Vassilissa

Alexandra Kollontai (1923)


Pubblicato in Russia nel 1923, è la storia di una militante operaia, della sua grande voglia di amare, del suo rapporto col compagno-marito, del travagliato itinerario alla ricerca della sua liberazione, attraverso cui si profila lo scontro tra una vecchia concezione dell'amore e le esigenze sociali della «donna nuova». Vassilissa, oltre che un romanzo di stimolante lettura costituisce un documento storico-letterario di estremo interesse: espressione della cultura «femminista» e «bolscevica» della Kollontaj, nella sua carica liberatrice come nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni, sullo sfondo di una Russia in crisi, fiaccata dalla guerra civile e in cui si profila la costituzione della nuova classe dei burocrati e degli uomini della Nep.
Trascritto per il MIA da Paola Strippoli

Vassilissa, operaia di un maglificio, è una ragazza sui ventotto anni. Magrolina, debole di costituzione, pallida, è «una vera figlia della città». I suoi capelli sono stati tosati dopo il tifo, e si arricciano. Da lontano ha proprio l'aria di un ragazzo: poco petto sotto una camicia alla russa che porta con una cintura di cuoio un po' usata. Non è bella; solo i suoi occhi non sono ordinari: bruni, carezzevoli, attenti, due occhi che riflettono. Quando li si guarda, ci si sente salire al cuore una vampata di calore. Con occhi di questo genere non si può ignorare l'infelicità altrui. E' una comunista, è diventata «bolscevica» dopo la guerra. S'era messa a odiare la guerra fin dal primo giorno. In fabbrica si facevano collette per il fronte. Si era disposti a fare gli straordinari perché la Russia vincesse la guerra. Ma Vassilissa discuteva, non era d'accordo con nessuno. La guerra è un'attività sanguinosa. A chi giova? Il popolo, dalla guerra, non ricava che disgrazie. I soldati, peraltro, meritano d'essere commiserati; sono così giovani... sono come montoni che si portano al mattatoio. Quando, per la strada, incontrava un convoglio di soldati che andavano al fronte con tutto il loro equipaggiamento, Vassilissa si voltava: andavano alla morte, e gridavano, cantavano, e con che ardore, come se andassero a una festa.

Vassilissa sapeva leggere e scrivere correttamente; l'aveva imparato da suo padre, un tipografo. Aveva letto Tolstoi e ne amava gli opuscoli. Sola contro tutti, in fabbrica, si dedicava completamente alla causa della pace.

L'avrebbero licenziata, ma c'era bisogno di mano d'opera. Il caporeparto la guardava di malocchio, ma non la cacciava. E in tutto il quartiere si dicevano parecchie cose sul suo conto... «è contro la guerra». «Una tolstoiana», si diceva. Le comari del quartiere non le rivolgevano la parola. «Si burla del suo paese natale, non rispetta la Russia, è una ragazza perduta».

Tutte queste chiacchiere arrivarono alle orecchie dell'organizzatore del quartiere, un bolscevico. Volle conoscerla. Parlando del più e del meno, capì che la ragazza era tenace. Sapeva quel che voleva. Avrebbe fatto un buon lavoro. La arruolarono nell'organizzazione. Vassilissa non divenne bolscevica d'un sol colpo. Discuteva con i membri del comitato, poneva domande, se ne andava furiosa... poi, dopo aver compreso di che si trattava, fu lei stessa a proporre: «lavorerò con voi», e divenne una bolscevica. Durante la rivoluzione già reclutava per l'organizzazione. Finì per entrare nel soviet. I bolscevichi le piacevano. Rispettava Lenin perché era contro la guerra con tutta l'anima. Discuteva con abilità con i menscevichi e con i socialisti rivoluzionari. Vassilissa era una donna ardente, tenace, non aveva peli sulla lingua. Mentre gli altri operai si sentivano imbarazzati, Vassilissa, quando ce n'era bisogno, prendeva la parola senza esitare e diceva sempre qualche cosa di serio. I compagni la rispettavano. All'epoca dell'ascesa di Kerensky, al momento delle elezioni nel consiglio municipale della città, le chiesero di presentarsi come candidata. Le magliaie, in fabbrica, esageravano la cosa. E qualsiasi cosa Vassilissa dicesse, la sua parola era legge. Ora gridando, ora con dolcezza, Vassilissa sapeva intendersi con queste «brave donne»; conosceva le difficoltà di ciascuna di esse perché era nello stabilimento fin da bambina. Interveniva in loro favore. E talvolta le compagne la facevano arrossire «Ma lascia perdere queste donne, ci sono cose più importanti!» Vassilissa ribolliva. Teneva testa ai compagni, si scontrava col segretario di quartiere, ma insisteva su ciò che voleva. Perché i problemi delle donne sarebbero più futili di quelli degli altri? Tutti si son messi a vedere le cose in questo modo. Di qui il carattere «arretrato» delle donne. Durante l'anno '18 Vassilissa era in piena attività. Sapeva quel che voleva, ed è restata d'altronde la stessa. Semplicemente è accaduto che le altre donne, nel corso di questi ultimi anni, si sono lasciate andare. Sono restate indietro; si sono chiuse dentro casa. Ma' Vassilissa era sempre al lavoro, era sempre «in guerra», «organizzava qualcosa», insisteva, discuteva con asprezza. Vassilissa era instancabile. E di dove prendeva una tale forza? Magrolina qual era, non aveva più la minima traccia di sangue nel viso. Solo due occhi affettuosi, attenti, intelligenti. Chi si attaccherà a questo sguardo, non lo dimenticherà tanto presto.

Le portarono una lettera che attendeva da molto tempo, una lettera desiderata, del suo amante, del suo sposo-compagno. Erano separati da mesi. Niente da fare, era la guerra civile! Ed ecco che ora comincia «il fronte economico». Il partito ha mobilitato tutti i suoi membri. La Rivoluzione non è una bazzecola. Esige sacrifici da tutti. Anche Vassilissa porta il suo «obolo» alla Rivoluzione. Vive senza colui che ama, vive sola. Sono stati gettati ai quattro angoli della Russia. Le sue compagne dicevano: è meglio così, ti amerà più a lungo, non si stancherà di te! Forse avevano ragione. Solo che è triste senza di lui, è così triste che non ci sono parole per dirlo. Certo a Vassilissa resta poco tempo libero. Una faccenda ne porta un'altra, e lei lavora dal mattino fino a tarda notte per il partito e i soviet. Lavoro importante, certo, necessario, interessante, ma come entra nella sua stanzetta — Vassilissa la chiamava la camera chiara, come si diceva nelle campagne — la tristezza generata dall'attesa di colui che ama le stringe il cuore con un soffio gelato.

Vassilissa si siede per bere il tè. Riflette, e le sembra che nessuno abbia bisogno di lei, come se i compagni con cui lavora tutta la giornata non esistessero più. Il suo lavoro è senza scopo e lei si esaurisce nel compierlo. E' veramente necessario quello che faccio? A chi è necessario? Agli uomini? Ma lo sanno apprezzare? Ecco che hanno di nuovo compromesso la faccenda in corso, che si sono ingiuriati, che si danno querela. Ognuno tira l'acqua al suo mulino. Non vogliono capire che bisogna vivere per il «collettivo». Non sanno farlo. Anche lei, l'hanno umiliata, le hanno detto delle cose brutali; le hanno rimproverato di ricevere una razione riservata ai lavoratori responsabili. Che vada al diavolo questa razione! Non ne ho bisogno. I compagni l'avevano persuasa ad accettarla perché cominciava a sentirsi debole; aveva addirittura le vertigini.

Vassilissa, appoggiata al tavolo, beveva il tè con una caramellina acidula che non finiva di succhiare. Le ritornavano alla mente tutte le umiliazioni subite nel corso della giornata. Le sembrava che non ci fosse niente di radioso, che non ci fosse niente di buono nella rivoluzione, ma solo difficoltà, liti e lotta. Se almeno ci fosse il suo amore, gli parlerebbe, si lascerebbe andare, e lui la accarezzerebbe, la sosterrebbe.

«Andiamo, Vassia, perché sei triste? Davanti alla gente sei dura, dici: "non ho paura di niente", ti batti contro tutti, senza perdonarla a nessuno. Ed ora eccoti qua seduta, i capelli raccolti, come un passero sotto un tetto». E lui la prenderebbe come un bambino (è forte, lui) e la porterebbe cullandola attraverso la stanza. Tutti e due si metterebbero a ridere e si sentirebbero male, a forza di esser felici. Lei lo ama, suo marito, il suo amore — la compagna Vassilissa. E' un bell'uomo affettuoso. Lo ama tanto. Appena pensa a lui, si sente ancora più triste; la sua piccola stanza solitaria le sembra vuota. Sospira e sparecchia la tavola rimproverandosi. Ecco quello che vuoi: che la vita ti porti tutte le gioie, un lavoro che ti interessi, che i compagni ti rispettino, e in più hai bisogno di avere a portata di mano il tuo amante! Non domandi un po' troppo, Vassilissa Dementievna?

Tali erano stati i pensieri di Vassilissa durante l'inverno. Ma ora, ecco la primavera. Il sole brillava gioiosamente. I passeri pigolavano sotto i tetti. Vassilissa li guardava al mattino e sorrideva. Si ricordava di come il suo amore la chiamava «il mio passero arruffato». La primavera chiamava alla vita ed era sempre più difficile lavorare. Vassilissa si anemizzava. I polmoni cominciarono a farle male. Ed ecco che cominciò tutta una storia, un vero scandalo.

Oltre agli affari generali del partito e dei soviet, che erano a parte, Vassilissa aveva organizzato una comune.

