell'Europa Orientale. Sia per il suo peso oggettivo che per la sua collocazione geografica, militare, economica e politica nell'attuale sistema di Stati, la Polonia costituisce uno dei punti fondamentali delle relazioni internazionali, particolarmente in Europa. Intaccato o spostato questo punto è tutta l'architettura europea delle potenze che ne viene sconvolta. E', quindi, utile vedere il grande episodio di lotta di classe che ha costretto il capitalismo statale a cedere, anche se temporaneamente e tatticamente, alle rivendicazioni operaie, ma ancora più utile vederlo nel contesto più ampio dei rapporti internazionali in quella regione. In sostanza: nel contesto dei rapporti tra l'imperialismo russo e l'imperialismo tedesco.
Da tempo valutiamo che l'URSS sia stretta oggettivamente in una tenaglia, dato che è bloccata in Asia dal nuovo rapporto Giappone-Cina e, di conseguenza, dal nuovo rapporto USA-Cina. Ovviamente questi rapporti non sono rigidi e rientrano in un gioco pentapolare, con l'inserimento dell'India, ma ciò che li rende pericolosi, a medio termine, per l'URSS è la dinamica economica che li sostanzia. O l'URSS riesce a rivitalizzare la sua rallentata economia oppure si troverà di fronte processi di industrializzazione, tipo quello cinese, più dinamici sul versante asiatico. Può giocare ancora, appoggiando il Vietnam, nella penisola indocinese ma limitatamente e non per lungo tempo. Le resta, come carta grossa, il rischiosissimo gioco sul subcontinente indiano che può, però, costarle il blocco di una strada dell'espansione a Sud. Infine, può adattarsi ed attendere di trattare separatamente con una Cina e un Giappone rafforzati.
Per controbilanciare l'impossibilità di espansione ad Est, l'imperialismo russo dovrebbe espandersi ad Ovest, ossia rafforzarsi nell'Europa Orientale, ma non ha i mezzi finanziari per farlo e finché non può legare maggiormente in termini economici l'Europa Orientale alle sue direttrici di espansione quell'area diviene instabile o, ancor peggio, indefinita come oggetto di influenza imperialistica. Può dominarla militarmente, finché sono d'accordo le altre grandi potenze, ma niente di più.
L'alleanza franco-tedesca non ha interesse a funzionare come uno dei lati della tenaglia antirussa e tornerebbe a suo vantaggio che il potenziale espansivo della Russia si rivolgesse ad Est; comunque non ha alcun interesse a che si rivolga ad Ovest, qualora ne avesse la capacità. In particolare la Germania Federale non incoraggia minimamente la manovra a tenaglia contro l'URSS propugnata dalla Cina e, in questo momento, non gioca, di conseguenza, la carta cinese.
Indipendentemente dalle intenzioni, la Germania Federale però svolge un ruolo oggettivo da tenaglia, costringendo la Russia a sfogarsi a Sud, poiché la Ostpolitik significa espansione finanziaria in direzione dell'Europa Orientale, in generale, e della Germania Orientale e della Polonia in particolare. Senza questa possibilità di espansione finanziaria sul mercato europeo orientale, d'altra parte, cesserebbe la Ostpolitik della RFT perché non avrebbe ragione di essere e si aprirebbe una politica asiatica che, includendo Giappone e Cina, ricalcherebbe l'indirizzo della Germania nazista, quando lo sbocco tedesco ad Est fu più contrastato da Francia e Gran Bretagna e più limitato dal basso grado di sviluppo di quel mercato.
Quale che sia l'angolo visuale scelto per considerare la questione essa ha ormai un carattere oggettivo: l'imperialismo tedesco, rafforzatosi negli ultimi decenni, ha una capacità di espansione, variamente valutabile ma pur sempre considerevole, sboccante sul mercato europeo orientale. Se, per varie circostanze, venisse impedita darebbe luogo ad un sussulto con vasta onda di propagazione. Vista a breve termine, la tendenza è irreversibile. Non sono bastati, nel 1968, a Praga i carri armati a bloccarla; ancor meno potrebbero bastare oggi in Polonia, dopo che nel corso degli anni '70 la finanza di Francoforte vi ha riversato decine di miliardi di dollari.
