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Il mercoledì 7 novembre mi alzai molto tardi. La fortezza di Pietro e Paolo sparava il colpo del mezzogiorno quando discendevo la Nevski. La giornata era fredda ed umida. La porta della Banca di Stato era chiusa e custodita da alcuni soldati, baionette in canna.
— Da quale parte
state? — domandai loro. — Col governo?
— Finito il governo! —
mi rispose uno con un sogghigno. —
Slava Bogu! (Grazie a Dio).
È tutto quello che potei ottenere.
I tranvai correvano sulla Nevski; uomini, donne, fanciulli si aggrappavano ad ogni sporgenza. I negozi erano aperti e la folla, nella strada, pareva piuttosto meno inquieta che la vigilia. La notte aveva fatto sbocciare sui muri una nuova fioritura di appelli ai contadini, ai soldati del fronte ed agli operai di Pietrogrado contro l'insurrezione.
Eccone uno:
Benché io non l'abbia compreso allora, era la dichiarazione di guerra della Duma ai bolscevichi.
Comprai un numero del Raboci Put, il solo giornale in vendita, sembrava: ed un po' più tardi un soldato mi rivendette per 50 copechi il suo numero del Dien. L'organo bolscevico, tirato in grande formato sulle macchine della Russkaia Volia, giornale reazionario sequestrato, portava dei titoli enormi: Tutto il potere ai Soviet degli operai, soldati e contadini! La pace, la terra! L'articolo di fondo era firmato da Zinoviev. Cominciava così:
Il Dien dava delle notizie frammentarie di quella notte agitata; i bolscevichi avevano preso la centrale telefonica, la stazione baltica, l'agenzia telegrafica; gli junker di Petergof erano incapaci di arrivare fino a Pietrogrado; i cosacchi restavano indecisi; alcuni ministri erano stati arrestati, il capo della milizia municipale, Meyer, fucilato; ovunque arresti, controarresti, scaramucce tra pattuglie di soldati, di junker e di guardie rosse.
All'angolo della Morskaia incontrai il capitano Gomberg, menscevico-guerrafondaio, segretario della sezione militare del suo partito. Quando gli domandai se l'insurrezione era veramente scoppiata, alzò le spalle e con un'aria stanca, mi rispose:
— Ciort znaiet! Il diavolo lo sa! I bolscevichi possono forse impadronirsi del potere, ma non lo terranno più di tre giorni. Non hanno uomini di governo. Forse è meglio che siano messi alla prova; ne usciranno schiacciati.
L'Albergo Militare, all'angolo della piazza S. Isacco, era custodito da un picchetto di marinai armati. Nel vestibolo numerosi ufficiali, giovani ed eleganti, passeggiavano, parlando a bassa voce; i marinai non volevano lasciarli uscire.
Improvvisamente, nella strada, un colpo di fucile, seguito da una scarica. Mi precipitai. Qualcosa d'insolito accadeva accanto al Palazzo Maria, dove il Consiglio della Repubblica era riunito. In diagonale, attraverso la vasta piazza, era spiegata una fila di soldati, pronti a sparare, con gli sguardi rivolti al tetto dell'albergo.
— Provokatzia! Hanno tirato su di noi — gridò uno di essi, mentre un altro si lanciava verso la porta.
All'angolo ovest del Palazzo era ferma una grande autoblindo sulla quale sventolata una bandiera rossa e che portava in lettere rosse freschissime l'iscrizione S.R.S.D. (Soviet Rabocik i Soldatskik Deputatov). Tutti i suoi cannoni erano puntati su San Isacco. Una barricata era stata innalzata all'entrata della Nox aia Ulitza (Strada Nuova) con delle casse, dei barili, un vecchio pagliericcio, un vagone. Un mucchio di legna sbarrava l'entrata del viale lungo la Moika. Con dei ceppi, presi nelle vicinanze, si costruiva una difesa lungo la facciata.
— Ci si sta per
battere? — domandai.
— Non si aspetterà
molto — mi rispose, nervosamente, un soldato. — Andatevene di qua, compagno, se no sarete ferito. Stanno
per arrivare di là — aggiunse, mostrandomi l'Ammiragliato.
— Chi?
—
Ah! questo non lo so davvero, fratello —
E lanciò uno sputo per terra.
Davanti all'entrata del Palazzo stazionava una folla di soldati e di marinai. Uno dei soldati raccontava come era finita la seduta del Consiglio della Repubblica:
— Noi siamo arrivati, abbiamo messo a tutte le porte dei compagni, poi mi sono avvicinato al kornilovista controrivoluzionario che occupava la poltrona del presidente: «Finito il Consiglio, — gli ho detto, — tornatevene a casa, alla svelta».
Tutti ridono. Esibendo delle carte adatte, riuscii a giungere alla porta della galleria della stampa. Là un colosso di marinaio mi fermò sorridendo e, quando gli mostrai il mio salvacondotto, mi disse:
— Foste S. Michele in persona, voi non passereste, compagno.
Attraverso la porta a vetri distinguevo il viso contratto di furore e le gesticolazioni di un corrispondente di giornali francesi, rinchiuso all'interno.
Un po' più lontano, un piccolo uomo, dai baffi grigi, in uniforme di generale, occupava il centro di un gruppo di soldati. Era rosso di collera.
— Sono il generale Alexiev — gridava. — Come superiore e come membro del Consiglio della Repubblica esigo che mi si lasci passare.
La sentinella si grattò la testa, lanciando con la coda dell'occhio uno sguardo pieno di imbarazzo; fece segno ad un ufficiale, che si trovò anche lui molto confuso, quando vide di che cosa si trattava.
— Eccellenza — balbettò, impiegando, involontariamente, le forme del vecchio regime, — l'accesso al Palazzo è strettamente proibito... Io non ho il diritto...
Un'automobile arrivò e vi vidi Gotz, che sembrava ridere di cuore. Qualche minuto dopo un'altra vettura condusse via i membri del governo provvisorio arrestati, con una scorta di soldati armati. In quel momento Peters, membro lettone del Comitato militare rivoluzionario, attraversava la piazza correndo.
— Credevo — gli dissi,
— che voi aveste messo al sicuro quei
signori fin da ieri sera.
— Oh — mi rispose, con
una mossa di ragazzo disilluso, — gli
imbecilli li lasciano quasi tutti andarsene prima che noi abbiamo
il tempo di intervenire.
Lungo tutto il corso Voskressenski erano appostati dei marinai ed a perdita d'occhio non si vedevano che soldati in marcia.
Ci dirigemmo verso il Palazzo d'Inverno seguendo l'Admiralteiski. Tutti gli accessi alla Piazza del Palazzo erano custoditi da sentinelle ed un cordone di truppe sbarrava la parte ovest, assediata da una folla agitata. Sulla piazza, eccetto qualche soldato che sembrava occupato a trasportare della legna dalla corte del Palazzo davanti la porta principale della facciata, tutto era tranquillo.
Ci era impossibile di sapere se le sentinelle erano per il governo o per Soviet. Poiché le carte di cui ci aveva munito Smolni a nulla servivano, ci avvicinammo, con aria di importanza da un'altra parte della linea e forzammo il passaggio mostrando i nostri passaporti americani e dicendo con autorità: «Ufficiale». Alla porta del Palazzo sempre gli stessi vecchi uscieri di prima, nelle uniformi azzurre, con i bottoni di rame, con i colletti rosso ed oro. Essi ci sbarazzarono cortesemente dei nostri cappotti e salimmo. Nel corridoio, scuro e lugubre, spogliato delle tappezzerie, alcuni vecchi domestici disoccupati. In faccia alla porta di Kerenski un giovane ufficiale andava su e giù, mordicchiandosi i baffi. Gli domandammo se potevamo intervistare il presidente del Consiglio. Si inchinò, unì i talloni e rispose in francese:
— No; sono dolente. Alessandro Fedorovic è molto occupato in questo momento...
Ci esaminò un istante:
— In realtà —
aggiunse, — non è qui...
— Dov'è?
— È partito per il fronte.
Non c'era benzina per la sua automobile ed abbiamo dovuto farcene imprestare dall'ospedale inglese...
— I ministri sono qui?
— Sono in seduta, non
so bene in quale sala.
— I bolscevichi stanno
per venire?
— Non c'è dubbio.
Attendo da un minuto all'altro una telefonata che annunci il loro arrivo. Ma
siamo pronti. Abbiamo degli
junker nel palazzo. Là, dietro quella porta.
— Possiamo entrare?
—
No, impossibile, non è permesso.
Ci strinse la mano in fretta e se ne andò. Avanzammo verso la porta proibita, tagliata in un tramezzo improvvisato che divideva il corridoio in due. Era chiusa si udiva parlare e ridere dall'altra parte. Eccetto quel rumore di voci, gli immensi spazi del palazzo erano silenziosi come una tomba.
Un vecchio usciere si avvicinò.
— Non è permesso
entrare, barin.
Dopo qualche minuto,
balbettando che andava a prendere un bicchiere di the, se ne andò. Girammo la
chiave ed aprimmo la porta.