Ah, la comune era ben altra cosa! Vassilissa covava quest'idea da tempo: una casa che sarebbe stata un modello; lo spirito che vi avrebbe regnato sarebbe stato veramente «comunista»; non sarebbe stato semplicemente un «alloggio in comune» in cui ciascuno avrebbe continuato a vivere per conto suo e in cui tutti sarebbero stati dispersi, in cui non ci si sarebbe occupati degli altri, e in cui ci sarebbero state discussioni, dispute, scontento. Vassilissa aveva pensato un'altra cosa.Pazientemente, a poco a poco, organizzò la casa. In mezzo a mille difficoltà. Le tolsero ben due volte la casa. Con chi non aveva litigato Vassilissa? Ma l'aveva difesa e l'aveva sistemata. C'era una cucina comune, una lavanderia, un nido d'infanzia. Il refettorio era l'orgoglio di Vassilissa: c'erano tendine alle finestre e vasi di gerani. La biblioteca era una vera sala da club. All'inizio era tutto meraviglioso. Le donne, le inquiline, impiastravano Vassilissa di baci: «Sei la nostra perla, il nostro difensore, hai talmente alleggerito la nostra sorte che è difficile trovare le parole per dirlo». Poi le cose si guastarono.

Dapprima si misero a discutere la ripartizione dei lavori. Non si riusciva a tener tutto pulito. In cucina ci furono discussioni per delle casseruole. Poi si allagò la lavanderia: si riuscì a malapena a pompare l'acqua e a evacuarla. Al minimo insuccesso, lite o disordine, lo scontento ricadeva subito su Vassilissa, come se fosse la «padrona», come se avesse trascurato qualcosa. Bisognò ricorrere alle multe. Gli inquilini divennero furiosi; si

sentirono attaccati. Alcuni se ne andarono... Scoppiarono sempre più frequentemente liti e disaccordi. Per di più, ecco che apparve una coppia di attaccabrighe: i Fedossiev. Non gli andava mai bene niente. Protestavano e brontolavano. Non sapevano nemmeno loro quel che volevano, ma non andavano mai bene. Montavano gli altri, facendosi forti del fatto che erano stati i primi a installarsi nella casa; erano, per così dire, dei «proprietari». Ma che volevano? Di che erano scontenti? Non lo si riusciva a comprendere. Ma la vita di Vassilissa era avvelenata. Ogni giorno c'erano contrarietà.

Vassilissa si sentiva sfinita, irritata fino al punto di piangerne. Vedeva crollare la sua opera. E, per sistemare la faccenda, arrivò una nuova disposizione: tutto deve essere pagato in contanti, l'acqua e l'elettricità. Bisognava inoltre pagare le imposte e fare i lavori obbligatori. Vassilissa cercò a destra e a manca. Niente da fare, era il nuovo regolamento. Era inutile presentarsi senza contanti. Vassilissa si accanì. Era arrivata quasi all'idea di abbandonare. Ma non era fatta così: non si lasciava sfuggire di mano quello che intraprendeva. Partì per Mosca. Giorno dopo giorno bussò alle porte delle diverse istituzioni. Arrivò al punto più acuto della sua lotta. Difese la comune. I rapporti e i rendiconti che ne aveva fatto piacquero talmente che ricevette persino un sussidio per le riparazioni. Solo più tardi bisognerà pur passare al problema della redditività. Ritornò raggiante di gioia. Ma i coniugi Fedossiev, gli attaccabrighe, l'accolsero con un'aria agrodolce. Si accigliarono. Gettavano su Vassilissa sguardi malevoli. La guardavano come se avesse agito male, difendendo la comune. E incominciarono ad attaccarla con un altro sistema. Fecero correre la calunnia che Vassilissa truccava i libri contabili della casa, che ne traeva degli utili... scene davvero tristi, a ricordarsene. Ecco quando diventa duro doveva fare a meno di chi si ama! Ecco quando avrebbe avuto bisogno di aver vicino un compagno! Ecco ciò di cui aveva bisogno Vassilissa. Lei lo incitava a ritornare, gli scriveva. Non poteva tornare perché aveva delle faccende importanti. Aveva ricevuto una nuova nomina e aveva delle responsabilità. Doveva fare in modo che gli affari riprendessero proprio in quella stessa azienda in cui prima era stato l'ultima ruota del carro, un commesso. Vi si era impegnato per tutto l'inverno. Una cosa molto difficile. Non poteva andarsene. Tutto gravava su di lui.

E fu necessario che Vassilissa, sulle sue piccole spalle magre, sopportasse tutto il peso delle discordie, bevendo fino alla feccia l'ingiustizia degli uomini. E ciò che faceva più male era vedere da chi veniva questa ingiustizia. Era dai suoi stessi compagni, degli operai. Se almeno fossero stati dei borghesi!...

Grazie al comitato, che la sosteneva, si evitò che si giungesse al tribunale. Il comitato fece il punto da solo. Era chiaro che l'avevano calunniata. E tutto per cattiveria, per ignoranza! Più tardi, quando vennero espulsi i coniugi Fedossiev, entrambi si dichiararono colpevoli; supplicarono Vassilissa di perdonarli e le assicurarono il loro «rispetto». Vassilissa non accolse con soddisfazione questo successo. S'era esaurita, aveva sofferto. Non le restava più abbastanza forza per rallegrarsi. Cadde malata. Poi, dopo, ricominciò il suo lavoro. Ma era come se qualcosa si fosse spento nella sua anima. E Vassilissa non amava già più la «casa comune». Vi aveva sofferto troppo. Era come se gli uomini avessero profanato l'innocenza del suo figlio preferito. Questo le ricordò la sua infanzia: quando il suo fratellino Kolka le mostrava una caramella e, appena lei andava a prenderla, rideva in una maniera furba e diceva: «Allora guardala bene perché non potrai mangiarla». E ci sputava sopra. «Su, Vassilissa, mangiala adesso, ha un buon sapore!» Ma Vassilissa, ferita, andava a nascondersi per piangere. «Sudicione, furfante, mascalzone, perché hai fatto questo?» Ebbene, ora, era lo stesso, per la comune. Meglio non vederla più! •

Tuttavia continuava a «gestire» l'amministrazione, anche se non di tutto cuore. Doveva sbarazzarsene. Trattava con freddezza gli inquilini. Non erano forse complici dei Fedossiev contro di lei? E perché? Si sentiva lontana dagli uomini. Prima Vassilissa era più calorosa. Aveva posto per tutti nel suo cuore. Compativa tutti, aveva un'attenzione per ciascuno. Ora non aveva che un desiderio: lasciatemi tranquilla, non mi toccate, sono stanca.

Ora, fin nella modesta camera di Vassilissa, la primavera si mostrava attraverso l'abbaino, rasente il tetto. E con i raggi caldi del sole entrava il cielo azzurro con le sue nubi fioccose, delicate, evanescenti. Sul lato spunta il tetto d'una antica casa padronale; attualmente vi si trova installata la casa delle madri; al di là comincia il frutteto. Le gemme stanno appena gonfiandosi. La primavera è in ritardo, ma infine è ugualmente venuta.

Anche nel cuore di Vassilissa era primavera. Aveva subito abbastanza i rigori dell'inverno. Era sola, sempre sola. Sempre sospiri, lotte, noie. Ma oggi era festa, realmente una festa. Una lettera del suo amore, di colui che desidera, di Volodia. E che lettera! E' da tanto che Vassilissa non ne ha ricevuta una simile. «Non rattristarmi, Vassia, la mia pazienza è agli estremi, tu mi hai promesso tante volte di visitarmi! Ma mi deludi sempre e mi rendi triste, mia tempesta instancabile. Ti sei ancora azzuffata con tutti? Anche qui circolano delle chiacchiere sul tuo conto, tra i compagni. Si dice perfino che sei stata segnalata nella stampa. Ma adesso che hai portato a buon fine la tua lotta, vieni a trovare il tuo Vladimir che ti attende continuamente. Vedrai come vivremo da "signori"!... Ho a mia disposizione un tiro, per i miei spostamenti, una vacca tutta per me, e una vettura. C'è una serva e perciò non dovrai preoccuparti delle faccende di casa. Ti riposerai, a casa nostra. La primavera è al culmine, i meli sono in fiore. Vassia, mio piccolo uragano, non abbiamo ancora mai vissuto una primavera insieme! Ora la nostra vita deve essere sempre una primavera.

«A proposito, attualmente ho particolarmente bisogno di te. Ho qui delle noie con il comitato del partito. Cominciano a cavillare sul mio conto. Si son ricordati che in passato sono stato, diciamo, un anarchico. Tutto è cominciato a causa di Saveliev, come già ti ho scritto. Tu dovresti poter sistemare tutto. Ne ho abbastanza di tutti questi attaccabrighe con i quali mi è impossibile vivere! Non possono trovarmi in difetto, perché io so dirigere bene i miei affari. Ma ho ugualmente bisogno di te, in questo momento.

Copro di baci ardenti i tuoi occhi bruni.

Il tuo per sempre Volodia».