E' questo il deterrente che frena il Cremlino, libero per quanto riguarda Bonn di sfogarsi nelle montagne dell'Afghanistan ma costretto a subire gradatamente una specie di mezzadria in Prussia, in Pomerania, in Slesia, nei vecchi e nei nuovi bacini industriali, dove ingenti riserve ed estrazioni di carbone e di rame fungono ormai, in pratica, da sostanziose ipoteche per gli incessanti e copiosi flussi di prestiti-investimenti che giungono dall'Occidente. La chiusura di questi flussi significherebbe un disastro economico. Che poi il Cremlino pensi di avvantaggiarsi e di ridurre la mezzadria, cosi come lo pensa Varsavia, è nella natura degli affari che sono tali proprio perché i contraenti ne ricavano un utile. Al mercato vanno tutti per riempire la borsa, ma i conti validi sono i consuntivi e non i preventivi.
Resta il fatto che la Ostpolitik finanziaria ha dimostrato di avere affondato ormai le sue radici e le vicende di Polonia lo hanno dimostrato in modo inequivocabile. Che gli altri, questo processo oggettivo economico che ha precisi connotati politici, preferiscano chiamarlo "distensione", anche se "divisibile", sono affari loro, "affari" nel giusto senso del termine; noi preferiamo andare un po' più a fondo.
L'URSS è una superpotenza, ha un grande peso politico, ha una gigantesca forza militare. Può intervenire in vari modi, anche militarmente, e in varie zone, anche nell'Europa Orientale, per scombussolare tutti gli equilibri mondiali. Non può mutare sostanzialmente a suo favore l'equilibrio generale, può scompaginarlo a svantaggio di tutte le altre potenze, esclusa forse quella statunitense. In questo momento, è la più temibile arma che abbia in mano e con la quale può trattare.
Nelle relazioni internazionali l'arma del ricatto è un'arma potentissima e sempre usata ma non è quella decisiva. Nell'epoca dell'imperialismo si impongono, nel lungo termine, gli apparati industriali e finanziari più dinamici. L'URSS è tutto meno che uno d i questi. Lo slancio iniziale del suo capitalismo statale si è ormai appesantito nella lentezza e nel caos burocratico. Da un quarto di secolo si dibatte nella impossibilità di alzare la produttività in modo competitivo e ciò lo sta pagando nella debolezza finanziaria.
Si possono fare alcune comparazioni. L'URSS ha circa il 15 per cento della produzione industriale mondiale, la Germania Federale circa il 7,7 per cento, la Germania Orientale circa 1'1,8 per cento e la Polonia circa il 2,3 per cento. In pratica, la RFT ha la metà della produzione industriale sovietica e non è così nana come vuole apparire di fronte al gigante russo che è meno Golia di quanto vuole essere. Ancor meno lo è se resta da solo, come a volte gli capita, specie sotto il sole d'agosto. I due Stati tedeschi, con 78 milioni di abitanti, possono sommare il 9,5 per cento della produzione industriale mondiale e con la Polonia giungono all'11,8 per cento che supera i tre quarti della quota russa.
I conti sulla carta, però, non sono traducibili nella pratica. E' difficile che gli interessi tedesco occidentali, tedesco orientali e polacchi combinino nello stesso tempo, anche se nell'ultima contingenza hanno teso a convergere. Molto spesso divergono e ciò lascia spazio alla potenza russa. Paradossalmente è stata proprio la Ostpolitik che, indebolendo l'URSS, le ha creato un nuovo spazio di manovra proprio in questa direzione. I crediti della RFT alla Polonia hanno determinato, negli anni '70, un ritmo polacco superiore a quello tedesco orientale. Nel rapporto relativo la Polonia si è avvantaggiata sulla RDT la quale viene, così, da un lato interessata all'Ostpolitik ed attratta dalla RFT e, dall'altro, diventa sensibile alla pressione russa di contenimento e condizionamento della Polonia. Molto dell'avvenire polacco ed europeo si trova, quindi, nel grado di amalgama degli interessi economici e politici trai due Stati tedeschi.