V'erano alcuni
soldati di guardia dall'altra parte, ma non ci dissero niente. Alla fine del
corridoio si trovava una vasta stanza, decorata di cornici dorate e di enormi
lampadari di cristallo, poi seguiva una serie di camere più piccole, con
decorazioni in legno scuro. Dalle due parti, lungo i muri, si allineavano
materassi e coperte sporche, sulle quali erano coricati i soldati. Il pavimento
era coperto da una vera lettiera di mozziconi di sigarette, di pezzi di pane,
di vestiti e di bottiglie vuote con le etichette delle grandi case francesi.
Gruppi di soldati, che portavano le spalline rosse delle scuole degli junker,
andavano e venivano in una atmosfera acre di tabacco e di umanità mal
lavata. Uno aveva una bottiglia di Borgogna, evidentemente sottratta dalle
cantine del palazzo. Ci guardarono stupiti, mentre percorrevamo le sale.
Arrivammo finalmente in una serie di grandi saloni, le cui finestre, molto sporche,
guardavano sulla piazza. Sulle mura, in cornici dorate massicce, quadri
immensi rappresentavano delle scene storielle: «12 ottobre 1812», «6 novembre
1812», «12 agosto 1813». Uno di essi aveva un grande strappo all'angolo
destro.
Quei saloni erano
diventati una immensa caserma, e da parecchie settimane, a giudicare
dall'aspetto dei pavimenti e dei muri. Sui davanzali delle finestre erano
piazzate delle mitragliatrici: tra i pagliericci si alzavano i fasci dei
fucili.
Mentre guardavamo i
quadri sentii il mio orecchio sinistro solleticato da un acuto odore di alcool
e nel medesimo tempo una voce grossa articolò in buon francese:
—
Vedo col modo con cui ammirate i quadri
che siete stranieri.
Un piccolo uomo
basso, paffuto e calvo, ci si era avvicinato e ci salutò:
—
Siete americani? Felice... Sono il
capitano di Stato Maggiore Vladimiro Arzibascev. Tutto a vostra
disposizione...
Non sembrava che
trovasse nulla di straordinario nel fatto che quattro stranieri, tra cui una
donna, potessero attraversare così le linee d'un esercito in attesa di un
attacco. Cominciò invece a lamentarsi della situazione russa.
—
Ah! non si tratta solo dei bolscevichi!
— disse. — Se almeno le belle tradizioni dell'esercito russo non fossero così
calpestate!
Guardate un po', questi allievi delle scuole di ufficiali, sono forse
dei gentiluomini? Kerenski ha aperto la porte agli uomini provenienti dalla truppa,
ad ogni soldato capace di superare un esame. Naturalmente molti, molti sono
contaminati dalla rivoluzione...
Senza indugio passò
ad un altro argomento:
—
Vorrei ben lasciare la Russia. Sono
deciso ad entrare nel l'esercito americano. Potreste parlarne al vostro
console e facilitarmi? Vi darò il mio indirizzo...
Malgrado le nostre
proteste lo scrisse su un pezzo di carta e ciò parve sollevargli un po' il
morale. Ho conservato quell'indirizzo «scuola dei cadetti d'Oranienbaum.
Vecchio Petergof».
— Si è passata una
rivista questa mattina di buon'ora — continuò, guidandoci attraverso le sale e
dandoci delle spiegazioni. —
II Battaglione femminile ha deciso di restare fedele al governo.
—
Le donne-soldato sono nel Palazzo?
Sospirò:
—
È una grossa responsabilità.
Rimanemmo qualche
tempo presso una finestra, a guardare tre compagnie di junker, nei loro
lunghi cappotti, spiegate davanti al palazzo e che venivano arringate da un
ufficiale di alta statura, dall'aspetto energico. Era Stankievic, il
commissario militare in capo del governo provvisorio. Dopo qualche minuto due
compagnie misero il fucile sulle spalle e, gettando tre brevi hurrà,
attraversarono marzialmente la piazza e disparvero sotto l'Arco Rosso,
dirigendosi verso la città tranquilla.
—
Vanno ad occupare la centrale telefonica
— disse qualcuno.
Tre cadetti ci erano vicini. Cominciammo a parlare. Ci dissero che venivano dalla
truppa e ci diedero i loro nomi: Roberto Olev, Alessio Vassilenko e Erni Sachs,
quest'ultimo estone. Oramai non avevano più alcun desiderio di diventare
ufficiali perché gli ufficiali erano molto impopolari. Sembrava che non
sapessero molto bene che cosa fare ed era evidente che non erano contenti. Ma
assunsero ben tosto un tono vanaglorioso.
—
Se i bolscevichi verranno, mostreremo
loro come ci si batte.
Quelli hanno paura di battersi, sono dei poltroni. Ma se per caso
saremo sconfitti, ebbene, ciascuno di noi avrà sempre un'ultima
palla!
In quel momento una
scarica di fucileria scoppiò a poca distanza. Sulla piazza la gente cominciò a
fuggire o a gettarsi ventre a terra. I vetturini, fermi all'angolo delle
strade, presero la fuga in tutte le direzioni. Nell'interno dell'edificio tutti
si misero in moto; i soldati correvano in tutti i sensi, impugnando in fretta
fucili e cartucce e gridando: «Eccoli, eccoli!».
Qualche minuto più
tardi la calma era tornata. I vetturini ripresero i loro posti, i coricati si
rialzarono. Dall'Arco Rosso sboccarono gli junker; essi non marciavano
più al passo; uno avanzava sostenuto da due compagni...
Era ormai tardi
quando lasciammo il Palazzo. Sulla piazza non vi erano più sentinelle; il
grande semicerchio degli edifici governativi sembrava deserto. Andammo a
mangiare all'Albergo di Francia. Non avevamo ancora finita la nostra zuppa che
il cameriere si avvicinò, pallidissimo, ed insistette perché andassimo nella
grande sala in fondo, dovendosi spegnere le luci del caffè.
—
Farà caldo — disse.
Quando uscimmo era
completamente scuro sulla Morskaia. Solo un lampione a gas gettava qualche
bagliore all'angolo della Nevski, dove stazionava una grossa automobile
blindata col motore in marcia e che lasciava fuggire un fumo grasso. Un
ragazzo, arrampicato sul fianco della macchina, stava guardando nella canna di
una mitragliatrice. Soldati e marinai stavano intorno, evidentemente in
attesa.
Ritornammo verso
l'Arco Rosso, dove un gruppo di soldati discuteva animatamente guardando la
facciata scintillante del Palazzo d'Inverno.
—
No, compagni — diceva uno, — è
impossibile sparare. Il
battaglione di donne è là dentro e si direbbe che noi abbiamo
sparato su donne russe.
Tornando alla Nevski
incontrammo all'angolo un'altra automobile blindata. Un uomo spinse la testa fuori
della torretta.
—
Avanti! — gridò, — è il momento di
attaccare.
Il conduttore della
prima automobile si avvicinò e gridò con voce fortissima in modo da dominare il
rumore del motore:
—
Il Comitato ha detto di aspettare. Hanno
piazzato dell'artiglieria laggiù, dietro le cataste di legno.
Qui i tram non
circolavano più, i passanti erano rari e le luci spente. Ma qualche casa dopo,
noi vedemmo i tram, la folla, le vetrine illuminate, le réclames elettriche dei
cinematografi; la vita continuava come al solito. Avevamo dei biglietti per il
balletto del teatro Maria — tutti i teatri erano aperti — ma ciò che accadeva
di fuori era molto più interessante...
Nell'oscurità
inciampammo nelle cataste di legna che sbarravano il ponte della Polizia.
Davanti al palazzo Stroganov, alcuni mettevano in posizione un cannone da
campagna di tre pollici. Uomini in uniformi diverse andavano e venivano, senza
scopo, discutendo continuamente.
Tutta la città
sembrava essere uscita a passeggiare sulla Nevski.
Ad ogni angolo di
strada, folle immense si accalcavano attorno a qualche focolaio di discussioni
ardenti. Ai crocicchi, picchetti di soldati, colle baionette in canna; uomini
anziani, avviluppati in pellicce lussuose, tendevano i pugni contro di essi,
rossi di furore. Donne eleganti li ingiuriavano. I soldati rispondevano
blandamente, con delle smorfie imbarazzate. Parecchie autoblindo percorrevano
le strade; portavano il nome dei primi zar: Cleg, Rurik, Sviatoslav e, in
grandi lettere rosse, le iniziali del Partito Operaio socialedemocratico
russo: R.S.D.R.P.
Sulla Mikailovskaia
un uomo che portava una bracciata di giornali fu assalito da una folla
frenetica, che offriva un rublo, cinque rubli, dieci rubli e che si strappava i
fogli come animali che si disputino una preda. Era il Raboci ì Soldat che
annunciava la vittoria della rivoluzione proletaria, la liberazione dei
bolscevichi ancora imprigionati e reclamava l'aiuto degli eserciti del fronte
e dell'interno: un piccolo giornale febbrile, di quattro pagine, in caratteri
grossi e che non conteneva alcuna notizia...
All'angolo della
Sadovaia circa duemila persone si erano riunite e guardavano verso il tetto di
un grande edificio, da dove appariva e spariva una piccola scintilla rossa.
