Da anni la nostra organizzazione conduce una opposizione rivoluzionaria al centro-sinistra. Questa formula di governo, dopo alterne vicende è entrata in crisi, aprendo prospettive per nuove formule tipo "compromesso storico" DC-PCI ,"asse preferenziale" DC-PSI, " alternativa di sinistra" PSI-PCI ecc., formule sulle quali si differenziano correnti e gruppi dei partiti parlamentari.
Ma la lotta politica è espressione delle lotte delle classi e delle frazioni di classe e non il risultato di formule governative e di schieramenti parlamentari. E' quindi necessario vedere oltre le formule e gli schieramenti, specie quando questi e quelli rispecchiano più rituali di propaganda ideologica che reali contenuti sociali. La nostra opposizione rivoluzionaria al centro-sinistra, non a caso, è stata ed è più che ad una formula governativa una opposizione alla strategia riformistica dei gruppi determinanti del grande capitale industriale privato e statale. Da anni queste frazioni borghesi si scontrano con altre frazioni , legate particolarmente alla rendita e alla speculazione, per riformare lo Stato e tutta la sovrastruttura secondo le esigenze della espansione imperialistica in competizione con gli imperialismi concorrenti.
La strategia riformistica non é un disegno volontaristico ma il prodotto di tre necessità:
1. alzare la produttività media del sistema italiano nei
confronti degli altri sistemi capitalistici, in particolare nei confronti delle
principali metropoli imperialistiche;
2. ristrutturare l'apparato produttivo italiano in modo da incrementare la produttività
industriale:
3. adeguare lo Stato a questi obbiettivi.
Per fare ciò i gruppi determinanti del capitalismo hanno bisogno dell'appoggio dei sindacati, appoggio socialimperialistico che i sindacati sono stati sempre disposti a dare ed avrebbero sempre dato se non fossero stati soggetti a profonde contraddizioni La prima contraddizione è data dallo sviluppo del capitalismo italiano stesso negli anni '60. Questo sviluppo, aumentando il proletariato, ha messo in moto la lotta economica operaia per adeguare il basso salario ad un livello europeo del mercato della forza-lavoro. Questa spinta salariale oggettiva, quando è riuscita a tradursi in movimento, si è espressa con una forte spontaneità. Non poteva avvenire altrimenti, e non potrà essere altrimenti qualora la spinta salariale si traduca in movimento, dato il ruolo specifico che il sindacato assume come controllore del livello salariale compatibile alla concorrenza interimperialistica. Da decenni avviene nelle principali metropoli imperialistiche e ciò che ha fatto e fa il sindacato italiano non è altro che l'imitazione di quello che hanno fatto i sindacati americani, inglesi e tedeschi. Quello che caratterizza il sindacato italiano non è tanto il ruolo socialimperialistico di controllo salariale ai fini della concorrenza internazionale delle produttività industriali, quanto la sua incapacità, data la sua direzione interclassista, ad intervenire nella strategia riformistica di regolamentazione dei consumi improduttivi. Perciò il sindacato italiano, più che quello di altri paesi, è destinato a scontrarsi maggiormente con la spontaneità operaia e a svolgere maggiormente la funzione di repressione antisalariale. Le lotte operaie negli ultimi dieci anni lo dimostrano ampiamente.
A queste lotte si sono contrapposte immediatamente tre tipi di manovre.
La prima, da parte delle frazioni borghesi più arretrate ,con ampio appoggio piccolo borghese e naturale collegamento con ampi settori dell'apparato statale, attraverso una campagna terroristica di propaganda e di fatto (stragi, attentati, provocazioni varie). La seconda, da parte delle frazioni riformistiche con tentativi di incanalare il movimento della lotta operaia nell'alveo delle riforme (i cosiddetti "consumi sociali", sanità, trasporti, scuole, ecc.) che nella pratica sociale non sono altro che, da parte borghese, una riorganizzazione della produttività generale e, da parte proletaria, un atteggiamento riformistico verso lo Stato. La terza, infine, da parte dei partiti parlamentari interclassisti, specie dei maggiori DC e PCI, con un tentativo di riprendere il pieno controllo di quella spontaneità operaia determinata da uno sviluppo capitalistico mondiale che ha profonde influenze sul mercato italiano.
I sindacati, in quanto apparato burocratico, si trovano al centro di queste pressioni. Riescono a tenere testa alla campagna terroristica, ma sono subordinati alla strategia riformistica del grande capitale e sono controllati dai partiti interclassisti parlamentari che li usano nelle loro lotte di correnti politiche esprimenti gli interessi divergenti o convergenti delle varie frazioni borghesi.
Questi interessi, che hanno dato vita ad un ampio scontro l'anno scorso all'interno dello stesso grande capitale industriale, hanno trovato un compromesso temporaneo e precario nella linea Carli - La Malfa portata avanti dal governo Moro.
Come formula, il governo Moro è di centrosinistra, ma è nel contenuto che va analizzato per quello che rappresenta. Negli ultimi anni una accanita lotta interimperialistica ha ridotto il peso specifico dell'imperialismo italiano sulla scena mondiale ed avviato un processo di relativo indebolimento dell'Italia che tutte le frazioni hanno interesse a bloccare e, possibilmente, a invertire. Su questo punto, perciò, viene a realizzarsi una oggettiva convergenza di interessi, dimostrata, peraltro, a livello politico da un sostanziale accordo di politica estera fra tutte le frazioni e fra tutti i partiti parlamentari.