Da molte fonti si può ricavare un quadro della situazione economica e finanziaria polacca caratterizzato dalla instabilità. Non si può dire, come spesso viene detto, che la Polonia è sull'orlo del crollo. La Polonia non è più un paese arretrato né lo può ridiventare; è un paese in forte decollo, è la nona potenza industriale mondiale e comunque nel gruppo delle nuove potenze industriali dove troviamo agli stessi livelli Brasile, Spagna e Polonia subito dopo l'Italia e la Cina e più avanti dell'India. Il forte decollo è stato permesso dall'investimento nel complesso carbo-metallurgico del bacino della Slesia, complesso che è andato valorizzandosi dopo che l'aumento del prezzo del petrolio ha provocato un aumento del prezzo mondiale del carbone e ha reso conveniente la prospezione e l'estrazione, specie usufruendo dei bassi salari polacchi. La Polonia è un Venezuela per il carbone e un Brasile per la manifattura che invece di essere a disposizione degli Stati Uniti lo è della Germania, sia occidentale che orientale.
Può decadere solo se si interrompono i crediti occidentali per gli investimenti industriali in questa fase di transizione che necessita di completamento di impianti e di infrastrutture, tipo i carbonodotti e i trasporti vari, e dove l'ingente immesso stenta, date le disfunzioni del capitalismo statale a restituire una redditività con un sovraprofitto imperialistico che è dell'1,5 per cento superiore al tasso di interesse, quale è appunto quello praticato sul "rischio Polonia" dalle banche europee, americane e giapponesi. Se questo è il quadro di una economia in decollo non vi sono ragioni serie per cui i crediti occidentali, che sono sempre stati rimborsati con relativi interessi, debbano interrompersi. La "edificazione del socialismo", con un quinto della produzione industriale costituito da mezzi finanziari dei capitalisti privati stranieri, continua! Più che di "socialismo con tratti illiberali" pare che si tratti di "socialismo con tratti finanziari".
In piena ondata di scioperi, oltre all'intervento della Madonna nera, vi è stato quello più consistente e pratico del consorzio capeggiato dalla Dresner Bank per 0,67 miliardi di dollari. H. Schmidt sta accordandosi con J. Carter per un intervento ancor più sostanzioso di ben due miliardi di dollari organizzato da banche private tedesche, americane, inglesi e francesi e concesso, come quasi tutti i precedenti, non allo Stato polacco ma alla banca centrale e a banche ed enti specializzati polacchi. Anche l'URSS è intervenuta con prestiti ma con proposte di condizionarli all'acquisto di materie prime dall'URSS stessa e non all'acquisto di carne.
L'imperialismo russo non è in grado di sostenere la competizione a colpi di miliardi di dollari con gli imperialisti dell'Occidente. Può sostenere i suoi fedeli alle leve del comando politico ma non può trasformarli in accumulazione della quale hanno sete le ricche viscere della terra polacca. L'impalcatura traballante resta sempre sovietica, ma il sottosuolo si lega, con mille ramificazioni, al potente motore che è al cuore della vecchia Europa imperialista, al motore tedesco.
I colpi sordi della nuova contesa hanno battuto le vaste pianure della Polonia e hanno tagliato le unghie all'orso che ha spurgato così il boccone afgano. Merito imperituro della Danzica operaia è quello di averli fatti sentire.
(Apparso su lotta comunista n°
121 - Settembre, 1980)
9
Caccia libera per la nuova contesa delle grandi potenze nel Golfo
Da anni, specie da quando forti investimenti internazionali ne hanno fatto uno dei maggiori poli petroliferi, il Golfo Persico è una arteria mondiale soggetta a forti tensioni. Dall'inizio dell'anno, con l'espansione russa a Sud, l'arteria rischia di provocare l'infarto. Tutte le pressioni delle maggiori potenze imperialistiche si addensano su di uno spazio considerato terreno di caccia e non più riserva chiusa e in questo modo surriscaldano le velleità delle borghesie locali gonfie di petroldollari. Se si aggiunge che su questo spazio viene riversato da tempo, e specie dal decennio scorso con la ristrutturazione industriale mondiale che ricicla rendita OPEC con mezzi di produzione, un flusso continuo di impianti petrolchimici, siderurgici, portuali e di armi per decine di miliardi di dollari si ha la formula della miscela esplosiva della guerra del petrolio tra Irak e Iran. Che alla miscela occorra poi l'aroma delle spezie sunnite e sciite dell'Islam è ricetta che l'Occidente cristiano, cattolico, protestante e ortodosso, conosce bene perché l'ha usata in secoli di guerre nella costituzione e nella demarcazione degli Stati borghesi.