— Vedete — disse un
grande contadino, — è un provocatore. Sparerà sul popolo...
Evidentemente
nessuno si curava di andare a verificare tale affermazione.
Arrivammo a Smolni,
la cui facciata massiccia era tutta illuminata; da tutte le strade, immerse
nell'oscurità si rovesciavano ondate di forme vaghe che si muovevano in fretta.
Automobili e motociclette passavano; un'enorme automobile blindata, colore
elefante, avanzava pesantemente con due bandiere rosse sulla torretta, e
lanciando dei colpi di sirena. Faceva freddo ed alla cancellata esterna le
guardie rosse avevano acceso un fuoco. Alla porta interna, alla luce di un
altro fuoco, le sentinelle decifrarono faticosamente i nostri passaporti e ci
esaminarono. Le coperte di tela dei cannoni e delle mitragliatrici piazzate a
ciascun lato della porta, erano state tolte ed i nastri delle munizioni pendevano,
come serpenti, dalle culatte. Parecchie automobili blindate, con i motori in
marcia, stavano nella corte, sotto gli alberi. I lunghi corridoi nudi,
debolmente rischiarati, tremavano sotto il rumore assordante dei passi, delle
grida, delle chiamate. Regnava un'atmosfera di agitazione febbrile. Dalla scala
scendeva una folla: operai in bluse e con berretti di pelliccia nera, molti
col fucile in spalla; soldati in cappotti grossolani; color fango e con la sciapka
grigia appiattita sul davanti: alcuni capi, Lunaciarski, Kamenev
affannati, circondati da gruppi in cui tutti parlavano insieme, il viso
spossato ed ansioso, una borsa zeppa sotto il braccio. Finiva in quel momento
la riunione straordinaria del Soviet di Pietrogrado. Fermai Kamenev, piccolo
uomo dai movimenti vivaci, dalla faccia larga ed animata, quasi senza collo.
Senza altro preambolo ci lesse in francese una rapida traduzione della risoluzione
votata:
— Allora voi considerate la partita come
vinta?
Sul pianerottolo incontrai Riazanov, vice presidente del consiglio dei
sindacati: era scuro e si mordeva i baffi grigi:
—
È insensato! insensato! — gridò. — I
lavoratori d'Europa
non si muoveranno! Tutta la Russia... — Levò disperatamente
le braccia al cielo e si allontanò correndo. Riazanov e Kamenev, ambedue
contrari all'insurrezione, erano stati sferzati da Lenin.
La seduta era stata
decisiva. A nome del Comitato militare rivoluzionario, Trotsky aveva dichiarato
che il governo provvisorio non esisteva più.
—
La caratteristica dei governi borghesi,
— aveva detto, — è
di ingannare il popolo. Noi, i Soviet dei deputati operai, soldati e
contadini, cominciamo a tentare una esperienza unica nella storia. Noi stiamo creando un governo, il cui solo scopo sarà
quello di soddisfare i bisogni dei soldati, degli operai e dei contadini.
Lenin, accolto da
una possente ovazione, aveva profetizzata la rivoluzione sociale nel mondo
intero... Zinoviev aveva gridato:
Poi, Trotsky aveva
annunciato l'invio di telegrammi al fronte per diffondere la notizia della
vittoria, aggiungendo che nessuna risposta era arrivata. Correva la voce che
truppe marciavano su Pietrogrado; bisognava inviare loro incontro una
delegazione per dire loro la verità.
Alcune grida si
erano udite: — Voi sopravanzate la volontà del Congresso panrusso dei Soviet.
Ma Trotsky,
freddamente:
Riuscimmo a
penetrare nella grande sala delle riunioni, aprendoci il cammino attraverso la
folla che si ammassava alla porta. Ammucchiati sulle panche, sotto i candelabri
bianchi, stringendosi nei passaggi e nei più piccoli angoli, appollaiati sui davanzali
delle finestre e perfino sui parapetti della tribuna, i rappresentanti degli
operai e dei soldati di tutta la Russia attendevano, gli uni in un silenzio
pieno di ansietà, gli altri in uno stato di esaltazione indescrivibile, il
colpo di campanello del presidente.
La sala era
riscaldata solo dal calore soffocante di corpi umani non lavati. Una spessa
nuvola azzurra di fumo di sigarette si levava da quella fossa e restava sospesa
nell'aria pesante. Ogni tanto qualcuno montava alla tribuna e pregava i
compagni di non fumare. Allora tutti, compresi i fumatori, gridavano: «Non fumate,
compagni!» e poi tutti continuavano. Petrovski, delegato anarchico delle
officine d'Obukhovo, mi fece un po' di posto accanto a lui. Con la barba
lunga, sporco, egli cadeva di fatica, spossato da tre notti senza sonno
passate al Comitato militare rivoluzionario. Alla tribuna avevano preso posto
i capi del vecchio Zik, dominando per l'ultima volta quei Soviet
turbolenti, che essi dirigevano dall'inizio della rivoluzione, ma che adesso
si erano levati contro di loro. Terminava così il primo periodo della rivoluzione,
che quegli uomini avevano tentato di mantenere nelle vie della prudenza.
Mancavano i tre
principali: Kerenski, che correva verso il fronte, attraverso città di
provincia nelle quali l'agitazione cominciava ad essere inquietante; Ceidze, la vecchia aquila che si era
sdegnosamente ritirata nelle sue montagne della Georgia, dove doveva colpirlo
la tisi; infine Zereteli, quel nobile carattere, che, colpito anche lui
abbastanza pericolosamente dalla malattia, doveva tuttavia ancora portare la
sua bella eloquenza in difesa di una causa perduta. Gotz, Dan, Liber, Bogdanov,
Broido, Filippovski erano presenti, con i visi pallidi, gli occhi infossati,
gonfi di indignazione. Sotto di essi ribolliva e fremeva il secondo Congresso
panrusso dei Soviet, mentre sopra le loro teste il Comitato militare
rivoluzionario forgiava il ferro arroventato, maneggiava con decisione le file
dell'insurrezione, colpiva con braccio potente...
Erano le dieci e
quaranta della sera.
Dan, uomo dal viso
dolce, calvo, vestito di un'uniforme poco elegante di medico militare, agitava
il campanello. Si fece un silenzio istantaneo, imponente, turbato solo dagli
urti e dalle discussioni alla porta.
—
Il potere è nelle nostre mani, —
cominciò con un accento
di tristezza.
Tacque un istante e
continuò poi, abbassando la voce:
—
Compagni, il Congresso dei Soviet si
riunisce in circostanze
così eccezionali, in un momento così straordinario che voi comprenderete
perché lo Zik non ritiene necessario di aprire questa
riunione con un discorso politico. Voi lo comprenderete ancora
meglio se considererete che io sono membro dell'Ufficio dello Zik
e che in questo stesso momento, i nostri compagni di partito sono
al Palazzo d'Inverno, sotto il bombardamento, sul punto di sacrificarsi per adempire alle funzioni di ministri che sono state loro
affidate dallo Zik. (Tumulto). La prima seduta del secondo Congresso dei Soviet dei deputati operai e soldati è aperta.
La elezione
dell'Ufficio si fece tra l'agitazione e l'andirivieni. Avanessov annunciò che,
in seguito ad una intesa tra i bolscevichi, la sinistra S.R. ed i menscevichi
internazionalisti, l'Ufficio sarebbe stato costituito secondo il principio
della proporzionalità. Parecchi menscevichi scattarono per protestare. Un
soldato barbuto gridò: «Ricordatevi come avete agito con noi bolscevichi,
quando noi eravamo minoranza».
La votazione diede
14 bolscevichi, 7 socialisti rivoluzionari ed un internazionalista (gruppo
Gorki). Hendelmann dichiarò allora che i socialrivoluzionari di destra e di
centro rifiutavano di far parte
dell'Ufficio: Kinciuk fece una dichiarazione analoga a nome dei menscevichi. I
menscevichi internazionalisti fecero sapere che anche essi non potevano entrare
nell'Ufficio, in attesa di verificare alcuni fatti. (Applausi isolati ed
urla. Una voce: «Rinnegati! E voi osate dirvi socialisti!»). Un delegato
ucraino domandò ed ottenne un seggio. Poi il vecchio Zik lasciò la
tribuna e si vide salirvi Trotsky, Kamenev, Lunaciarski, la Kollontai,
Noghin... La sala si levò in una tempesta di applausi. Quanta strada avevano
fatta quei bolscevichi, setta disprezzata e perseguitata meno di quattro mesi
prima, giunti oggi al posto supremo, al timone della grande Russia in piena
insurrezione!
Kamenev comunicò
l'ordine del giorno: 1. l'organizzazione del potere, 2. la guerra e la pace, 3.
l'Assemblea Costituente.
Losovski si alzò per
annunciare che, in seguito ad accordo tra i diversi gruppi, si proponeva di
ascoltare e di discutere il rapporto del Soviet di Pietrogrado, poi di dare la
parola ai membri dello Zik ed ai diversi partiti, ed infine, di passare
all'ordine del giorno.