Vassilissa rimane là, seduta sulla sedia. Il suo sguardo attraversa l'abbaino per andare a perdersi nel cielo, nelle nubi bianche. Si immerge nei suoi pensieri. Ma i suoi occhi ridono. E' davvero una lettera che fa bene! Come l'ama intensamente, Volodia! E come le è caro... Spiega la lettera sulle ginocchia, e l'accarezza come se fosse la testa di Volodia. Non vede più l'azzurro del cielo, il tetto, le nubi; c'è solo il magnifico Volodia con gli occhi scintillanti di furberia. Vassilissa prova un amore così forte che le fa male... Come ha potuto vivere senza di lui per tutto un inverno? Non lo ha più visto, ecco, per sette mesi... Sembra che abbia pensato poco a lui, che abbia sofferto poco per la separazione. Non aveva il tempo di pensare a lui, di averne nostalgia. La vita non le aveva risparmiato le preoccupazioni, quest'inverno! Bisognava salvare il figlio prediletto, «la casa comune», e per questo perorare contro degli uomini stupidi, che non capiscono niente di niente, che vivono nelle tenebre. Il suo amore, la sua nostalgia di Volodia, lei fortunatamente la teneva nascosta nel fondo del cuore. Egli viveva là, intoccabile. E bastava che Vassilissa avesse un pensiero per lui perché lo sentisse, immediatamente: Volodia è là, nel più profondo del suo essere. Questo peso era insieme dolce e pesante. Senza dubbio perché egli era circondato di preoccupazioni. Purché non si fosse immischiato in qualche faccenda dubbia! Non ha alcuna «disciplina». Hanno ragione i compagni (Vassilissa lo sa bene) quando gli rimproverano di essere un «anarchico». Non ama tener conto delle risoluzioni adottate; fa sempre come l'intende lui. In compenso, come sa lavorare! Nessuno lo fa come lui. Sa darsi interamente, quando la situazione lo esige.

D'altronde, è per questo che non abitano insieme, per non essere di ostacolo l'uno all'altra. Anche lei era d'accordo. Qualsiasi cosa si faccia, bisogna darsi completamente, senza riserve. Ora, se Volodia le fosse vicino, tanto peggio, sarebbe attirata da lui e trascurerebbe il lavoro.

«Il nostro lavoro deve stare avanti a tutto, e solo dopo viene il nostro amore. Non è vero, Vassia?» diceva Vladimir. E Vassia era d'accordo. Lei provava la stessa cosa. L'essenziale sta proprio in questo. Non sono semplicemente marito e moglie, sono dei «compagni». Ecco che adesso lui la chiama in soccorso, come un compagno, per appianare le difficoltà che incontra... Ma di che difficoltà si può trattare? Vassilissa rilegge la lettera. Si sente turbata. Se tutto questo riguarda Saveliev, va male. E' un mascalzone, quel Saveliev, un trafficante. Com'è che Volodia lo frequenta? Un direttore (e Volodia ha ora questo titolo) deve essere irreprensibile ed evitare di incontrare persone equivoche. Volodia non diffida di nessuno; ha avuto pietà di Saveliev; è intervenuto per difenderlo... Persone che depredano i beni del popolo non sono mai degne di compassione. Devono solo subire le pene che meritano le loro azioni. Ma Volodia ha troppo buon cuore... Ora gli altri non comprenderanno che è così che vanno le cose. Interpreteranno in modo diverso «l'amicizia» che lega Volodia a Saveliev. E' che Volodia ha molti nemici, è un impulsivo; non sa tenere la lingua a freno. Purché non si riproduca la situazione di tre anni fa. Se si crea un «caso» Volodia... Non è difficile «calunniare» un uomo. In fondo si può trovare da ridire su qualsiasi essere umano. Vassilissa adesso lo sa, per averlo vissuto lei stessa. Non l'avevano perseguitata per tutto l'inverno? Ecco che è il turno di Volodia. Partire per andare ad aiutarlo! Bisogna appoggiarlo, svergognare i compagni di laggiù. Perché starci su a riflettere? Che deve aspettare? Faccio le valigie e via. Sì, ma la comune? La sua sorte è decisa, ormai, non si può far più nulla per essa. Crollerà. Vassilissa apparentemente trionfa, ma in realtà sono i coniugi Fedossiev ad avere il sopravvento. Non si può salvare questa casa. Vassilissa sospirò. Si avvicinò all'abbaino e guardò nel cortile. Le sembrava di prender congedo dalla casa. Restò lì impalata un momento, severa e triste, e improvvisamente pensò: «Presto vedrò Volodia!» Il sangue le affluì alle guance, e la gioia arrivò a farle male. Amore mio, mio caro, io parto, parto per venire da te, Volodia adorato!

Vassilissa è in viaggio. E' in treno da due giorni. Viaggia in un modo insolito per lei, con comodità, come se fosse una borghese. Vladimir le ha mandato del denaro per il viaggio, perché dappertutto bisogna pagare. Aveva previsto un biglietto con cuccetta e in più le aveva inviato uno scampolo di stoffa perché potesse farsi fare un tailleur. La moglie del direttore deve essere abbigliata in maniera corretta. Vassilissa rise quando un compagno venne da parte di Vladimir Ivanovic, del «direttore», con il denaro e un gran taglio di tessuto. Lo svolse, ne vantò la qualità, come se fosse un vero commesso. Vassia rideva, lanciava dei frizzi al compagno. Lui sembrava addolorato. Non pensava affatto a scherzare: «E' una merce di primissima qualità». Vassia tacque. Decisamente non comprendeva quelli che chiamavano «i nuovi compagni», «gli amministratori». Ma cessò di scherzare. Il compagno se ne andò. Vassia girò a lungo la stoffa tra le mani. Non era abituata a pensare a delle toilettes graziose. Ma dato che Volodia voleva che sua moglie non fosse vestita peggio di altre, ebbene si sarebbe fatta fare un tailleur, un tailleur alla moda, come ne portano tutte. Andò dalla sua amica sarta. Le raccontò quello che succedeva: «Grusa, fammi un vestito, ma che sia un po' alla moda, come quelli che portano le altre». Grusa prese le sue riviste di moda che in autunno un compagno le aveva portato da Mosca. Aveva lavorato per tutto l'inverno seguendo quei modelli. Piacevano. Ciò la lusingava.

«Ebbene, sia, è magnifico, scegli tu stessa, Grusa, io non so scegliere. Per me, purché sia pulito e non rotto, va bene. Io non ci capisco niente in tutte queste toilettes». Grusa sfogliò a lungo la rivista, che era già passabilmente invecchiata. Infine trovò qualcosa «Ecco, questo ti andrà bene, perché tu sei piccolina. E' necessario che la tua figura appaia un po' più forte. Questo ti andrà a meraviglia. Il busto sarà un po' più largo, e ci saranno pieghe sul petto. Non sembrerai così piatta. Farò in modo che possa piacere a tuo marito».

«Perfetto». Discussero un po' sul prezzo. Si abbracciarono e Vassilissa se ne andò felicissima. E' una fortuna che esistano le sarte, perché lei non avrebbe mai potuto inventare da sola la maniera di confezionare i suoi vestiti. Volodia, ah, lui è un conoscitore di «gonne da donna». In America, a un certo momento, era impiegato in un magazzino di moda femminile, e ne ha visto di tutte le specie. Ora è «specializzato» in questo campo. Ai nostri giorni, questo genere di conoscenza è necessario: «i mercanti rossi» hanno il dovere di conoscere i vestiti da donna. Sono anch'essi una merce.

Vassilissa era seduta vicino al finestrino, nello scompartimento del vagone letto. Era sola. La sua compagna di viaggio, la moglie di un «nepman» era poco discreta. Con le sue sete fruscianti, il suo profumo, gli orecchini, se ne era andata nello scompartimento vicino. Stava ridendo ad alta voce con i suoi «cavalier serventi». Si teneva lontana da Vassilissa con un po' di ripugnanza, rivolgendosele a fior di labbra: «Perdonatemi, piccola mia, passate nel corridoio mentre mi preparo per la notte». Era proprio come se questa moglie di nepman, con il suo profumo, fosse la proprietaria dello scompartimento. Vassilissa vi era come accettata per pietà. A Vassilissa non piaceva che questa moglie di un nepman la chiamasse «piccola mia». Ma non voleva storie. Che andasse dunque al diavolo!

Scendeva la sera. Attraverso i campi fioriti si stendevano ombre grigie e azzurre. Una palla rossa, il sole, scendeva molto bassa sopra la sottile linea viola della foresta. Lontano, i corvi prendevano slancio, giravano. I fili del telegrafo si stiravano, interrotti di tanto in tanto dai pali che allungavano la linea. E, con il crepuscolo, un'angoscia si insediò nel cuore di Vassilissa, un'angoscia di cui non si rendeva ben conto, una nostalgia... No, non era tristezza, era veramente nostalgia. Ma per che cosa? Di dove poteva venire? A causa di che? Vassilissa non ne sapeva nulla. Questi ultimi giorni erano stati riempiti da una tale gioia: giorni di festa! Si era preparata per il viaggio e aveva rapidamente rimesso in ordine tutte le faccende in corso. Ed ecco che tutti erano dispiaciuti per la partenza... «Forse non tornerà...» Era arrivata la moglie di Fedossiev che chiamavano la «Fedossiekha». Aveva baciato Vassilissa ed era scoppiata in singhiozzi. Si era messa ad accusarsi. Vassilissa non si sentiva a suo agio. Vassilissa non ce l'aveva con la «Fedossiekha». Ma non stimava affatto questo genere di donna e tutte quelle che le somigliavano. Alcuni compagni erano venuti alla stazione per accompagnarvi Vassilissa. Avevano soppresso per l'occasione la seduta della sezione degli alloggi. Il treno stava per partire.

Aveva lasciato il posto al soviet e al comitato del partito. I bambini della comune le avevano offerto fiori che avevano ritagliato essi stessi nella carta, e Vassilissa aveva compreso che non aveva dispensato invano le sue forze e la sua salute. Il seme era stato gettato; sarebbe nata qualcosa. Le erano venute le lacrime agli occhi quando il treno si era avviato. Agitavano i berretti. Tutti le sembravano talmente amabili che infine rimpianse di partire.