Non è qui la novità e non è neppure nelle guerre che ripercorrono la storia dell'Ottocento europeo. La novità sta nel particolare gioco delle potenze imperialistiche nel conflitto. Queste sono sempre intervenute in ogni conflitto locale ma questa volta, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, lo fanno in modo diverso perché, da un lato, cercano di arginare la guerra in un mutuo e tacito accordo e, dall'altro, appoggiano l'uno o l'altro contendente e, in parecchi casi, i due contemporaneamente. Inoltre, le potenze che intervengono sono più numerose che in altre occasioni e ciò confonde ancor più la loro singola collocazione.
E' cominciata la prima guerra del Golfo Persico con la nuova contesa imperialistica e già la trama è talmente complicata da lasciare attardate le ideologie. Le ruffiane della guerra non hanno avuto ancora il tempo di distribuire ragioni e torti, fatti e misfatti, ulivi e ortiche. Balbettano appena nel convincere a parteggiare, a schierarsi. Hanno il respiro mozzato per il semplice motivo che i fatti, pur così pesanti, le hanno rapidamente precedute e le idee, pur così leggiadre, hanno strascicato il passo. Non è ancora finito l'anno inaugurato a Kabul e già Varsavia, Ankara, Bassora e Abadan stanno a segnare la mappa mondiale del sommovimento degli equilibri. Se in pochi mesi le crisi delle relazioni internazionali si sono succedute ad una velocità così sostenuta è perché l'insieme dei rapporti tra le potenze è entrato in una nuova fase di contesa. Ognuna tenta di rafforzare le sue posizioni e di estendere la sua sfera di influenza a scapito delle potenze avversarie e alleate; ma, in pratica, la competizione è tale che ognuna è avversaria dell'altra, anche se formalmente alleata.
I caratteri della nuova contesa imperialistica sono tali da determinare nel Golfo Persico la neutralità formale delle grandi potenze per lasciarle libere di giocare sui due contendenti. Infatti, Stati Uniti e URSS aiutano o promettono di aiutare sia l'Iran che l'Irak. Così si comportano le altre potenze ed anche quando è riscontrabile un comportamento prevalente non lo si può ritenere definitivo. La Francia è sbilanciata con l'Irak ma è, forse, il caso limite. Già la Repubblica Federale Tedesca, anche se privilegia l'Arabia Saudita, non ne segue l'appoggio all'Irak e così si può dire per il Giappone il quale, accusato di rifornire di ricambi l'aviazione iraniana, deve tenere conto dei suoi interessi nel Kuwait e nella stessa Arabia Saudita. L'Italia segue lo stesso comportamento e ciò vale anche per la Gran Bretagna. In netto appoggio all'Iran c'è solo Israele e Siria e in netto appoggio all'Irak troviamo solo Giordania. Ma queste non sono grandi potenze e l'oscillazione delle piccole finisce con il riflettere il gioco pendolare delle grandi. Solo nel caso che questo gioco dovesse terminare anche le piccole potenze finirebbero con lo schierarsi in modo definito. Non è ancora il momento e lo dimostra l'atteggiamento dei due grandi.