Ma, improvvisamente
una nuova voce si fece udire: più profonda del clamore dell'assemblea,
persistente, angosciante: la voce sorda del cannone. Gli sguardi si volsero
ansiosi verso le finestre e una specie di febbre s'impadronì dell'assemblea.
Martov domandò la parola e, con voce rauca:
—
La guerra civile incomincia, compagni.
La prima questione
dev'essere la soluzione pacifica della crisi. Per ragioni di principio,
come pure per ragioni politiche, noi dobbiamo incominciare col
discutere d'urgenza i mezzi per impedire la guerra civile. Si uccidono i
nostri fratelli nelle strade. In questo momento, ancor prima dell'apertura del
Congresso dei Soviet, si tenta di risolvere la questione del potere per mezzo
d'un complotto militare organizzato da uno dei partiti rivoluzionari...
Per un istante, il
rumore gli impedì di farsi intendere.
—
Tutti i partiti rivoluzionari devono
considerare questo fatto
con attenzione. La prima questione che si pone al Congresso è la
questione del potere e questa questione si sta regolando nella strada, con la
forza delle armi. Noi dobbiamo nominare una delegazione che tratterà con gli
altri partiti e organizzazioni socialiste...
I colpi sordi del
cannone continuavano a scuotere le finestre con regolarità, e i deputati a
scambiarsi invettive... Fu così, tra il rombo dell'artiglieria, nell'oscurità,
fra gli odi, la paura e l'audacia più temeraria, che nacque la nuova Russia.
La sinistra S.R. e i
socialdemocratici unificati appoggiarono la proposta di Martov. Essa fu
adottala.
Un soldato annunciò
che il Soviet panrusso dei contadini aveva rifiutato di inviare i suoi
delegati al Congresso e propose che una commissione andasse ad invitarlo
ufficialmente. «Frattanto — disse — poiché alcuni delegati sono presenti,
propongo che si dia loro il diritto di voto». La proposta fu subito approvata.
Karrasc, che portava
i galloni di capitano, reclamò la parola arrogantemente:
—
I politicanti ipocriti che dominano
questa assemblea — gridò, — ci hanno detto che noi dobbiamo risolvere la
questione del
potere. Ma essa si risolve alle nostre spalle, prima ancora dell'apertura del
Congresso. Però i colpi diretti in questo momento contro il Palazzo d'Inverno
non faranno che ribattere i chiodi nella
bara del partito politico che ha arrischiato questa avventura!
(Tumulto).
Dopo di lui, Garra:
—
Mentre noi discutiamo qui della pace, si
combatte nelle
strade... I S.R. ed i menscevichi respingono ogni responsabilità
in questo movimento ed invitano la forza pubblica ad opporsi ad
ogni tentativo violento di conquista del potere.
Kucin, delegato
della XII Armata e rappresentante dei trudovichi, disse:
—
Sono venuto qui solo a scopo di
informazione. Al fronte,
dove tornerò subito, tutti i comitati giudicano che la presa del
potere da parte dei Soviet, tre settimane prima della riunione
della Costituente, è una pugnalata nella schiena dell'esercito ed un
delitto contro la nazione!
Grida: «Bugiardo!
bugiardo!».
Quando potè farsi
sentire di nuovo, riprese:
— Terminiamo qui
questa avventura. Prego i delegati di abbandonare, tutti, questa sala per la
salvezza del paese e della rivoluzione!
Mentre attraversava
la sala, tra un tumulto assordante, parecchi delegati si gettarono su di lui e
lo minacciarono...
Allora Kinciuk,
ufficiale dalla lunga barba di capra, tentò la dolcezza e la persuasione:
— Parlo a nome dei
delegati del fronte. L'esercito è imperfettamente rappresentato in questo
congresso ed inoltre esso non crede che il Congresso dei Soviet sia necessario
tre settimane prima dell'apertura della Costituente...
Le grida ed i
calpestii si facevano sempre più violenti.
—
L'esercito non crede che il Congresso
dei Soviet abbia l'autorità necessaria...
Parecchi soldati si
levarono nella sala, un po' dovunque.
—. A nome di chi
parlate? Chi rappresentate? — gridavano.
Un immenso clamore
si levò:
— Voi parlate a nome
dello Stato Maggiore, non a nome del
l'Esercito!
A nome dei
menscevichi Kinciuk dichiarò che la sola soluzione pacifica consisteva
nell'inizio di trattative con il governo provvisorio per la formazione di un
nuovo ministero che avesse l'appoggio di tutte le classi sociali. Per parecchi
minuti gli fu impossibile di continuare. Allora, alzando la voce, egli gridò
più che non leggesse la dichiarazione menscevica:
— I bolscevichi hanno
fomentata una cospirazione militare
con l'aiuto del Soviet di Pietrogrado, senza consultare gli altri
gruppi o partiti. Noi riteniamo perciò impossibile rimanere nel
Congresso. Noi ci ritiriamo, invitando gli altri gruppi a seguirci
ed a riunirsi per discutere della situazione.
Dopo si potè sentire
a intervalli, tra i rumori quasi continui, Hendelman protestare, a nome dei
socialisti rivoluzionari, contro il bombardamento del Palazzo d'Inverno:
—
Noi siamo contrari a una tale
anarchia...
Era appena disceso
dalla tribuna che un giovane soldato dal viso magro, gli occhi folgoranti, vi
si precipitò, e, stendendo le braccia in un gesto drammatico, impose il
silenzio:
—
Compagni, mi chiamo Peterson, e
rappresento il II di fanteria lettone. Voi avete sentite le dichiarazioni di
due delegati
dell'Esercito; queste dichiarazioni avrebbero valore se i loro autori
fossero realmente i rappresentanti dell'esercito... (Applausi frenetici). Io
non parlo alla leggera; costoro non rappresentano i soldati. È molto tempo ormai che la XII Armata reclama le nuove
elezioni per il Soviet e per il Comitato esecutivo dei soldati. Si è
convocato un «piccolo Soviet», ma la convocazione del «Grande
Soviet» è stata rimandata alla fine di settembre, per permettere
a questi signori di rimanere delegati al Congresso dei Soviet.
Molte volte i soldati lettoni hanno detto: «Basta con gli ordini
del giorno, basta con le parole! Vogliamo dei fatti! Vogliamo il
potere!» Che i delegati impostori lascino pure il Congresso! L'esercito non è con loro!
Gli applausi fecero
tremare la sala. Al principio della seduta, stupiti per la rapidità degli
avvenimenti, sorpresi dal rumore del
cannone, i delegati esitavano. Per un'ora, dalla tribuna, essi erano
stati colpiti da continui colpi di martello, che li avevano saldati in un sol
blocco ma anche schiacciati. Era dunque vero che erano isolati? La Russia si
era dunque levata contro di loro? Era vero che l'esercito marciava su
Pietrogrado? Poi quel giovane soldato, dallo sguardo limpido, era venuto e,
come in un lampo, essi avevano riconosciuta la verità... Le sue parole erano
la voce dei soldati; i milioni brulicanti di operai e contadini in uniforme
erano uomini come lui, che sapevano e sentivano come lui.
Parlarono altri
soldati. Tra essi Ghilsciak, a nome dei delegati del fronte. Questi, disse,
avevano deciso di abbandonare il Congresso solo con una piccola maggioranza.
Ma i delegati bolscevichi non avevano preso parte al voto, perché ritenevano che
si doveva votare solamente come partiti politici e non come gruppi territoriali
o professionali.
—
Centinaia di delegati del fronte sono
eletti senza la partecipazione dei soldati, perché i Comitati dell'esercito non
sono
più i veri rappresentanti della truppa...
Lukianov proclamò
che gli ufficiali, come Karrasc e Kinciuk, non potevano essere al Congresso i
rappresentanti dell'esercito, ma solo quelli dell'alto comando.
—
Gli abitanti delle trincee augurano con
tutta la loro anima
il passaggio del potere nelle mani dei Soviet...
La marea cominciava
ormai a scagliarsi in ben altra direzione.
Abramovic,
socchiudendo gli occhi dietro gli occhiali spessi, tremante di rabbia, parlò a
nome del Bund, il partito dei socialdemocratici ebrei:
—
Ciò che avviene in questo momento a
Pietrogrado è una
calamità spaventosa. Il gruppo del Bund aderisce alla dichiarazione dei menscevichi e dei S.R. ed abbandona il Congresso. Il
nostro dovere verso il proletariato russo non ci permette di rimanere qui e di accettare la responsabilità di questi delitti. Poiché
il bombardamento del Palazzo d'Inverno non finisce, la Duma municipale,
d'accordo con i menscevichi, con i S.R. e con il Comitato esecutivo del Soviet
dei contadini ha deciso di morire con il governo provvisorio. Noi andiamo ad unirci
a loro e, senza armi, offriremo i nostri petti alle mitragliatrici dei
terroristi. Noi invitiamo tutti i delegati di questo Congresso...
Il resto si perdette
in una tempesta di urla, di minacce e di ingiurie che raggiunse il colmo quando
cinquanta delegati si alzarono e cominciarono ad aprirsi la strada verso
l'uscita.
Kamenev agitava
disperatamente il campanello. «Rimanete ai vostri posti, continuiamo a
lavorare» gridò.