Ma appena la città fu scomparsa, si misero a brillare, in fretta e furia, allontanandosi dal treno, piccoli gruppi di boschetti e di case. Vassilissa dimenticò la comune e l'affanno con cui aveva vissuto tutto l'inverno. Il suo pensiero precedeva il treno. Andava incontro a colui che desiderava con tutte le sue forze, al suo marito-compagno... Accelera, treno, accelera, non economizzare il vapore, perché tu trasporti il cuore di una donna ardente, piena di nostalgia. Porti come regalo gli occhi bruni di Vassia, e il suo cuore sensibile capace di una grande passione. Perché dunque sente tristezza? Da dove viene questa nostalgia che tocca la sua anima? E' come se le serrassero il cuore con delle tenaglie fredde. Nella gola urgevano lacrime innumerevoli. A che proposito la nostalgia? Perché? Forse perché un pezzo della sua vita se n'era andato con la comune, se n'era andato verso il passato, inesorabile. Fuga perduta dei campi distesi, ora velati dall'ambra pallida della primavera... Gli appezzamenti se ne andavano gli uni dietro gli altri, e Vassilissa non li vedrà mai più...

Pianse un po', quando non la guardavano, in silenzio; asciugò le lacrime e si sentì subito meglio.

Era come se la palla fredda della tristezza che le serrava il cuore si fosse sciolta in lacrime, bagnando la gonna nuova del suo vestito. Accesero la luce nel vagone. Tirarono le tendine sui finestrini e bruscamente regnò un'atmosfera di comodità che rompeva la solitudine.

Tutto era chiaro. Ora Vassilissa aveva compreso, se non con la ragione, con il cuore: ancora due notti e poi avrebbe visto Volodia. Lo avrebbe visto, lo avrebbe abbracciato. Le tornò alla memoria la sua voce, si ricordò delle labbra ardenti, delle forti braccia. Il suo corpo fremette dolcemente e già i suoi occhi ridevano. Purché la moglie del nepman che faceva giravolte davanti allo specchio non notasse nulla! Senza di lei Vassilissa avrebbe cantato di gioia, cantato a squarciagola. Solo gli uccelli cantano così a primavera. La moglie del nepman uscì dallo scompartimento sbattendo forte la porta. Imbecille! Vassilissa chiuse gli occhi e pensò a Vladimir, al suo amato. Episodio dietro episodio, le tornava alla memoria il loro amore. Da cinque anni sentono qualcosa l'uno per l'altra. Cinque anni! Ed è come se si fossero incontrati ieri... Talora il suo pensiero prende un cammino inverso. C'è stata un'epoca in cui Volodia non era vicino, non era l'immagine della tenerezza.

Si sistemò in un angolo del sofà e, accavallate le gambe, si coprì gli occhi. Il vagone si bilanciava dolcemente come per cullarla, e i suoi pensieri fuggivano, fuggivano lontano. Si mise a ricordare come era successo, come si erano incontrati la prima volta.

Al comizio, le giornate d'ottobre erano vicinissime. Un periodo davvero caldo. C'era appena un pugno di bolscevichi, ma lavoravano con un tale accanimento. Trionfavano i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, quei beceri!... Ai bolscevichi gli davano la caccia, le bastonavano sul serio, queste «spie tedesche» che avevano venduto la patria. Adesso, ogni giorno, il gruppo diventava più grande.

D'altronde, non sapevano esattamente quello che sarebbe avvenuto, ma comprendevano solo una cosa: bisogna ottenere a qualsiasi prezzo la pace e cacciare dai soviet tutti i traditori «patrioti». Questo era chiaro, ed essi lottavano, lottavano con accanimento, con ardore e fede, senza concedere nulla. C'era decisione negli occhi di tutti: piuttosto morire senza dire una parola, ma non cedere. Nessuno pensava a se stesso. Ma, d'altronde, esiste forse l'uomo in questi momenti?

Vassilissa si ricordava di tutto, e non si rivedeva da sola, rivedeva il gruppo. Allora, nei giornali, si parlava di lei, nei giornali dei socialisti rivoluzionari, nei giornali dei menscevichi; dicevano stupidaggini, mentivano, prendevano in giro. Ebbene, che prendano pure in giro quanto vogliono! Era nell'ordine delle cose. Non leggevano nemmeno quello che dicevano a proposito di ciascuno di loro. Essi credevano: «la verità sta con il gruppo, con i bolscevichi».

«Dovresti almeno aver pietà di tua madre. Sei il disonore della famiglia. Ti sei legata ai bolscevichi. Voi vendete la patria» piangeva la vecchia.

Per non sentire in casa tali rimproveri, Vassilissa traslocò e se ne andò a casa di un'amica. Non provava alcuna compassione per le lacrime di sua madre, e in quei momenti si avvicinò a persone estranee alla sua famiglia. Aveva solo una cosa nello spirito: ottenere il trionfo dei bolscevichi. Era come se una forza la spingesse. Non ci si può arrestare. Nemmeno se mi spingeste in un abisso: in un modo o nell'altro me ne andrei. Discuterei, ritornerei sempre alla carica, lotterei.

Le zuffe diventavano sempre più calde. L'atmosfera era incandescente. L'uragano era inevitabile. Da Pietroburgo venivano le decisioni dei congressi, i discorsi di Trotskij, gli appelli del soviet.

E proprio in quest'epoca si erano incontrati. Era un comizio enorme; la sala era piena sino al soffitto. C'era chi si teneva perfino sui davanzali delle finestre. C'era gente seduta per terra e nei corridoi. Era difficile respirare. A che cosa era consacrato quel comizio? Vassilissa non lo ricorda più, ma si ricorda molto nettamente della presidenza, anche ora. Per la prima volta si era eletto presidente un bolscevico. Anche tutti i membri dell'ufficio erano bolscevichi, o socialisti rivoluzionari di sinistra. Fra loro, un anarchico che era conosciuto in tutta la città con il nomignolo di «l'americano». Vladimir era uno dei lavoratori della cooperativa.

Lo vide là per la prima volta: tuttavia, ne aveva sentito parlare già spesso. Gli uni lo ammiravano dicendo: «Sì, è un uomo, si sa far obbedire». Altri lo biasimavano: un vanitoso! Ma lui era difeso dal gruppo della cooperativa dei fornai e da quello degli impiegati del commercio. Bisognava ben tenerne conto. I bolscevichi erano contenti quando «strapazzava» i menscevichi, e si infuriavano quando si rivolgeva contro il gruppo. Perché, in fin dei conti, che voleva?

Il segretario del gruppo bolscevico non lo amava. «E' un confusionario», diceva. Meglio non avere amici simili. Quanto a Stepan Alexievic, il bolscevico più rispettato della città, rideva nella sua barba sale e pepe, e diceva: «Aspettate, non affrettatevi, ne uscirà un meraviglioso bolscevico; è un ragazzo che ama battersi. Arrangiatevi, aspettate che tutto il disordine americano gli esca dalla testa». Vassilissa aveva sentito parlare di lui, ma non vi aveva prestato troppa attenzione. C'è tanta gente che ora è «in vista» e di cui non si era sentito parlare prima!... C'è altro da fare che pensare a loro... Era venuta al comizio in ritardo, trafelata. Aveva parlato al mattonificio. C'erano comizi dappertutto. L'epoca era fatta così. E anche lei, in quel momento, faceva parte degli «oratori».

L'ascoltavano, le volevano bene, erano felici che una donna parlasse, che un'operaia parlasse seriamente, senza parole inutili. Vassilissa aveva appreso a parlare in questo modo, in modo breve e chiaro. E la richiedevano dappertutto.

Al comizio, andò direttamente alla tribuna. Era già iscritta tra gli oratori. Il compagno Lovrockin (ormai non c'è più, è stato ucciso al fronte) la tirò per la manica.

«Abbiamo vinto. Ora i bolscevichi sono ammessi alla presidenza. Due socialisti rivoluzionari di sinistra e "l'americano"... Ma quello è quasi un bolscevico. E' lui che deve parlare ora».

Vassilissa guardò «l'americano» e rimase stupita, senza saperne la ragione. Briccone d'un anarchico! L'avrebbe preso per un «signore». Un colletto duro, una cravatta, capelli lisciati e una scriminatura ben disegnata, era bello. Le sue ciglia erano come raggi. Toccava proprio a lui di parlare. S'avanzò sul davanti della tribuna, e tossì un poco. Nascondeva la bocca con la mano. «Sembra un signore» disse Vassilissa, ed ebbe, chissà perché, un sogghigno.

Aveva una bella voce, una voce insinuante, e parlò a lungo, facendo spesso ridere il pubblico. E Vassilissa rideva. Bravo, l'anarchico! Vassia l'applaudì,'e quando lui tornò al tavolo della presidenza spinse un po', involontariamente, Vassia. Si girò e si scusò. Quanto a Vassia, arrossì, e il fatto di arrossire la fece arrossire ancora di più. E divenne veramente scarlatta. Era seccante, ma l'anarchico non si era accorto di niente. Si sedette al tavolo, si appoggiò negligentemente alla spallina della sedia, e si mise a fumare una sigaretta.

Il presidente si chinò verso di lui. Gli indicò la sigaretta: «Non è bene fumare qui». Ma Vladimir si limitò ad alzare le spalle e continuò a fumare. «Lo voglio e lo farò. Tutte le vostre proibizioni non sono legge per me...» Diede ancora due tirate, vide che il presidente era occupato in altre faccende, e buttò la sigaretta.

Vassia si ricordava di tutto. Più tardi, si burlò di Vladimir, ma lui non se ne era ancora accorto. L'aveva notata solo quando era venuto il suo turno per parlare e aveva cominciato il suo discorso. Quella sera parlò bene. E benché gli desse le spalle sentiva che «l'americano» la guardava. Intenzionalmente, vantava i bolscevichi di fronte ai menscevichi, ai socialisti rivoluzionari e agli anarchici, benché in quel momento non sapesse molto bene lei stessa chi fossero gli anarchici. Avrebbe voluto ferire «l'americano» perché imitava troppo i «signori».