Gli Stati Uniti hanno permesso un recupero dell'aviazione iraniana, da essi addestrata, ma garantiscono una certa protezione all'Arabia Saudita e lasciano aperta la porta all'Irak. L'URSS rifornisce l'Irak, da essa attrezzato militarmente, ma offre assistenza all'Iran. Le grandi potenze non hanno interesse a che prevalga uno dei due contendenti finché ognuna di esse non abbia consolidato la rispettiva sfera di influenza e siccome ciò, per ora, è impossibile ne consegue una paradossale situazione di equilibrio. E' la stessa natura dell'oggetto in causa a determinare una tale situazione. Nel Golfo Persico non vi sono sfere di influenza consolidate da difendere o da sottrarre all'altrui influenza ma solo zone da acquisire alla propria influenza. E' una caccia in territorio libero. Del resto la nuova contesa tra le potenze imperialistiche è appena iniziata e se i tempi di marcia restano quelli sinora seguiti tutto lascia presagire che non terminerà tanto presto.
L'intervento delle grandi potenze avviene e può avvenire in modo diretto e in modo indiretto. Quello indiretto, che è prevalente in quasi tutti i conflitti locali e particolarmente in questo, si attua con politiche di bilancia militare e con politiche di mediazione. Se si tiene conto di queste tecniche di intervento indiretto si può vedere meglio lo svolgimento della nuova contesa imperialistica sul Golfo Persico dove tutte le grandi potenze hanno carte da giocare ed hanno interesse e volontà di giocarle anche se l'esito della partita, allo stato dei fatti e alle condizioni attuali dei rapporti di forza, è sconosciuto a tutte. Del resto, non è che la prima mano di una partita destinata a protrarsi, come abbiamo già detto.
Nelle guerre incrociate tra India, Pakistan e Cina, negli anni '60 e nei primi anni '70, finì con l'avvantaggiarsi l'URSS che riuscì a compiere la mediazione di Taskent e a spostare, anche se leggermente e non stabilmente, l'India nella sua sfera di influenza. L'ipotesi di una "Nuova Yalta" tra USA e URSS sul Golfo Persico non è da escludere in via teorica ma ha poca possibilità pratica dato che Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna e persino l'Italia sono ormai sedute al tavolo del gioco. Comunque, già una intesa, anche se accidentata, tra USA e URSS rafforza di fatto la posizione russa perché la rende indispensabile, e non potrebbe essere altrimenti, ad un momentaneo equilibrio locale e parziale e le permette di contrattare, ad esempio, sull'acquisizione afghana.
E' un dato di fatto e non poteva essere diversamente perché l'URSS è una grande potenza che ha perso colpi ad Est, ha perso colpi ad Ovest, ultimamente anche in Polonia, ma non può perdere colpi anche a Sud. Data la sua forza e dati gli attuali rapporti mondiali di forza, la potenza russa non può arretrare contemporaneamente sui tre fronti. Tanto meno sul fronte più debole e carico di contraddizioni esplosive.
Il Golfo Persico è un insieme di Stati in lotta l'uno contro l'altro non per un pezzo di terra ma per un pozzo di petrolio. Perciò sono super armati. L'Irak ha un terzo della popolazione dell'Iran, 13 milioni di fronte a 39 milioni, ma dispone di forze armate equivalenti, 242 mila unità rispetto a 240 mila. Può contare, però, su meno riserve: 250 mila unità a confronto di 400 mila. Forze armate in servizio più le riserve dovrebbero dare, sulla carta, una consistenza irakena di circa mezzo milione contro quella iraniana di 650 mila con vantaggio per l'Iran. In pratica è difficile, se non impossibile, per i due contendenti mettere in campo eserciti di quelle dimensioni senza l'aiuto organizzativo e logistico di qualche potenza industrializzata impegnata direttamente con specialisti militari. Finanziariamente dovrebbero, inoltre, raddoppiare le spesa militare, che è attualmente di 3 miliardi di dollari annui per l'Irak e di 4 miliardi di dollari per l'Iran.
Già questo dato permette di individuare alcuni caratteri che emergono dallo scontro bellico iraniano-irakeno e che si differenziano da quelli emergenti dalle guerre israeliane-egiziane. Mentre queste vedevano un maggiore impiego con maggiore consumo di forza militare e una minore distruzione di apparato industriale, nel conflitto iraniano-irakeno avviene l'inverso.