Trotsky si alzò, il
viso pallido, l'espressione crudele, ed articolò, la voce squillante, con una
freddezza sprezzante:
—
Tutti questi opportunisti che si dicono
socialisti, menscevichi, socialistirivoluzionari, Bund, possono
andarsene senz'altro.
Non son che rifiuti che la storia getterà nell'immondezzaio.
Riazanov comunicò, a
nome dei bolscevichi, che, su domanda della Duma municipale, il Comitato
militare rivoluzionario aveva mandato una delegazione al Palazzo d'Inverno per
trattare.
—
Così noi avremo fatto tutto il possibile
per evitare uno
spargimento di sangue...
Partimmo in fretta,
fermandoci un momento nella stanza dove il Comitato militare rivoluzionario
lavorava con un ritmo vertiginoso, ricevendo e rispedendo i corrieri
ansimanti, inviando in tutti gli angoli della città commissari muniti del
potere di vita o di morte, in mezzo agli squilli incessanti del telefono. La
porta si aprì, una corrente di aria viziata e di fumo di sigarette ci investì,
e noi vedemmo alcuni uomini, con i capelli arruffati, curvi su una carta, sotto
la luce abbagliante delle lampade elettriche. Il compagno Josefov-Dukvinski, un
giovanotto sorridente, con un ciuffo di capelli di un biondo pallidissimo, ci
diede dei salvacondotti.
Quando uscimmo nella
notte fresca, tutta la piazza davanti a Smolni era un immenso parco di
automobili ed in lontananza risuonavano i colpi lenti del cannone, dominando il
rumore dei motori. Un grande camion era fermo davanti all'entrata, scosso dalle
vibrazioni del motore. Alcuni uomini vi ammucchiavano dei pacchetti; i loro
fucili stavano vicini.
—
Dove andate? — gridai.
Mostrammo i nostri
salvacondotti:
—
Venite con noi, ma vi saranno certamente
delle fucilate.
Ci arrampicammo, il conducente mise il motore in marcia ed il grande camion
balzò avanti, gettandoci su quelli che stavano ancora salendo. Passammo vicino
ai due fuochi accanto alle porte, che gettavano i loro bagliori sugli operai
armati che li circondavano, e filammo a grande velocità per il Corso
Suvorovski, terribilmente sballottati... Uno degli uomini strappò la carta che
avvolgeva un pacco e si mise a gettare in aria dei giornali, a manate. Noi
l'imitammo, dimodoché il nostro camion si immergeva nella oscurità nella
strada, seguito da una scia bianca di fogli che gli svolazzavano dietro. I
passanti ritardatari raccoglievano i giornali, le pattuglie ai crocicchi si
precipitavano tendendo le mani, per afferrarli al volo. Qualche volta ci si
levavano davanti uomini armati che ci gridavano loro qualche parola
incomprensibile ed andavamo avanti...
Presi uno dei fogli
e lessi alla luce fuggente dei lampioni:
IL COMITATO MILITARE
RIVOLUZIONARIO
II mio vicino, un
uomo dagli occhi obliqui, dal viso di mongolo, vestito con un mantello
caucasico, in pelle di capra, avvertì:
— Attenti! qui vi
sono sempre dei provocatori che sparano dalle finestre.
Arrivammo sulla
piazza Snamenskaia, scura e quasi deserta, e girando attorno la rude statua di
Trubetskoi, infilammo la vasta Nevski; tre uomini, gli occhi fissi verso le
finestre, erano pronti a sparare. Sul nostro paesaggio la gente correva a
raccogliere i fogli. Non udivamo più il cannone e più ci avvicinavamo al
Palazzo d'Inverno più le strade erano calme e deserte. La Duma municipale era
brillantemente illuminata. Poco più lontano scorgemmo nell'ombra un gruppo ed
una linea di marinai che ci imposero furiosamente di fermarci. Il motore
rallentò e noi discendemmo.
Dinanzi a noi si
svolgeva una scena stupefacente. Proprio all’angolo del Canale di Caterina,
sotto una lampada ad arco, un cordone di marinai tagliava la Nevski, sbarrando
il passo a una folla che avanzava in colonna, per quattro. Erano circa tre o
quattrocento, uomini in rendigote, donne eleganti, ufficiali, persone di ogni
condizioni. Riconoscemmo tra di loro parecchi delegati al Congresso, parecchi
capi menscevichi e S.R.: il magro Avxentiev, con la barba rossa, presidente del
Soviet dei contadini; Sorokin, uomo di fiducia di Kerenski, Kinciuk, Abramovic
e, alla loro testa, il vecchio Screider, sindaco di Pietrogrado, con la barba
bianca, e Prokopovic, ministro degli approvvigionamenti del governo
provvisorio, che era stato arrestato la mattina stessa e poi rilasciato. Scorsi
anche Malkin, corrispondente del Russian Daily News. «Andiamo a
cercare la morte al Palazzo d'Inverno!» gridò gaiamente. La colonna si fermò
ed alla testa cominciò una vivace discussione. Screider e Prokopovic
apostrofavano un grosso marinaio che sembrava il comandante.
— Vogliamo passare —
gridavano. — Tutti questi compagni vengono dal Congresso dei Soviet. Guardate
le loro tessere. Noi andiamo al Palazzo d'Inverno.
Il marinaio era
molto imbarazzato. Si grattò la testa con la mano enorme, ed aggrottò le
sopracciglia.
—
Il Comitato mi ha ordinato di non
lasciare andare nessuno
al Palazzo d'Inverno — borbottò. — Mando subito un compagno
a telefonare a Smolni.
—
Che cosa farete? Che cosa volete fare?
Un altro marinaio,
irritatissimo, prese la parola:
—
Che cosa faremo? Adesso vi mandiamo
tutti a casa — disse
in tono energico. — E se ci obbligate, spareremo. Andatevene a
casa e lasciateci in pace.
Gli rispose un
grande clamore di malcontento e di collera, Prokopovic si arrampicò su una
cassa e, agitando il parapioggia, cominciò a pronunciare un discorso:
—
Compagni, cittadini! Si adopera la forza
contro di noi.
Noi non possiamo permettere che questi ignoranti sporchino le
loro mani col nostro sangue innocente. Non è degno di noi lasciarci fucilare qui da questi deviatori. — (Mi sono sempre domandato che
cosa abbia voluto dire con la parola: deviatori). — Torniamo alla Duma per
discutere il mezzo migliore per salvare il
paese e la Rivoluzione.
Persuaso da queste
parole, il corteo fece dietrofront in un silenzio pieno di dignità e risalì la
Nevski, sempre in colonna per quattro.
Approfittando della
confusione, sgusciammo tra le sentinelle e ci avviammo verso il Palazzo
d'Inverno.
L'oscurità era
completa. Si vedevano solo picchetti di soldati e di guardie rosse, che
vegliavano con grande attenzione. All'altezza della cattedrale di Kazan, nel
mezzo della strada, un cannone da campagna da tre pollici, era rimasto nella
posizione in cui l'aveva gettato il rinculo dell'ultimo colpo sparato al
disopra dei tetti. Sotto tutte le porte soldati che parlavano a voce bassa,
guardando verso il Ponte della Polizia. Ne sentii uno che diceva: «Forse
abbiamo avuto torto...». Agli angoli delle strade, le pattuglie fermavano
tutti i passanti; malgrado fossero formate da soldati regolari esse erano
comandate, particolare interessante, sempre da una guardia rossa.
Il fuoco era
cessato. Arrivando alla Morskaia sentimmo qualcuno gridare: «Gli junker chiedono
che si venga loro in aiuto». Alcune voci lanciarono degli ordini, e, nella
notte cupa, distinguemmo una massa scura che si metteva in marcia rompendo il
silenzio solo con il rumore dei passi e delle armi.
Ci unimmo alle prime
file. Come un fiume nero, riempiendo tutta la strada, senza canti e senza
risate, passavano sotto l'Arco Rosso, quando l'uomo che marciava proprio
davanti a me, disse a bassa voce: «Attenti! compagni! non bisogna fidarsi.
Spareranno di sicuro».
Dall'altra parte
dell'Arco prendemmo la corsa, abbassandoci e facendoci piccoli il più
possibile; poi ci riunimmo dietro il piedestallo della colonna di Alessandro.
—
Quanti morti avete? — domandai.
Dopo essere rimasta
qualche minuto raccolta dietro la colonna, la truppa, che comprendeva qualche
centinaio di uomini, ritrovò la calma, e senza nuovi ordini, da se stessa,
riprese la marcia in avanti. Alla luce, che cadeva dalle finestre del Palazzo
d'Inverno, ero riuscito a vedere che i primi due o trecento erano guardie
rosse, tra le quali si trovavano sparsi solo alcuni soldati. Scalammo la
barricata di ceppi che difendeva il Palazzo e gettammo un grido di trionfo
saltando dall'altra parte, su un mucchio di fucili, abbandonati là dagli junker.
Dalle due parti dell'entrata principale, le porte erano spalancate,
lasciando uscire la luce. Dallo immenso edificio, non un rumore.