Vassia si ricordò di come, nel mezzo del discorso, la treccia le era scesa sulla spalla. In quel tempo aveva una bella treccia che faceva girare intorno alla testa. Ma aveva parlato troppo, si era appassionata troppo e alcune spille erano cadute dai capelli. La treccia la infastidiva, la gettò indietro.

Non sapeva che aveva «stregato» Vladimir proprio con quella treccia.

«Mentre ascoltavo il tuo discorso non ti vedevo, ma quando ti è caduta la treccia sulle spalle ho compreso che non eri un'oratrice, che eri Vassia "la tempesta", una donna; una donna un po' buffa che si perdeva, ma che tuttavia restava brava, agitava le sue manine, insultava gli anarchici, ma la cui treccia si era disfatta, sparpagliando sul dorso delle piccole vipere arricciate (erano come fili dorati). Allora la mia decisione era presa, dovevo conoscerla, quella là, Vassiuk!»

Vladimir raccontò tutto questo molto più tardi, quando già si amavano; ma al momento del comizio lei non sapeva niente. Come finì di parlare, si mise a sistemarsi la treccia. Lovrockin raccoglieva le spille per i capelli — «grazie compagno»... Non ci si trova a proprio agio, quando tutti vi vedono, e lei aveva paura di guardare «l'americano». Probabilmente lui aveva notato tutto e la biasimava, e, senza sapere perché, si sentiva addirittura arrabbiata con lui. Che vuole questo americano? Il comizio finì. Ci si cominciò a disperdere. L'americano restò.

«Permettetemi di presentarmi». Egli disse il suo nome e per quale tendenza si trovava lì. Strinse la mano di Vassia e lodò il suo discorso. Vassia, di nuovo, arrossì. Si misero a parlare, a discutere, lei per i bolscevichi, lui per gli anarchici. Il fiume di gente li portò nella strada. Una piccola pioggia fine cadeva attraverso il vento.

Li attendeva una vettura proveniente dalla cooperativa. L’anarchico le propose di accompagnarla a casa. Lei acconsentì. Si sedettero. Era buio sotto la cappotta della vettura. Il veicolo era stretto ed essi quasi si toccavano. Il cavallo scalpitava, colpiva le pozzanghere con gli zoccoli.

Vassilissa e Vladimir non discutevano più. Tacevano. Andavano in silenzio. E tutt'e due sentivano salire nel cuore una gioia seria. Non sapevano che era l'inizio del loro amore.

Parlarono di cose futili... della pioggia... L'indomani sera avrebbe dovuto aver luogo un altro comizio alla fabbrica di sapone... e durante la giornata una riunione della cooperativa. Ma nel loro animo tutto era radioso, era festa.

Si avvicinarono alla casa di Vassia e si salutarono, dispiacendosi di essere arrivati così presto. Entrambi tacevano.

«Non avete i piedi bagnati?» domandò Vladimir, preoccupato.

«E come?» disse Vassia stupita, e fu felice non sapendo perché. Era la prima volta nella sua vita che avevano pensato a lei, che avevano avuto un'attenzione nei suoi riguardi. E Vassia si mise a ridere mostrando dei denti bianchi e ben fatti.

Vladimir avrebbe voluto afferrarla immediatamente, abbracciarla, dare un bacio a quei denti bianchi, un po' umidi, uguali.

La porticina sbatté. Il guardiano lasciò entrare Vassia nella casa.

«Allora, a domani, alla cooperativa! non dimenticatevene. La riunione comincerà esattamente alle due. A casa nostra vivremo all' "americana"». Vladimir sollevò il cappello e salutò a voce molto bassa Vassilissa. Vassia si girò davanti alla porticina e attese. Attendeva qualcosa, ma la porticina sbatté e Vassia si trovò sola nel piccolo cortile oscuro. E, bruscamente, non ci fu più «festa». Si sentiva inquieta, nostalgica, il cuore serrato, rimpiangendo qualcosa, contrariata; Vassia si sentì piccola e talmente inutile.

Vassia si siede nel vagone, mette sotto la testa uno scialle di lana, a mo' di cuscino. Non sonnecchiava, ma le sembrava di vedere dei sogni, il passato... il suo amore, come al cinema.

Film dopo film, sequenza dopo sequenza... gioia e amarezza, tutto questo aveva vissuto con Vladimir, il piccolo Volodia. Quali buoni ricordi? E i dolori del passato le tornavano alla memoria, le erano anch'essi piacevoli. Aveva sentito dolore, in quei momenti, ma adesso si sentiva bene. Si sedette ancor più comodamente. Il vagone oscillava, la cullava. Si stava bene!

Vassilissa rivede l'assemblea della cooperativa, un'assemblea rumorosa. Delle voci gridavano inquiete. I fornai sono persone che non amano la calma, che non si lasciano sottomettere. Non per nulla Vladimir era il loro presidente. Era il solo che sapesse tener le redini per dirigere gente del genere. Le teneva a fatica, ma le teneva. Sulla fronte gli si gonfiavano le vene, tanto era teso. Ma ritornava incessantemente su ciò che voleva. Non aveva visto entrare Vassia. Lei si era seduta modestamente accanto al muro, e osservava.

La decisióne adottata esprimeva diffidenza verso il governo provvisorio. E si decise di mettere la cooperativa nelle mani degli operai. La direzione fu scelta immediatamente: alcuni membri della cooperativa, dei membri del consiglio municipale, della città... i borghesi furono esclusi dalle liste, e le loro quote annullate. Ormai la cooperativa non sarebbe più stata municipale, ma sarebbe appartenuta ai suoi fornai e ai suoi commessi.

Ma i menscevichi non dormivano sugli allori. Avevano inviato i loro servi perché prevenissero i compagni.

L'assemblea era sul punto di sciogliersi; era restata in seduta solo la direzione. A un tratto, nel vano della porta, guardate un po' chi è venuto! Il commissario... un menscevico. L'autorità principale della città, partigiano di Ke-rensky, e dietro di lui i capi dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari. Vladimir li scorse, e un lampo di astuzia gli brillò negli occhi.

«Compagno! L'assemblea è finita. E' rimasta qui solo la direzione della cooperativa dei fornai rivoluzionari. Domani ci sarà un'assemblea generale per discutere di tutto, per il momento tutti se ne vadano a casa».

La voce di Vladimir risuonava calma e ferma. Il pubblico si levò rumoreggiando.

«Aspettate, aspettate, compagni», disse il commissario

con voce irritata, «vi prego di non sciogliere l'assemblea!»

«Signor commissario, arrivate troppo tardi, l'assemblea e già sciolta e se volete conoscere le nostre risoluzioni, prego, eccole qua. Avevamo intenzione di mandarvi una delegazione per iniziare le trattative. Ora ecco che siete venuto qui da noi. Tanto meglio. E' proprio così che bisogna fare in un periodo rivoluzionario. E' tempo di creare delle nuove maniere. Sono i funzionari che devono venire a rapporto, i funzionari che devono cercare di trarre insegnamento dalle organizzazioni operaie».

Vladimir stava là, niente affatto turbato, raccogliendo quelle carte, ma i suoi occhi, sotto le ciglia, avevano un lampo «demoniaco».

«Bene, bene», acclamava la sala. Molti ridevano. Il commissario tentò di protestare. Si avvicinò a Vladimir. Era inquieto e non sapeva che dire. Vladimir stava là senza turbarsi. Solo i suoi occhi ridevano, e la sua voce era sonora e netta. Le sue parole, e le sue risposte al commissario riempivano tutta la sala. Il pubblico rideva. Applaudivano Vladimir. Il colmo fu quando Vladimir invitò il commissario a venire all'assemblea solenne che si sarebbe tenuta ben presto, segnando con festeggiamenti il passaggio della proprietà della cooperativa dalle mani della borghesia a quelle dei fornai.

«Bravo l'americano! Eccone uno che non esita a dire ciò che vuole». Il commissario se ne andò senza ottenere niente. Minacciò tuttavia di applicare la forza.

«Provateci un po'!» Gli occhi di Vladimir si accesero mentre gridava queste parole. La sala al completo ripetè:

«Provateci un po', provateci!» La minaccia crebbe nella sala. Il commissario si defilò con i menscevichi per una porta laterale.

Nella sala il tumulto continuò a lungo. Si decise di rinviare alla sera la riunione della direzione. Bisognava prima mangiare. La gente era stanca perché la seduta durava dal mattino. Vassia si mise anche lei in movimento e voleva uscire con la folla. Ma davanti a lei stava Vladimir. Vladimir con il sorriso negli occhi. Era talmente diverso da tutti, nella sua giacca davvero elegante, una giacca blu. Non le appariva già più come un «signore». Oggi sentiva che era un amico. Perché mai non è bolscevico? E' audace, per di più. Niente può arrestarlo. Se ce ne fosse bisogno, andrebbe incontro ai proiettili. Importa poco quel colletto inamidato! E, all'improvviso, Vassia ebbe un pensiero, non un vero pensiero, ma un desiderio: mettere la mano nella gran mano di Vladimir. Ecco con chi potrebbe affrontare la vita. Fianco a fianco, con gioia e fiducia. Ma che cosa rappresenta, lei, per un uomo come Vladimir? Si paragonò a lui e sospirò. E' bello, ha visto molto, è stato in America... e lei... lei è brutta, non conosce quasi niente, non ha mai visto nient'altro al di fuori della sua provincia. Non le farà attenzione. Oggi non l'ha nemmeno notata!