Da un confronto tra varie fonti attendibili si può ricavare che l'Iran dispone di 445 aerei da combattimento e di circa 2.000 carri armati e l'Irak di 332 aerei da combattimento e di 2.800 carri armati. Ammesso .che siano tutti in efficienza è da escludere l'ipotesi che vengano impiegati non diciamo tutti ma quasi tutti. Ne viene impiegata solo una quota ridotta, forse un terzo. Solo se vengono riforniti di ricambi e munizionamento ed assistiti logisticamente questi moderni apparati militari possono essere messi in campo con la loro piena potenzialità. A questo punto interviene il gioco delle grandi potenze e la loro possibilità di influenza. Non è vero che le grandi potenze sono impotenti a fermare la guerra nel Golfo. Esse potrebbero farlo, se fossero d'accordo, in qualsiasi momento. La guerra si ridurrebbe, come in parte avviene, ad uno scontro di fanterie per espugnare o difendere alcuni quartieri cittadini.
Militarmente la guerra iraniano-irakena si caratterizza in blitzkrieg limitato e impacciato, in uso limitato di missili e di aerei. Le battaglie aree e corazzate sono scarse e prevalgono le battaglie d'assedio. Il generalizzato impiego di fanteria riscontra un limite quantitativo che, forse, oscilla tra le centomila e le centocinquanta mila unità.
E' un fuoco, però, che divampa e che l'orso russo e la balena americana possono, soffiandovi, alzare e non solo alimentare.
(Apparso su lotta comunista n° 122 - Ottobre, 1980)
10 Un presidente USA per la nuova contesa imperialista
La sconfitta di J. Carter stava già nei limiti della sua vittoria del 1976. Nel novembre di quell'anno scrivevamo che: «La partita, dunque, fra le frazioni dominanti dell'imperialismo americano non solo non si è chiusa con la elezione di Carter e la sconfitta di Ford ma è ora più aperta che mai». Pensavamo che la spaccatura a metà a cui la lotta politica delle frazioni borghesi aveva condotto necessitava di una fase di assestamento prima che si delineasse uno schieramento definito sul quale poggiasse l'amministrazione Carter. Essendo lo scontro molto forte o si trovava una mediazione oppure si sarebbe aperta una crisi politica acuta come quella succeduta alla elezione del '60 di J.F. Kennedy, elezione alla quale, non a caso, paragonavamo quella di J. Carter, scartando ogni riferimento ideologico, allora di moda, all'ascesa di Roosevelt.
Pensavamo che l'ambiguità della formula carteriana potesse favorire una sintesi. Le vicende dei quattro anni dell'amministrazione Carter, con il progressivo distacco degli esponenti di alcuni importanti gruppi finanziario-economici e con la conseguente incapacità di fissare una stabile gestione della politica estera, dati i contrasti di linea tra A. Young, C. Vance, Z. Brzezinski, J. Schlesinger, H. Brown, dimostrano che l'ambiguità della formula non è stata sufficiente a superare quella divisione interna nella borghesia americana che l'elezione di Carter aveva messo in evidenza.
Si poneva per i grandi gruppi statunitensi la necessità di convogliare verso un'altra formula, dentro alla quale poter più agevolmente confrontarsi nella scelta degli obiettivi e degli strumenti esecutivi, e di farla prevalere con il massimo consenso. Una volta che la grande maggioranza dei gruppi fondamentali dell'imperialismo americano avesse raggiunto l'accordo sulla incapacità della formula Carter, il gioco era fatto.
La dose sarebbe stata il crollo di Carter, che ha perso sei milioni e mezzo di voti popolari scendendo al 41%, e di riflesso la "valanga" di Reagan, che ha aumentato però di tre milioni e mezzo arrivando al 51%, essendo cinque milioni e mezzo finiti ad Anderson, altro strumento dell'operazione. Ma più che i voti popolari contano, ai fini della nostra analisi, sia del 1976 che attuale, i voti elettorali.