L'ondata impaziente
della truppa ci spinse nella porta destra, che conduceva ad una vasta sala con
il soffitto ricurvo e con i muri nudi —la cantina dell'ala est donde cominciava
un labirinto di corridoi e di scale. Guardie rosse e soldati si gettarono
subito su parecchie grandi casse che si trovavano là, facendone saltare i coperchi
con il calcio dei fucili e tirandone fuori tappeti, tende, biancheria,
vasellame di porcellana, vetrerie, ecc. Uno di essi mostrava fieramente una
pendola di bronzo, che si era messa sulle spalle. Un altro s'era piantata sul
cappello una piuma di struzzo. Il saccheggio era appena cominciato, quando una
voce si alzò: «Compagni, non toccate niente, non prendete niente. Tutto questo
è proprietà del popolo!». Subito venti voci ripeterono: «Fermi! rimettete
tutto a posto. Non prendete niente, è proprietà del popolo!». Alcune mani
afferrarono i colpevoli. Le stoffe di damasco, le tappezzerie furono tolte ai
saccheggiatori; due uomini afferrarono la pendola di bronzo. Gli oggetti alla
meglio rimessi nelle casse, alcuni uomini si incaricarono volontariamente di
montare la guardia. La reazione era stata del tutto spontanea. Nei corridoi e
nelle scale, affievolite dalla distanza, echeggiavano le parole: «Disciplina
rivoluzionaria! Proprietà del popolo!».
Andammo alla porta
di sinistra, nell'ala Ovest. Anche là si ristabiliva l'ordine:
— Sgombrate il
Palazzo! — urlava una guardia rossa. — Via, compagni, dimostriamo che non siamo
né ladri né banditi! Tutti fuori palazzo, meno i commissari, fino a che non
siano messe le sentinelle.
Due guardie rosse,
un ufficiale ed un soldato, stavano in piedi, con il revolver in pugno; un
altro soldato era seduto ad un tavolo, con penna e carta. Ovunque risuonava il
grido: «Fuori tutti! fuori tutti!» ed, a poco a poco, la truppa cominciò ad
uscire urtandosi, borbottando, protestando. Ogni soldato era afferrato e
frugato, gli vuotavano le tasche, gli guardavano sotto il cappotto. Tutto ciò
che non era evidentemente di sua proprietà veniva sequestrato: il segretario
prendeva nota e l'oggetto era portato in una piccola stanza vicina.
Si confiscò così un
assortimento straordinario di oggetti: statuette, bottiglie di inchiostro,
copriletto ricamati con le cifre imperiali, candelieri, una piccola scatola di
colori, cartelle, spade con l'impugnatura d'oro, pezzi di sapone, vestiti di
ogni genere, coperte. Una guardia rossa aveva tre fucili, di cui due tolti
agli junker, un altro quattro borse zeppe di carte. I colpevoli o restituivano
malcontenti o si difendevano come fanciulli. I membri della Commissione di
controllo, parlando tutti insieme, spiegavano che rubare era indegno per i
campioni del popolo. Spesso coloro che erano stati sorpresi in fallo si
fermavano e aiutavano a frugare i loro compagni.
Si presentavano
anche gli junker, a gruppi di tre o quattro. La Commissione si
impadroniva di loro con uno zelo specialissimo e durante le perquisizioni gli
regalava epiteti vari: «Provocatori! kornilovisti! controrivoluzionari!
assassini del popolo!». Nessuna violenza, ma non per questo erano meno
terrorizzati. Anch'essi si erano riempite le tasche. Tutto era accuratamente
annotato dal segretario e portato nella piccola stanza... Inoltre gli junker
venivano disarmati.
—
Ebbene, prenderete voi ancora le armi
contro il popolo? — si domandava loro.
L'un dopo l'altro
rispondevano di no, e su questo impegno venivano lasciati liberi.
Domandammo se ci era
possibile di entrare. La Commissione esitò ma una guardia rossa gigantesca
rispose, in tono deciso, che era proibito.
—
D'altra parte, chi siete voi? — domandò.
— Come faccio io
a sapere che voi non siete tutti kerenskiani? (Noi eravamo cinque,
tra cui due donne).
Un soldato ed una
guardia rossa comparvero sulla porta, facendosi largo tra la folla; erano
seguiti da altre guardie che, baionetta in canna, scortavano una mezza dozzina
di borghesi, i quali si avanzavano l'un dopo l'altro. Erano i membri del governo
provvisorio. In testa Kisckin, pallido e con i lineamenti tirati, poi
Ruttemberg, che guardava il pavimento con lo sguardo cupo; ultimo veniva
Teresctscenko, che lanciava dei vivaci sguardi tutto attorno e fermò su di noi
un'occhiata fredda... Sfilarono in silenzio. Gli insorti vittoriosi si
pigiavano per vederli, ma la loro collera si esprimeva solo in qualche mormorio.
Sapemmo più tardi che il popolo, nella strada, aveva tentato di linciarli e che
delle fucilate erano state sparate; i marinai però riuscirono a condurli sani e
salvi fino alla fortezza di Pietro e Paolo...
Intanto,
approfittando delle circostanze, eravamo entrati nel palazzo. Vi era ancora
molto andirivieni: si visitavano le stanze del vasto edificio, si cercavano gli
junker che non c'erano più. Salimmo e percorremmo tutte le sale. La
parte opposta del palazzo era stata invasa da altri distaccamenti, giunti dalla
parte della Neva. I quadri, le statue, le tappezzerie, i tappeti delle grandi
sale delle cerimonie erano intatti: ma negli uffici tutti gli scrittoi, tutti
gli armadi erano stati forzati e le carte erano state strappate dai letti ed i
guardaroba saccheggiati. Il bottino più apprezzato erano i vestiti, di cui i
lavoratori avevano un grande bisogno. In una camera, dove erano stati
immagazzinati dei mobili, trovammo due soldati che stavano strappando il cuoio
di Cordova delle poltrone. Ci spiegarono che volevano farsene delle scarpe...
I vecchi servitori
del palazzo, nelle uniformi azzurre, rosse e oro, andavano e venivano
nervosamente, ripetendo per abitudine: «Non si entra qui, barin, è
proibito». Arrivammo infine alla camera di oro e di malachite, dalle
tappezzerie di broccato rosso, dove i ministri erano stati riuniti durante
tutto il giorno precedente e durante tutta la notte e dove erano stati
consegnati alle guardie rosse dagli uscieri. La lunga tavola ricoperta di panno
verde era ancora come essi l'avevano lasciata al momento dell'arresto. Davanti
a ciascun posto vuoto vi erano un calamaio, una penna e dei fogli di carta sui
quali erano stati abbozzati, in fretta, piani di azione e schemi di proclami e
di manifesti. Questi erano stati però cancellati quasi tutti, poiché la loro
inutilità era diventata evidente. La parte inferiore dei fogli era ricoperta
di vaghi disegni geometrici, schizzati macchinalmente dai ministri mentre
ascoltavano, senza più alcuna speranza, i progetti chimerici che i loro
colleghi esponevano l'un dopo l'altro.
Raccolsi uno di quei
fogli dove si può leggere la frase seguente, di pugno di Konovalov: «II
governo provvisorio domanda a tutte le classi di sostenere il governo...».
Bisogna ricordare
che, quantunque il Palazzo d'Inverno fosse circondato, il governo era rimasto,
fino all'ultimo momento, in comunicazione costante con il fronte e con la
provincia. I bolscevichi si erano impadroniti del ministero della Guerra fin
dal mattino presto, ma essi ignoravano l'esistenza di un ufficio telegrafico
militare sotto i tetti, che era legato da una linea telefonica speciale al
Palazzo d'Inverno. Un giovane ufficiale vi lavorava dalla mattina alla sera,
inondando il paese di appelli e di proclami; quando seppe che il Palazzo era
preso si mise il berretto e lasciò tranquillamente l'edificio.
Tutti presi dai
fatti che si svolgevano attorno, notammo solo dopo qualche tempo il cambiamento
che era avvenuto nell'atteggiamento dei soldati e delle guardie rosse verso di
noi. Mentre andavamo di camera in camera un piccolo gruppo ci seguiva e quando
arrivammo alla grande galleria di quadri, dove avevamo passato il pomeriggio
con gli junker, un centinaio di uomini ci circondò. Un soldato colossale
ci si piantò dinanzi il viso scuro per i più neri sospetti.
— Chi siete? —
gridò. — Che cosa fate qui?
Gli altri si
riunirono lentamente attorno a lui squadrandoci. «Provocatori!» mormorarono
alcuni. «Saccheggiatori!» disse un altro. Presentai i nostri salvacondotti
del Comitato militare rivoluzionario. Il soldato li prese e li rigirò in ogni
senso, guardandoli senza capire. Evidentemente non sapeva leggere. Ce li rese,
sputando sprezzantemente sul pavimento.
«Carta, si sa che cosa vale!» disse con disprezzo. Gli altri cominciavano ad
avvicinarcisi, come un branco selvaggio accerchiante un cowboy che si è
lasciato sorprendere appiedato. Al disopra delle loro teste vidi un ufficiale
che non sembrava sapere troppo bene che cosa decidere. Lo chiamai ed egli si
diresse verso di noi, aprendosi una strada tra gli uomini.