Vassia ebbe appena il tempo di pensar questo, che sentì al suo fianco una voce: «I miei rispetti, compagna Vassilissa. L'abbiamo proprio cacciato per benino, non è vero?, quel signor commissario, perché pensi a ritornare. Ah, non tornerà, state tranquilla! La nostra risoluzione gliela faremo pervenire solo a titolo d'informazione».

Vladimir era in piena animazione. La causa l'accendeva letteralmente. Vassia si sentì influenzata. Si parlarono francamente, ridendo insieme, estasiati. Se i compagni non lo avessero tirato fuori di li, Vladimir sarebbe rimasto con Vassia in quel vestibolo, e avrebbero continuato a parlare del commissario e delle soluzioni adottate.

«Bene, niente da fare, bisogna andarsene! Non posso restare con voi, compagna Vassilissa». E Vassia sentì del rimpianto nella sua voce. Il suo cuore fremette di felicità. E levò verso di lui i suoi occhi bruni, affettuosi, attenti. L’anima di Vassia brillava in essi.

Vladimir li fissò, e tacque come affascinato.

«Compagno Vladimir, perché restate qui? Non trattenete la gente. Abbiamo ancora un mucchio di cose da dire».

«Me ne vado».

Strinse rapidamente la mano di Vassia e se ne andò.

Vassia se ne andò attraverso la città, senza saper lei stessa dove andava. Non vedeva più le strade, non vedeva più le persone, vedeva solo Vladimir. Non aveva mai sentito una cosa simile.

Era una sera d'inverno, una sera di gelo senza bruma. Nel cielo brillavano le stelle, stelle innumerevoli. E la neve era pura, pulita, bianca, nuova. La neve s'era sparsa in tutta la strada, sui tetti, sulle palizzate. Aveva ornato gli alberi di fiocchi lanuginosi.

Vassilissa e Vladimir rientravano da una seduta del soviet. Gli avvenimenti d'ottobre avevano già avuto luogo. Ora il potere era nelle mani dei soviet. Avevano buttato fuori i menscevichi e i socialisti rivoluzionari di destra. Restavano solo gli «internazionalisti». Era il gruppo che dirigeva tutto. L'influenza dei bolscevichi cresceva. Gli operai erano tutti con i bolscevichi. Contro c'erano solo i borghesi, i preti e gli ufficiali. Il soviet lottava contro di loro. La vita non era ancora completamente normalizzata. Le onde della rivoluzione non si erano ancora calmate. Le guardie rosse pattugliavano la città, c'erano perfino delle scaramucce. Ma sembrava che il più difficile fosse passato.

Vladimir e Vassilissa si ricordavano molto bene dei giorni in cui «avevano preso il potere»; gli operai panificatori che sostenevano Vladimir, avevano allora salvato la situazione. Erano dei ragazzi decisi; Vladimir ne era fiero. Era entrato nel soviet a loro nome. Vassilissa e Vladimir

marciavano fianco a fianco. Nelle strade regnava il silenzio. Le pattuglie della guardia rossa domandavano la parola d'ordine che permetteva di circolare. Anche Vladimir aveva un bracciale rosso, e sulla testa portava un gran berretto di pelo. Anche lui era entrato nella milizia operaia. Aveva dovuto subire anche lui il fuoco e aveva sentito fischiare le pallottole. Ecco perché una manica della sua giacca era bucata da un colpo vicino alla spalla. La mostrava a Vassilissa. Benché in quest'epoca si vedessero spesso, non trovavano il tempo per parlarsi, o, almeno, mai abbastanza tempo.

Oggi, contrariamente al solito, erano usciti insieme senza accordarsi in precedenza, e subito era stata una festa nell'animo di Vassilissa. Volevano tante cose, volevano raccontarsi tante cose, un po' come dei vecchi amici che si fossero incontrati e non riuscissero a dire tutto quello che era successo nel frattempo. In certi momenti tacevano tutti e due, e quei momenti erano i migliori. Erano più felici, più vicini l'uno all'altra.

Avevano passato la casa in cui abitava Vassilissa. Non se ne erano accorti, ed erano già alle ultime case del quartiere. Incominciavano gli orti, subito dopo. Guardate un po' dov'erano arrivati! Si fermarono e guardarono meravigliati. Si misero a ridere. Guardarono il cielo. Le stelle scintillavano con tutti i loro fuochi. Come si stava bene! L'anima era così leggera, così giovane, così piena di coraggio!

«Al villaggio non avevamo orologio. Ma potevamo sapere l'ora guardando le stelle. Soprattutto mio padre conosceva bene le stelle. Diceva l'ora quasi esattamente».

Vladimir raccontò la sua infanzia. La sua famiglia era numerosa. La proprietà rurale di cui disponeva era miserabile. Mancava tutto. Volodia avrebbe voluto studiare, ma la scuola era lontana. Si mise d'accordo con la figlia del pope: guardava loro le oche, ma lei, in cambio, le insegnava a leggere e scrivere.

Vladimir si ricordò del villaggio, dei campi, della sua infanzia, dei boschetti. E divenne tutta un tratto tenero e triste.

«Vedi, ecco come» si stupì Vassilissa, e lui le divenne ancora più caro a partire da questo momento.

Poi la conversazione girò intorno all'America. Vladimir raccontava come era partito per laggiù, ancora adolescente. Aveva deciso di farsi strada da solo. Navigò per due anni su una nave da carico, poi lavorò in un porto, partecipò a uno sciopero. Lo misero sulla lista dei proscritti, gli toccò andarsene in un altro Stato federale. Conobbe la fame e non viveva che grazie al lavoro che trovava ora qua ora là. Prendeva qualsiasi lavoro gli si offrisse. Per esempio, fece parte del servizio di pulizie di un albergo molto elegante. Ah! Ne ha visti laggiù di ricconi e di donne... vestite di tulle, di seta, di diamanti. Poi gli fu offerto di entrare in un magazzino di mode. Pagavano bene. Portava una livrea con galloni. Lo apprezzavano a causa della sua taglia e della sua figura. Questo lo annoiava. Bolliva troppo spesso di rabbia contro tutti quei clienti e quei ricconi. Cercò di diventare autista. Viaggiava spesso con un ricco commerciante, un commerciante di cotone, attraverso l'America. Lo conduceva, in un'automobile lussuosissima, per centinaia di chilometri, era ugualmente una forma di schiavitù. Grazie a questo commerciante entrò negli affari, interessandosi della vendita del cotone. Divenne commesso e si mise a frequentare i corsi di contabilità. E poi, all'improvviso, arrivò la rivoluzione. Abbandonò tutto e corse verso la Russia. Aveva fatto parte di un'organizzazione operaia già in America. Aveva fatto anche un po' di prigione dopo un tafferuglio con la polizia. Il commerciante era intervenuto per lui. Lo apprezzava come autista. Sapeva che era anarchico, ma lo rispettava ugualmente.'E spesso gli tendeva la mano. L'America è molto differente dalla Russia. Vladimir ama a modo suo l'America.

Camminavano, camminavano ancora attraverso le strade. Vassia ascoltava. Vladimir non sembrava potersi arrestare, come se volesse raccontare tutta in una volta la sua vita a Vassilissa. Si avvicinarono di nuovo alla porticina del giardino della casa di Vassilissa.

«Ma non possiamo entrare in casa vostra a bere un po' di tè, compagna Vassilissa?» domandò Vladimir. «Ho la gola secca e poi non ho voglia di dormire».

Vassia rifletté. La sua amica si era probabilmente messa a dormire già da molto tempo.

«Non fa niente, la sveglieremo. Berremo in tre, sarà ancora meglio».

E, in effetti, perché non invitare «l'americano» a venire da lei? Le rincresceva separarsi da lui, tanto erano diventati «amici».

Entrarono, fecero scaldare il samovar. Vladimir l'aiutava.

«Bisogna sempre aiutare le signore. Da noi, in America, lo esigono i costumi».

Si misero a tavola davanti al tè. Scherzavano. Si divertivano a punzecchiare l'amica di Vassia. Le dicevano di svegliarsi e di venire con loro, ed essa aveva ancora sonno; strizzava continuamente gli occhi. Vassilissa era contenta, raggiante.

Vladimir si mise di nuovo a raccontare della sua America. Parlava di donne splendide in calze di seta, che venivano in automobile al negozio di mode. Lui, con galloni e tricorno, si trovava presso la porta che doveva aprire. Una volta una donna gli ficcò in mano un biglietto, fissandogli un appuntamento. Non ci andò. Non ama quel tipo di «femmine». Un'altra gli regalò una rosa.

Vassia ascoltava i racconti sulle belle americane in calze di seta e le sembrava di diventare sempre più piccola e sempre più brutta. La gioia si spegneva nel suo cuore e Vassilissa si accigliò.

Vladimir la guardò con attenzione e affetto, e scosse la testa.

«Io, Vassilissa Dementievna, ho protetto accuratamente per tutta la vita il mio cuore e il mio amore. Lo darò solo a una giovane pura; mentre quelle donne erano delle debosciate. Erano peggio che prostitute».

E di nuovo lei sentì montare la gioia nel cuore.

Lui conservava dunque il suo cuore per una giovane pura! Ma Vassia non è più pura. Ha avuto una specie d'amore con Pierre Razgulov, che lavorava nella sezione delle macchine prima di andare al fronte. Poi c'è stato l’organizzatore del partito. Lei lo considerava come suo fidanzato. Anche lui è partito, ha cessato di scrivere e lei lo ha dimenticato.

Che fare adesso? Lui aveva ben detto: solo «a una giovane pura». Vassia guardava Vladimir con attenzione. Lo ascoltava, ma non lo sentiva più parlare, tanto si sentiva male. E Vladimir decise che aveva finito per infastidirla con tutti quei racconti.

Si interruppe, si alzò e prese congedo alla svelta, freddamente.