Negli otto grandi Stati che, per importanza economica e demografica, rappresentano le frazioni borghesi del Nord Est, dei Grandi Laghi, del Sud e dell'Ovest, R. Reagan ha vinto in tutti: New York (47%), New Jersey (52%), Pennsylvania (50%), Illinois (50%), Michigan (52%), Ohio (52%), Texas (56%), California (53 per cento). Se, poi, aggiungiamo a quelli tradizionali i due grandi Stati sudisti in ascesa, la cui borghesia aveva portato alla presidenza J. Carter, abbiamo che la sola Georgia gli è stata fedele mentre la Florida è passata a R. Reagan per il 55%. Nemmeno F.D. Roosevelt nel 1932, che pure con 472 voti elettorali aveva unito Nord Est, Grandi Laghi, Middle West, Sud ed Ovest, era riuscito a prendere tutti i grandi Stati.
Nel 1976 sostenevamo che la novità, nella vittoria di Carter, risiedeva nella ricomposizione dell'unità della borghesia sudista nell'appoggio tradizionale al Partito democratico, appoggio mancato a J. Kennedy e a L. Johnson. L. Johnson aveva, però, ottenuto l'appoggio dell'Ovest e del Texas oltre che del Nord Est, dei Grandi Laghi, del Middle West. J. Kennedy, invece, quattro anni prima aveva il solo appoggio, tra i grandi Stati, del Nord Est, del Texas e dell'Illinois. Aveva contro California Michigan e Ohio.
J. Carter degli otto grandi Stati ne conquista solo quattro e di stretta misura (49,8% contro il 49,5% di G. Ford). Non ottiene il Michigan e l'Illinois, ha contro California e a favore il Texas. E' appoggiato dal Nord Est, meno l'importante New Jersey. In pratica realizza una coalizione Sud-Texas-Nord Est che ha contro l'Ovest e metà dei Grandi Laghi. Potevamo così facilmente prevedere che: «Il risultato è una combinazione nuova, squilibrata verso il Sud». Ciò non rappresentava e non rappresenta i reali rapporti di forza intercorrenti tra le quote del capitale sociale della metropoli americana. L'esclusione dell'Ovest, del Michigan e dell'Illinois rappresentava «una notevole debolezza della coalizione carteriana».
Questi devono essere i criteri per una analisi scientifica sui movimenti politici nella prima potenza imperialistica. Le schematizzazioni sociologiche sulla fine della vecchia coalizione rooseveltiana non rispettano la storia e la realtà. Voler rappresentare a tutti i costi le coalizioni elettorali, nella storia degli Stati Uniti, in termini di progressismo e di conservatorismo porta a brutti scherzi. Dove la mettiamo la borghesia agraria industriale che appoggia F.D. Roosevelt, contrasta J. Kennedy e L. Johnson, si riconverte, ormai industriale-agraria, a J. Carter per poi abbandonarlo?
Lo stesso si può dire per il criterio dei gruppi etnici, anche se, come fanno alcuni studiosi della coalizione rooseveltiana, non vengono collegati alle categorie del progressismo e del conservatorismo. Considerato come gruppo etnico, quello ebraico annovera alcuni dei più importanti centri finanziari che, ad esempio, hanno appoggiato F. D.Roosevelt ma non J. Carter. Essi sono stati tra i principali componenti della coalizione rooseveltiana, ma questa non può essere spiegata certamente con il solo criterio etnico. Infine, il criterio delle categorie socio-economiche, "blue collar", "white collar", intellettuali ecc.
Il bipartitismo statunitense, essendo fortemente regionalizzato, è più interclassista che in altre metropoli. L'analisi sulla composizione sociale dei rispettivi elettorati, seppure utile, non è decisiva ai fini della caratterizzazione politica, come del resto non lo è per altri paesi. I due criteri da noi usati, frazionamento della borghesia e localizzazione regionale degli interessi borghesi, sono invece quelli che permettono una più attenta analisi sulla formazione e sulla dinamica delle coalizioni sia nel periodo elettorale che dopo.Questi criteri sulla "orizzontalizzazione" dei grandi gruppi vanno certamente collegati con lo studio della loro "verticalizzazione", che, nella maggioranza dei casi, diventa internazionalizzazione. I gruppi petroliferi texani, ad esempio, sono gruppi internazionali ed operano su scala mondiale. Lo stesso si può dire per i gruppi interessati alla produzione bellica.