—
Sono il Commissario, — mi disse. — Chi
siete? Che cosa c'è?
Gli uomini si
tirarono un poco indietro, in attesa. Gli feci vedere le nostre carte.
—
Voi stranieri? — domandò in francese. —
È molto pericoloso...
Rivolgendosi poi
verso la folla dei soldati, mostrò loro le nostre carte gridando:
—
Compagni, sono dei compagni stranieri,
americani. Sono
venuti qui per poter dire ai loro compatrioti tutto il coraggio e
la disciplina rivoluzionaria dell'esercito proletario.
Ci accompagnò
attraverso il Palazzo, fino ad una porta che dava sulla strada lungo la Neva e
accanto alla quale funzionava una Commissione di controllo.
Uscimmo nella notte
ghiacciata, tutta fremente e mormorante di truppe invisibili, solcata da
pattuglie. Dall'altra riva del fiume, dove si elevava la massa scura di Pietro
e Paolo, saliva un clamore rauco... Sotto i nostri piedi il marciapiedi era
ricoperto dai rottami del cornicione di stucco, che aveva ricevuto due
proiettili dall'incrociatore Aurora: i soli guasti causati dal bombardamento.
Erano le tre del
mattino. Sulla Nevski tutti i lampioni a gas erano accesi di nuovo; il cannone
da tre pollici era stato tolto e solamente le guardie rosse ed i soldati,
seduti attorno ai fuochi, ricordavano ancora la guerra. La città era calma,
calma come forse non era stata mai nel corso della sua storia; in quella notte
non fu commesso un delitto, non un furto!
L'edificio della
Duma municipale era completamente illuminato. Salimmo nella sala Alessandro
circondata di tribune e ornata di grandi ritratti imperiali, in cornici
dorate, ed ora velate di rosso. Un centinaio di persone, raggruppate attorno
alla tribuna, ascoltavano Skobelev. Egli reclamava l'allargamento del Comitato
di Sicurezza Pubblica e la riunione di tutti gli elementi antibolscevichi in
una potente organizzazione che doveva prendere il nome di Comitato di Salute
del Paese e della Rivoluzione. Sotto i nostri occhi fu così costituito quel
Comitato di Salute che doveva, dalla settimana seguente, diventare il nemico
più temibile dei bolscevichi agendo ora sotto il suo vero nome, che denunciava
i suoi scopi, ora sotto quello apolitico di Comitato di Sicurezza Pubblica.
Dan, Gotz, Avxentiev
erano là insieme con alcuni membri dell'opposizione del Congresso dei Soviet,
del Comitato esecutivo dei Soviet contadini, con il vecchio Procopovic ed anche
qualche membro del Consiglio della Repubblica, tra cui Vinaver e alcuni altri
cadetti. Liber affermò che il vecchio Zik
era sempre in funzione... Si compilò un progetto di appello al paese...
Chiamammo una
vettura. Appena nominammo Smolni, il vetturino scosse la testa.
—
Niet, niet — disse. — Laggiù c'è
l'inferno...
Dovemmo girare parecchio
tempo prima di trovare un vetturino che acconsentì a portarci fino a due
strade prima di Smolni, prendendoci trenta rubli.
Le finestre di
Smolni erano sempre illuminate; le automobili andavano e venivano e le
sentinelle, sedute attorno ai fuochi, interrogavano ansiosamente quelli che
arrivavano sullo svolgersi degli avvenimenti.
I corridoi erano
pieni di gente affaccendata, sporca, gli occhi infossati. In alcune sale di
riunione, molti dormivano sul pavimento con i fucili accanto. Malgrado che un
certo numero di deputati avesse abbandonato il Congresso, la sala delle sedute
era affollata, tumultuosa come un mare. Quando entrammo, Kamenev leggeva la
lista dei ministri arrestati. Il nome di Teresctscenko fu salutato da un tuono
di applausi, da grida di gioia, da risate, Ruttemberg ebbe meno successo; il
nome di Palcinski scatenò una tempesta di urla, di grida di collera e di
evviva... Si annunciò che Ciudnovski era stato nominato commissario del Palazzo
d'Inverno.
A questo punto una
interruzione drammatica. Un contadino di alta statura, la faccia barbuta,
convulsa di rabbia, salì il palco e picchiò col pugno sul tavolo della
presidenza.
—
Noi, socialistirivoluzionari, esigiamo
la libertà immediata
dei ministri socialisti arrestati al Palazzo d'Inverno. Compagni,
sapete che quattro compagni che hanno rischiato la vita e la libertà
combattendo la tirannide dello zar, sono stati gettati nella
prigione di Pietro e Paolo, la tomba storica della libertà?
In mezzo al tumulto
continuò a picchiare pugni e ad urlare. Un altro delegato lo raggiunse alla
tribuna ed, indicando la presidenza, domandò:
— I rappresentanti
delle masse rivoluzionarie resteranno qui tranquillamente al
loro posto, mentre l’Okrana dei bolscevichi tortura i loro capi?
Trotsky faceva dei
grandi gesti per ottenere il silenzio:
—
Questi «compagni» — disse, — presi in
flagrante delitto
di complotto per schiacciare i Soviet, d'accordo con l'avventuriero
Kerenski... dobbiamo trattarli con i guanti? Dopo il 16 ed
il 18 luglio non hanno fatto molte cerimonie con noi.
Poi, con un accento
di trionfo nella voce, continuò:
—
Adesso che i guerrafondai ed i
vigliacchi sono scomparsi e
che pesa sulle nostre spalle tutto il compito di difendere e di
salvare la rivoluzione, è più che mai necessario lavorare, lavorare ed ancora lavorare! Noi siamo risoluti a morire piuttosto
che a cedere.
Un commissario,
giunto da Zarskoie-Selo, gli succedette, ancora tutto affannato e coperto di
fango:
—
La guarnigione di Zarskoie-Selo veglia
alle porte di Pietrogrado, pronta a difendere i Soviet ed il Comitato militare
rivoluzionario (Evviva rimbombanti). Il corpo dei ciclisti, inviato
dal fronte è arrivato a Zarskoie; i soldati sono adesso con noi.
Riconosco il potere dei Soviet e la necessità di dare subito la
terra ai contadini ed il controllo sull'industria agli operai. Il 5°
battaglione ciclisti, di guarnigione a Zarskoie, è per noi...
Dopo parlò un
delegato del 3° battaglione ciclisti. In mezzo all'entusiasmo delirante egli
raccontò come, tre giorni prima, il corpo dei ciclisti aveva ricevuto dal
fronte sudovest l'ordine di venire a difendere Pietrogrado. Tale ordine era
subito apparso sospetto. Alla stazione di Peredolnaia, dove li aspettavano i
rappresentanti del 5° battaglione di Zarskoie, avevano tenuto un comizio e si
era potuto constatare che i «i ciclisti erano unanimi nel rifiuto di versare
il sangue dei loro fratelli e di sostenere un governo di borghesi e di agrari».
Kapelinski propose,
a nome dei menscevichi-internazionalisti, la nomina di un Comitato speciale,
incaricato di trovare una soluzione pacifica alla guerra civile:
—
Non vi è soluzione pacifica! — urlò
l'assemblea. — La
vittoria, ecco la soluzione!
La proposta fu
respinta con una maggioranza schiacciante ed i menscevichi-internazionalisti abbandonarono
il Congresso in un turbine di ingiurie e di scherni. L'Assemblea aveva ormai
superati i timori dei primi momenti e Kamenev accompagnò la loro uscita con
queste parole:
—
Menscevichi e socialisti reclamano
l'urgenza per la questione della «soluzione pacifica». Ma essi hanno sempre
votato
la modificazione dell'ordine del giorno in favore delle dichiarazioni dei
gruppi che volevano lasciare il Congresso. È evidente che
tutti questi rinnegati avevano premeditato la loro uscita.
L'Assemblea decise
di non tener conto dell'allontanamento di alcune frazioni e passò alla
redazione del seguente appello, rivolto agli operai, soldati e contadini di
tutta la Russia:
Il II Congresso
panrusso dei Soviet dei deputati operai e soldati è aperto. Esso rappresenta la
grande maggioranza dei Soviet e comprende anche un certo numero di delegati dei
Soviet contadini. I poteri del vecchio Zik opportunista sono finiti.
Appoggiandosi sulla volontà dell'immensa maggioranza degli operai, dei soldati
e dei contadini e sulla vittoria della guarnigione di Pietrogrado, il
Congresso prende il potere nelle sue mani.
IL CONGRESSO PANRUSSO
DEI DEPUTATI OPERAI E SOLDATI Per quanto fossero
le sei del mattino, la notte era ancora spessa e fredda. Ma già una strana
schiarita livida si diffondeva nelle strade mute, indebolendo lo splendore dei
fuochi, messaggera dell'alba terribile che si levava sulla Russia...
Erano esattamente le
cinque e diciassette del mattino, quando Krilenko, barcollante di fatica, sali
alla tribuna con un telegramma in mano:
—
Compagni! il fronte nord telegrafa: «La
XII Armata saluta il Congresso dei Soviet e gli annuncia la formazione di un
Comitato militare rivoluzionario che ha preso il comando del
Fronte nord...