In quel momento le lacrime chiusero la gola di Vassilissa. Sarebbe saltata per abbracciarlo, ma forse lui ha bisogno di lei? Ha visto tante donne belle... conserva il suo cuore per una giovane pura...

Vassia pianse per tutta la notte. Decise di evitare l'americano, di non cercare d'incontrarlo. Non rappresentava niente per lui.

Lui conserva il suo cuore per una giovane pura.

Vassia decise di evitare l'americano, ma la vita, invece, aveva deciso di avvicinarli.

Vassilissa venne al comitato il giorno in cui si doveva discutere la scelta del nuovo comandante della città. Gli uni proposero che fosse Vladimir, gli altri non ne volevano sentir parlare, in particolare il segretario del partito. Costui si ostinò: a nessun costo! Già senza questo tutta la città non parlava d'altro che dell'americano. Si sposta come se fosse il governatore. Agghindato del suo berretto di pelo, godeva completamente del fiacre che gli dava la cooperativa. Vladimir cominciava a spaventare i semplici cittadini. Lui stesso non rispettava poi molto la disciplina. C'erano di nuovo lamentele contro di lui. Alla cooperativa, non applicava del tutto i decreti del governo.

Vassia intervenne per difendere Vladimir. Si sentiva ferita dalle chiacchiere che correvano sul conto di lui. La feriva il fatto che lo chiamassero l'anarchico. Era una diffidenza talmente stupida. Egli lavorava meglio dei bolscevichi. Stepan Alexievic era completamente devoto a Vladimir. Votarono.

7 voti contro Vladimir. 6 a favore. Non c'è niente da fare! D'altronde, Vladimir stesso ne ha un po' la colpa, si vanta troppo.

Vladimir era indispettito. Perché non avevano fiducia in lui? Si consacrava alla rivoluzione con tutto il cuore e con tutta l'anima. Apprese la decisione del comitato e divenne furioso. Si mise a insultare apposta i bolscevichi: «Statalisti, centralisti»! Vogliono introdurre un «regime poliziesco»!

Faceva sempre riferimento all'America, certe volte a giusto titolo, talvolta contro ogni buon senso. Parlava sempre dei Wobblies (IWW). Il comitato s'inquietò ed esigette che Vladimir si sottomettesse alle direttive che gli erano date.

I conflitti diventavano ogni giorno più acuti. Vassia si tormentava. Interveniva per difendere Vladimir. Parlava fino ad avere la voce rauca.

Segnalarono un'altra volta al soviet che un ordine di cui la cooperativa non voleva sapere non era stato applicato, mentre Vladimir continuava a ripetere:

«Non voglio sottomettermi a misure poliziesche! Ogni istituzione deve essere padrona di se stessa! La disciplina...! Sputo sulla vostra disciplina... Non è per questo che abbiamo fatto la rivoluzione, che abbiamo versato il sangue, che abbiamo cacciato i borghesi... per mettere la testa sotto questo nuovo giogo. Ecco qua dei comandanti! Ma noi sappiamo comandarci da soli».

Discuteva, gridava.

«Se non vi sottomettete, vi escluderemo dal soviet», minacciò il Presidente. «Provateci un po'!» disse Vladimir, mandando lampi. «Provocherò le dimissioni di tutti i fornai! Chi vi difenderà allora? Ricadrete rapidamente sotto il tallone dei borghesi. Sarà proprio bene per il vostro soviet. Non è un soviet, ma un dipartimento di polizia!...»

Il cuore di Vassilissa si strinse. Perché ha detto una cosa del genere? Adesso lo attaccheranno. E Vassilissa non si era ingannata. Tutta l'assemblea si agitò. Come? Insultare il soviet? Vladimir si alzò in piedi, pallidissimo. Si difendeva e, tutt'intorno, gridavano, rumoreggiavano, spingevano.

«Escludiamolo! Che lo si arresti! Mettiamo alla porta questo mascalzone!»

La situazione fu salvata da Stepan Alexievic. Propose a Vladimir di andarsene nella stanza vicina. Il soviet avrebbe discusso l'incidente in sua assenza.

Vladimir se ne andò e Vassia lo seguì. Lei .sentiva crescere dentro il dispetto. Perché Vladimir aveva fatto una tale sciocchezza?... Ma provava anche risentimento nei confronti del soviet. E' forse possibile giudicare un uomo in base alle sue parole? Lo si deve giudicare in base alle sue azioni. Tutti sanno che Vladimir è per il soviet. Se non vi avesse preso parte, forse in ottobre i bolscevichi non sarebbero riusciti a mantenersi. E' stato lui ad obbligare il capo della duma municipale a fuggire dalla città. E' stato lui a far uscire nella strada quelli che non volevano «sottomettersi» e ad obbligarli a sgomberare le strade dalla neve!...

Perché dunque escluderlo dal soviet? Per una parola di troppo?

Inquieta, Vassilissa andò nella stanza dietro la presidenza. Vladimir stava seduto vicino al tavolo, la testa tra le mani, l'aria cupa.

Levò verso di lei gli occhi raggianti, ma in quel momento pieni di tormento, di tristezza, di offesa. Le apparve piccolo e impotente, come un bambino maltrattato.

Vassilissa si sentì penetrare da una tenera pietà. Avrebbe accettato qualsiasi cosa purché il suo amato non soffrisse!

«Ah! hanno avuto paura i vostri statalisti», cominciò Vladimir con un'aria da gradasso. «Hanno paura della mia minaccia, ma sarà ancor peggio...» e cessò di parlare.

Vassia lo guardava con infinita tenerezza, ma nei suoi occhi si leggeva un rimprovero.

«Vladimir Ivanovic, voi non avete ragione. E' a voi stesso che fate male. Perché avete detto una cosa simile? Con queste parole sembra che vi mettiate contro il soviet».

«Ebbene, mi metterò contro il soviet, se diventa un commissariato di polizia», continuò a intestardirsi Vladimir.

«Perché dite una cosa che in realtà nemmeno pensate?» Vassia gli si avvicinò e lo guardò come una sorella maggiore, con attenzione e serietà.

Vladimir la guardò dritto negli occhi e tacque.

«Su, ammettete che siete andato troppo lontano».

Vladimir abbassò la testa.

«Mi è sfuggito. Mi ero infuriato».

E di nuovo guardò Vassilissa dritto negli occhi, come un bambino che confessi le sue colpe alla madre.

«Ora non c'è più niente da fare. Tutto è perduto». Il braccio gli cadde con un gesto stanco. Vassia gli si accostò ancora. Il suo cuore era pieno di una tenerezza che le faceva male. Le era diventato più caro. Posò la mano sulla testa di lui e l'accarezzò.

«Allora, Vladimir Ivanovic? Perché avete perso la vostra fermezza? E dire che, come affermate voi, siete un anarchico. Non va bene, Vladimir, bisogna credere in se stessi. Non dovete permettere che la gente vi ferisca».

Vassia si teneva vicina a Vladimir. Gli accarezzava la testa come a un bambino, e lui, tenendo la testa contro il suo cuore, riprendeva fiducia, come se cercasse un appoggio in lei. E, malgrado la sua alta statura, si sentiva ferito come un bambino!...

«Mi sento talmente scoraggiato. La vita mi ha talmente battuto. Io pensavo che la rivoluzione fossero i compagni. Ora tutto sarà diverso».

«Certamente, sarà molto diverso, ma bisogna che lo sia nel bene, nel cameratismo».

«No, adesso non andrà più bene. Non mi so intendere con gli uomini».

«Lo imparerete, ho fiducia».

E Vassia sollevò la testa di Vladimir, lo guardò negli occhi, come se volesse metter tutta la sua fede in quello sguardo. Ora gli occhi di Vladimir riflettevano l'ansia e la nostalgia. Vassia si piegò e, con una tenerezza infinita, baciò i capelli di Vladimir.

«Bisogna sistemare questa faccenda. Bisognerà che tu ti confessi colpevole. Di' che sei andato troppo lontano, nella collera... che non ti hanno capito bene...»

«D'accordo», acconsentì Vladimir, e la guardò anch'egli negli occhi, come se cercasse un appoggio. E, all'improvviso, l'afferrò nella sua stretta, la strinse contro il cuore in un modo tale che le fece male, le sue labbra ardenti s'impossessarono delle labbra di Vassia.

Vassia entrò correndo sul podio della presidenza. Andò direttamente verso Stepan Alexievic e gli disse di che si trattava. Bisognava assolutamente tirar fuori dai pasticci Vladimir Ivanovic.

Si misero a posto le cose dopo quest'incidente, ma restò l'ostilità verso Vladimir. Nel soviet s'erano formati due schieramenti. Erano passati i giorni senza nuvole, i giorni di franca amicizia...

Vassia non voleva più continuare a pensare. Ma i suoi pensieri correvano a tutta velocità, era impossibile arrestarli...

Come si erano conosciuti, alla fine? Questo era successo poco dopo l'«incidente» del soviet. Vladimir la riaccompagnava a casa. Adesso essi ritornavano sempre insieme. Si cercavano l'un l'altra, e quando restavano soli si davano del tu.

L'amica di Vassia non era in casa e a un tratto Vladimir sollevò Vassilissa e la coprì di baci appassionati, molto appassionati. Vassia si ricorda ancora adesso di quei baci. Ma lei si era strappata alle sue mani, si era allontanata da lui e lo aveva guardato fisso negli occhi.

«Volodia! non baciarmi. Non voglio essere ingannata».

Egli non la comprese e si stupì.

«Ingannata? Tu credi che io voglio ingannarti? Non vedi dunque che ti ho amata dal primo incontro?»

«Non è di questo che si tratta! Non è di questo Volodia... io ti credo, certamente, ma io... aspetta un po'... non baciarmi, tu vuoi dare il tuo cuore a una "fanciulla pura"... io non sono più una fanciulla, Volodia,

io ho avuto dei fidanzati».