J. Carter, secondo "Business Week" del 3 novembre, ha progettato una spesa militare del 5% del PNL annuo che la porta a 154 miliardi di dollari nel 1981 e a 243 nel 1985. R. Reagan progetta, invece, un 6% annuo e ciò può sembrare una piccola differenza. Qualcuno lo ha scritto. Affrontando il problema del riarmo, come tema dello scontro tra J. Carter e R. Reagan, avevano avvertito di stare attenti ai ritmi. L'uno per cento in più può sembrare poco, eppure è una trentina di miliardi di dollari in più per il 1981 e 67 in più per il 1985.
Per i cinque anni cumulati fa circa 150 miliardi di dollari. Sempre attenendoci a "Business Week", possiamo calcolare che in cinque anni con il ritmo Carter verrebbero spesi 835 e con il ritmo Reagan 982 miliardi di dollari. Sono spese militari enormi e tali da non temere confronto. Viene aggiunto, sulla scena mondiale, un nuovo fattore che ha un peso enorme e del quale solo quando e se sarà effettivo si avrà una più esatta percezione. Tanto per dare un'idea: le tre grandi case automobilistiche statunitensi prevedono di investire entro il 1985 ben 80 miliardi di dollari e già questo ingente investimento supera quello della NASA che ha portato gli americani sulla Luna.
Ma non è finita. "Fortune", sempre del 3 novembre, dà altre cifre. Sostiene che il piano Carter di spesa militare è del 4,4% annuo del PNL e che, a dollari in valore costante 1981, arriverà a 192 miliardi nel 1985. Il piano Reagan, invece, arriverebbe al 7% del PNL nel 1985 e raggiungerebbe i 239 miliardi di dollari. Secondo "Fortune", il piano Reagan prevede una spesa militare, in cinque anni, in più rispetto a quello di Carter di ben 240 miliardi di dollari, sempre in valore costante. La cifra è sbalorditiva. Lasciando da parte calcoli e ipotesi quantitative, che sono molteplici anche sulla più autorevole pubblicistica americana, sono evidenti le pressioni che salgono dai più grandi gruppi interessati al riarmo.
J. Carter, con il ritmo del 5%, si è già allineato agli interessi del complesso industriale militare, forse R. Reagan non porterà avanti tutto e per cinque anni il ritmo del 6% o del 7%. Sta di fatto che più che una valanga di voti viene gettata, sul piatto della bilancia degli equilibri tra le potenze e della nuova contesa imperialistica, una valanga di miliardi di dollari. Non c'è parità strategico militare con l'URSS che tenga. L'URSS non l'ha mai raggiunta con gli USA a ritmi più bassi, non è possibile che la raggiunga a ritmi più alti. L'orso perderebbe giri di pista. Del resto, la balena dice apertamente che vuole la superiorità. E' segno che non la vuole solo sull'URSS.
Questa ha già capito la scelta ed accetta, con stupore di molti, il nuovo terreno dei rapporti. Si ricomincia a parlare di bipolarismo, come se il carattere delle relazioni internazionali fosse appeso all'armadio degli indumenti da mutare ad ogni stagione.
Vi può essere, dopo un bilancio non positivo di quattro anni di rapporti multipolari, una tendenza, nella coalizione Reagan, a un maggiore rapporto bipolare. Lo vedremo nel prossimo anno. Comunque, anche se prevalesse tale linea, porterebbe ad un congelamento della situazione mondiale a brevissimo termine. Ma, poi, i problemi riemergerebbero fatalmente e con essi i reali rapporti di forza.
Giappone e Cina, Germania e Francia sanno che un accordo USA-URSS si giocherà sulle loro spalle, anche se non sanno quali, se ad Ovest o ad Est.
In partenza sembrano più sfavoriti gli orientali. Su tutti, però, pesa il
proposito di riarmo che la coalizione Reagan sbandiera ai quattro venti, in
tutte le direzioni direbbe De Gaulle. La rivendicazione della superiorità USA
non vale solo per l'URSS. La nuova contesa imperialistica diventa più pesante
e, soprattutto, più costosa. Per tutti.
(Apparso su lotta comunista n° 123 - Novembre, 1980)
Ultima modifica 23.12.2003