Il relativo indebolimento dell'imperialismo italiano avviene nei termini di scambio tra il mercato nazionale e il mercato mondiale. Ciò significa che i capitalisti italiani devono cedere una parte del prodotto, una parte del plusvalore realizzato. In altri termini: o produrre questa parte in più, lasciando inalterata la quota di investimenti e di consumi, o consumarla in meno o, infine, ridurre gli investimenti.
Su queste alternative si è aperta fra tutte le frazioni borghesi una aspra lotta. Tutte sono d'accordo, da quelle arretrate a quelle riformistiche, che a pagare al mercato mondiale, cioè agli imperialismi concorrenti più forti e ai detentori della rendita delle materie prime non possono essere nè la grande borghesia né la piccola borghesia ma solo il proletariato. E, infatti, è in corso una massiccia compressione del consumo operaio, iniziata dalla tornata contrattuale del 1972 e gestita dai sindacati all'insegna della bassa richiesta salariale e dalla linea per le riforme.
Nel 1974, secondo il bilancio di "Le Monde", il salario reale, mentre è aumentato del 4,9°% in Germania, dell' 1,6% in Gran Bretagna, del 5% in Francia e del l,3% in Giappone, in Italia è diminuito addirittura del 5% Tutte le metropoli imperialistiche hanno, evidentemente, la sfortuna borghese di trovarsi in una crisi di ristrutturazione, con aumento dei prezzi delle materie prime e massiccia disoccupazione. Se hanno in comune con l'Italia questa sfortuna non hanno, invece, in comune la fortuna di avere un sindacato "ideologicamente avanzato" come predicano i Trentin, i Carniti e i Lama. Ce la lasciano tutta a noi. Di fatto, un regresso così massiccio del salario reale significa che il prodotto italiano esportato viene a costare di meno, ad esempio, di quello tedesco che ha visto il salario reale aumentare. In questo modo, tutte le frazioni cercano di fare pagare interamente al proletariato l'indebolimento relativo dell'Italia. Su questo, come abbiamo detto, hanno trovato il pieno accordo, cioè trovato quella "unità nazionale" che va dalla destra alla sinistra parlamentare.
Il disaccordo tra i gruppi borghesi è, invece, un altro: produrre di più, con consumo inalterato ,o consumare di meno.
Il governo Moro, con la sua linea economica Carli - La Malfa, rappresenta il compromesso transitorio ,cioè: produrre di più per l'esportazione e consumare di meno all'interno. Ciò significa che il già compresso consumo operaio lo sarà ancora di più. E' a questo punto che sorge un'altra contraddizione, questa si insolubile malgrado tutte le convergenze. La riduzione del consumo operaio riduce inevitabilmente la produzione del settore dei beni di consumo. Il problema sarebbe risolvibile se questo settore riuscisse a compensare con una maggior esportazione quei beni che sono consumati in meno dalla classe operaia. Ma è proprio questo settore che si trova, a livello mondiale, in una crisi di ristrutturazione dati i profondi mutamenti in corso nella divisione internazionale del lavoro.
I giovani capitalismi sono ormai entrati in una fase d'industrializzazione inarrestabile che coinvolge proprio il settore dei beni di consumo che ha una più bassa composizione organica di capitale. Per quanto possa essere compresso il salario reale italiano non riuscirà mai ad essere abbassato al livello di quello dei giovani capitalismi che hanno enormi serbatoi di forza-lavoro a basso prezzo a cui attingere. La crisi dell'industria automobilistica è l'esempio lampante di questo fenomeno. Anno per anno aumenta sempre più la quota prodotta nei paesi a giovane capitalismo. La crisi di ristrutturazione, pagata come sempre da un proletariato colpito dalla disoccupazione, è in atto nelle metropoli imperialistiche. L'imperialismo italiano deve adeguarsi rapidamente a questo gigantesco processo, pena la emarginazione e il decadimento irreversibile. E' una questione di pochi anni, non di decenni. L'avvenire del mondo capitalistico è ormai pieno di lotte esasperate, di conflitti, di guerre con vecchi e nuovi protagonisti. L'influenza nefasta dell'opportunismo e del suo personale costituito da intellettuali piccolo-borghesi impedisce al movimento operaio italiano una necessaria conoscenza delle tendenze di fondo che operano sul mercato mondiale. Si potrebbe dire per gli strati intermedi intellettuali quello che Lenin disse per l'imperialismo italiano: così come vi è un imperialismo straccione vi è una intellettualità stracciona. Ciò dà all'opportunismo italiano un carattere particolarmente degenerativo. Le sue ideologie sono quanto di più deformante vi possa essere. Ciò rende particolarmente dura la battaglia per dare al movimento operaio una strategia adeguata ai movimenti che agitano il mondo capitalista. Eppure solo in quadro mondiale possono essere posti i problemi della lotta di classe in Italia perché è proprio questo quadro che il grande capitale tiene presente nell'impostare la sua strategia riformistica.
In definitiva: senza teoria rivoluzionaria non vi è
movimento rivoluzionario, senza analisi dell'imperialismo non vi è lotta di
classe nelle metropoli dove l'imperialismo sfrutta e combatte per la sua
sopravvivenza.
Ultima modifica 2.4.2002