Delirio
indescrivibile: pianti, abbracci.
—
...Il generale Ceremissov ha
riconosciuto il Comitato. Il
commissario del governo provvisorio, Voitinski ha dato le dimissioni...».
Così Lenin e gli
operai di Pietrogrado avevano deciso l'insurrezione, il Soviet di Pietrogrado
aveva rovesciato il governo provvisorio e messo il Congresso dei Soviet
davanti al fatto compiuto del colpo di stato. Si trattava adesso di conquistare
tutta l'immensa Russia, e poi il mondo! La Russia avrebbe seguito e si sarebbe
sollevata? E il mondo che farà? I popoli accoglieranno l'appello e la marea
rossa inonderà il mondo?
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Ultima modifica 31.12.2003
— Perché i soldati
non escano.
—
Sì, ma nelle sale posteriori, perché non
capiti loro niente,
se succede qualcosa.
II Soviet
dei deputati operai e soldati di Pietrogrado, salutando la rivoluzione
vittoriosa, fatta dal proletariato e dalla guarnigione di Pietrogrado,
sottolinea particolarmente l'unione, l'organizzazione, la disciplina e la cooperazione
perfetta delle masse durante la sollevazione; raramente fu sparso meno sangue e
raramente un'insurrezione ebbe tale successo.
Il Soviet esprime la
sua ferma convinzione che il governo sovietico degli operai e contadini che
sarà creato dalla rivoluzione e che assicurerà al proletariato delle città
l'appoggio di tutta la massa dei contadini poveri, marcerà con fermezza verso
il socialismo, solo mezzo per evitare le miserie e gli orrori inauditi della
guerra.
Il nuovo governo
operaio e contadino presenterà immediatamente a lutti i paesi belligeranti le
sue proposte per una pace democratica e giusta.
Esso sopprimerà
immediatamente la grande proprietà fondiaria e consegnerà le terre ai
contadini. Stabilirà il controllo degli operai sulla produzione e la ripartizione
dei prodotti manufatti ed instaurerà il controllo generale sulle banche
che diventeranno monopolio di stato.
Il Soviet dei
deputati operai e soldati di Pietrogrado esorta gli operai e i contadini russi
a porre tutta la loro energia e tutta la loro devozione al servizio della
rivoluzione operaia e contadina. Il Soviet esprime la convinzione che gli
operai delle città, alleati ai contadini poveri, sapranno mantenere tra di
loro una disciplina inflessibile ed assicurare l'ordine rivoluzionario perfetto,
indispensabile per la vittoria del socialismo. Il Soviet è convinto che il
proletariato dei paesi occidentali ci aiuterà a condurre la causa del
socialismo ad una vittoria completa e duratura.
Alzò le spalle:—
Ci resta moltissimo da fare. Abbiamo
solo cominciato...
—
Oggi noi abbiamo pagato il nostro debito
verso il proletariato internazionale ed abbiamo inferto un colpo terribile
alla
guerra, a tutti gli imperialismi e specialmente a Guglielmo il
boia...
— La volontà dei
Congresso panrusso dei Soviet è stata sopravanzata dalla sollevazione degli
operai e dei soldati di Pietrogrado, che ha avuto luogo questa notte.
— Il Comitato centrale
esecutivo dei soldati della V Armata,
il II Reggimento F, il I Reggimento N, il III Fucilieri C.
— Quando siete stato
eletto? Voi rappresentate gli ufficiali
e non i soldati! Si lascino parlare i soldati. (Risate ironiche ed
urla).
— Noi, il gruppo del
fronte — continuò, — decliniamo ogni
responsabilità negli avvenimenti passati e presenti e riteniamo necessario di
mobilitare tutte le forze rivoluzionarie coscienti per salvare la rivoluzione.
Il gruppo del fronte ha deciso di abbandonare il Congresso. In questo momento
bisogna combattere nella strada.
— Invito tutti i
soldati ragionevoli ad abbandonare il Congresso!
— Kornilovista!
Controrivoluzionario! Provocatore!
— Disertore!
—
In città, dovunque, — rispose un piccolo
operaio, con un
grande gesto entusiasta.
II governo
provvisorio è deposto. Il potere è passato nelle mani del Comitato militare
rivoluzionario, l'organo del Soviet dei deputati operai e soldati di
Pietrogrado che è alla testa del proletariato e della guarnigione di
Pietrogrado.
La causa per cui il
popolo è entrato in lotta — proposta immediata di una pace democratica,
abolizione della grande proprietà fondiaria, controllo della produzione da
parte dei lavoratori, creazione di un governo sovietico — ha definitivamente
trionfato.
Viva la
rivoluzione degli operai, dei soldati e dei contadini!
DEL SOVIET DEI
DEPUTATI OPERAI
E SOLDATI DI
PIETROGRADO
— Non insistiamo per
passare. Non siamo armati. Passeremo con o senza permessi — gridò il vecchio
Screider, eccitatissimo.
— Io ho degli ordini —
ripetè il marinaio seccato.
— Sparate su di noi,
se volete! Noi passeremo! Avanti! — si
gridava da ogni parte. —.Noi siamo pronti a morire, se voi avete il
coraggio di sparare su dei russi, su dei compagni! Noi offriamo i
nostri petti ai vostri fucili.
—
No — disse il marinaio ostinato, — non
voglio lasciarvi
passare.
—
Che cosa farete se noi passiamo?
Sparerete?
—
No, non voglio sparare su gente
disarmata. Non spareremo su russi disarmati.
—
Noi vogliamo andare avanti! Che cosa
potete fare?
—
Adesso avvertiamo — rispose il marinaio
evidentemente
molto imbarazzato. — Non possiamo lasciarvi passare, ma avvertiamo subito.
—
Non so, una decina...
— Largo, compagni!
— Come lo sapete
voi? — replicò il soldato tarchiato. — Io vi dico che sono dei provocatori.
Raccontano che son venuti ad osservare la disciplina rivoluzionaria
dell'esercito proletario, ma hanno passeggiato liberamente per il palazzo e
come potete voi sapere se essi non hanno le tasche piene di bottino?
— Pravilno.
Proprio così! — gridarono gli altri,
ricominciando
a farsi avanti.
— Compagni, compagni!
— insistette l'ufficiale sudando freddo, — sono commissario del Comitato
militare rivoluzionario.
Forse non avete più fiducia in me? Vi dico che questi salvacondotti sono
firmati con lo stesso nome del mio.
— L'avete scampata
bella — ci disse più volte, asciugandosi il viso.
— Che cosa è
accaduto del battaglione di donne?
— Oh! le donne —
rispose ridendo — le avevano ammucchiate tutte in una stanza lontana. Ci siamo
domandati per un pezzo che cosa ne avremmo fatto. Molte avevano delle crisi di
nervi. Finalmente le abbiamo condotte alla stazione di Finlandia e si sono
spedite a Levascio dove hanno un accampamento...
Il governo
provvisorio è deposto; la maggioranza dei membri del governo provvisorio è
stata già arrestata.
Il potere sovietico
proporrà una pace democratica immediata a tutte le nazioni ed un armistizio
immediato su tutti i fronti. Esso procederà alla consegna dei beni degli
agrari, della corona e della chiesa ai Comitati contadini. Difenderà i diritti
dei soldati e realizzerà la completa democratizzazione dell'esercito.
Stabilirà il controllo operaio sulla produzione, assicurerà la convocazione
dell'Assemblea Costituente alla data fissata, prenderà tutti i provvedimenti
necessari per approvvigionare la città di pane ed i villaggi delle derrate di
prima necessità. Assicurerà a tutte le nazionalità viventi in Russia il
diritto assoluto di disporre di se stesse.
Il Congresso decide
che l'esercizio di tutto il potere nelle province è trasferito ai Soviet dei
Deputati operai, contadini e soldati, che dovranno assicurare una disciplina
perfetta.
Il Congresso fa
appello alla vigilanza ed alla fermezza dei soldati delle trincee. Il Congresso
dei Soviet è persuaso che l'esercito rivoluzionario saprà difendere la rivoluzione
contro gli attacchi imperialisti, fino a che il nuovo governo avrà potuto
concludere la pace democratica che egli proporrà immediatamente e direttamente
a tutti i popoli. Il nuovo governo prenderà i provvedimenti necessari per
soddisfare tutti i bisogni dell'esercito rivoluzionario, con una ferma politica
di requisizione e di tassazione delle classi possidenti, e per migliorare la
situazione delle famiglie dei soldati.
I kornilovisti, —
Kerenski, Kaledin ed altri — si sforzano di lanciare le truppe contro
Pietrogrado. Parecchi reggimenti, già ingannati da Kerenski, sono ormai
passati dalla parte del popolo insorto.
Soldati! opponete una
resistenza attiva al kornilovista Kerenski! State in guardia!
Ferrovieri! fermate
tutti i treni di truppe inviate da Kerenski contro Pietrogrado!
Soldati! Operai!
Funzionari! II destino della Rivoluzione e della pace democratica è nelle
vostre mani!
Viva la Rivoluzione!
I DELEGATI PRESENTI DEI SOVIET CONTADINI
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