Parlandone, tremava con tutto il corpo. Ecco come crollava la sua felicità.

«Io non ho niente a che vedere con i tuoi fidanzati», la interruppe Vladimir. «Tu sei mia. Non c'è nessuno sulla terra più puro di te, Vassilissa. E' la tua anima che è pura».

Se la strinse contro il cuore con una tal forza, una tal passione...

«Vassilissa, tu mi ami non è vero? Mi ami? Sei mia, mia, e di nessun altro, e, intendimi bene, non parlarmi più dei tuoi fidanzati... Io non ti permetterò mai di ricordartene. E non parlarmi così... io non voglio saper niente... non voglio. Tu sei mia, e questo è tutto!...».

Così era cominciata la loro vita coniugale.

Era buio, nello scompartimento. La moglie del «nep-man» si era coricata, dopo aver profumato tutto il vagone d'acqua di colonia con sentore di fiori. Vassilissa era allungata, immobile, sulla cuccetta superiore. Avrebbe voluto addormentarsi tranquillamente. Ma non ci riusciva.

Il passato le ritornava incessantemente alla memoria. Era come se facesse un bilancio. Ma perché un bilancio? Tutta la vita era ancora davanti a lei, il suo amore era vivo, c'era la prospettiva della felicità. Ma da qualche parte, in fondo al cuore, Vassilissa sentiva che ciò che era esistito nel passato non c'era già più. La sua felicità di allora, di quattro anni prima, non esisteva più. Il suo amore non era più lo stesso e anche Vassilissa era cambiata.

Perché questo? Di chi la colpa?

Vassilissa stava allungata, le braccia piegate dietro la testa. Pensava. Non aveva, in questi ultimi anni, avuto il tempo per pensare. Viveva, lavorava. Adesso le sembrava di non aver «riflettuto» sufficientemente su un certo numero di cose, di averle lasciate passare.

Dei malintesi nel partito... delle piccole questioni nelle istituzioni. All'inizio, tutto era diverso, e Volodia era diverso.

E’ vero che aveva avuto molte difficoltà con lui. Ad ogni pié sospinto egli si urtava con le autorità. Ma Vassilissa sapeva farlo ragionare. Egli aveva fiducia in lei. E le obbediva.

I bianchi avevano cominciato l'offensiva. La città era minacciata. Vladimir doveva partire per il fronte e Vassia non lo tratteneva. Cercava di convincerlo di una sola cosa: iscriversi al partito. Ciò lo rendeva furioso, egli discuteva, ma finì per iscriversi al partito e divenne «bolscevico». Partì per il fronte.

Si scrivevano poco e cose senza importanza. Talvolta egli veniva per uno o due giorni. E di nuovo, per settimane, per mesi interi, vivevano l'uno lontano dall'altra.

Questo sembrava nell'ordine delle cose. Non si aveva nemmeno il tempo per essere schiacciati dalla tristezza. Non se ne aveva il tempo! All'improvviso Vassia venne a sapere nel comitato che avevano intentato «una specie di processo» a Vladimir. Ma di che si trattava? E perché? Egli lavorava all'intendenza. Si diceva che si dava talvolta al bel tempo, che aveva reso gli affari inestricabili, che non era affatto «irreprensibile».

Vassia si sentì ribollire; non poteva esser vero. Non voleva crederlo. Erano intrighi, calunnie.

Si mise a informarsi. La cosa sembrava seria. Non era ancora arrivato davanti ai tribunali, ma lo avevano allontanato dal suo lavoro. Riuscì a convincere Stepan Alexie-vie di permetterle di andare al fronte (per portare regali ai soldati). In tre giorni aveva preparato tutto per la partenza.

Partì. Era difficile portare a buon fine il suo viaggio. Ritardi dappertutto, treni che non arrivavano in orario. Mancava sempre una carta. Non avevano agganciato al convoglio il vagone con i doni. Si trovò alle prese con i peggiori tormenti. L'angoscia la invase completamente. E se la faccenda dovesse già passare per il tribunale... Solo allora Vassia comprese del tutto a che punto amava Vladimir, quanto le era caro. Credeva in lui come uomo. Aveva una fiducia completa in lui. Il fatto che gli altri non avessero più fiducia in lui (lo dicevano un «anarchico», ben capace di tutte le debolezze) faceva sì che Vassilissa lo difendesse con tanta maggior tenacia. Nessuno conosceva la sua anima come Vassia. L'anima di Vladimir era «tenera» come quella di una donna. Solo in apparenza era rude e inflessibile. Vassia sapeva che era buono e che lo si poteva condurre con l'affetto a fare il suo dovere. Aveva un «brutto» carattere, è vero. La vita non era stata dolce con lui, una vita di proletario.

Vassilissa arrivò allo stato maggiore. Potè sapere solo con difficoltà dove alloggiava Vladimir. Dovette attraversare tutta la città sotto una pioggia scrosciante. E si considerò ancora fortunata perché un compagno la guidò.

Era stanca, intirizzita, e tuttavia felice. Aveva saputo che non avevano ancora finito l'inchiesta sul caso. Non c'erano vere e proprie prove. Nella sezione militare speciale le opinioni erano divise in due campi. Correvano chiacchiere e denunce. Solo una cosa la rese perplessa. Quando Vassilissa si presentò chiaramente come sua «moglie», le sembrò che si scambiassero degli sguardi e che addirittura sogghignassero. Forse le si nascondeva qualcosa. Doveva conoscere la verità sino in fondo. Poi sarebbe andata a trovare il compagno Toporkov che era appena venuto dal centro. Egli aveva sentito parlare delle attività di Vladimir. Che la smettessero con questa maniera di trattare gli altri. Perché lo tormentano tanto? Perché? Altri sono pur stati menscevichi, socialisti rivoluzionari, ma non li si tormenta. Perché un anarchico è peggio degli altri?

Si avvicinavano alla piccola casa dove Vladimir era provvisoriamente alloggiato. C'era luce alla finestra e la porta che dava sulla scalinata era chiusa. Il compagno che aveva accompagnato Vassia bussò alla porta. Nessuno rispose. I piedi di Vassia erano fradici fino alle caviglie, era bagnata tutta fino alle ossa. E, più che alla gioia dell'incontro, pensava a entrare in una stanza calda, a potersi cambiare, soprattutto cambiarsi le calze... Aveva passato cinque giorni in quel carro bestiame. Non aveva quasi dormito.

«Bussiamo un po' alla finestra», decise il compagno.

Ruppe un ramo di betulla e si mise a battere alla finestra.

Si spostò una tendina e Vassia vide la testa di Volodia. Non sembrava portare altro che una camicia. Lei guardò da più vicino, nell'oscurità, e, dietro la spalla di lui, vide la testa di una donna. Si vide per un momento e poi scomparve.

Vassilissa sentì vicino al cuore qualcosa che aspirava, era piena d'angoscia, quasi da vomitarne.

«Aprite, dunque, compagno, sono con vostra moglie».

La tendina si abbassò, nascondendo Volodia e la donna. Vassilissa e il suo accompagnatore salirono sulla scalinata. Attesero. Perché così a lungo? A Vassia sembrava interminabile.

La porta infine si aprì. Vassia si sentì presa dall'abbraccio di Vladimir. La abbracciava, le dava dei baci, il viso raggiante e perfino lacrime negli occhi...

«Sei venuta, sei venuta, amica mia, compagna mia, Vassia».

«Prendete almeno i vostri bagagli. Che devo farne?» domandò rudemente il compagno che l'aveva guidata.

«Ma entrate tutte due, mangeremo qualcosa. Sei certo tutta bagnata. Hai freddo?»

Entrarono in casa di Volodia. La sala da pranzo era illuminata e pulita. Più lontano c'era la stanza da letto. Nella sala da pranzo, vicino al tavolo, era seduta un'«infermiera». Un velo bianco le stringeva i capelli e sulla manica aveva un piccolo distintivo rosso. Era abbastanza bella e di nuovo qualcosa strinse Vassilissa al cuore, mentre Volodia le presentava.

«Presentatevi, infermiera Varvara, è mia moglie Vassilissa Dementievna».

Si tesero la mano, ed entrambe si fissarono come se controllassero qualcosa.

«E allora? Vassilissa, togliti gli abiti, tu qui sei a casa tua. Vedi come vivo bene, meglio che nella tua cameretta. Da' qui il cappotto. Dio mio, com'è bagnato. Bisogna appenderlo vicino alla stufa».

L'infermiera restò in piedi, non si sedette.

«Bene, Vladimir Ivanovic, disse, parleremo delle nostre faccende domani, e ora non voglio guastare la vostra festa di famiglia».

Strinse la mano a Vassilissa e a Vladimir e se ne andò con il compagno che aveva accompagnato Vassia. Vladimir prese Vassia tra le braccia, la portò attraverso la stanza, la accarezzava, le dava baci, mai abbastanza.

Ma Vassia si sentiva meglio. Ne aveva quasi vergogna. E tuttavia, tra due baci, lanciò questa domanda:

«Chi è quell'infermiera?»

E gettò indietro la testa, per veder meglio gli occhi di Volodia.

«Ah! L'infermiera! E' venuta qui per parlare dell'approvvigionamento dell'ospedale. Bisogna accelerare l'arrivo degli oggetti di prima necessità. Ci son ritardi dappertutto, e benché mi abbiano allontanato dagli affari, non possono fare a meno di me. Come c'è una difficoltà, mi vengono a cercare!»

E si misero a parlare della causa. Si misero a parlare di ciò che li tormentava entrambi. Vassia si rialzò in piedi. Passarono nella stanza da letto e di nuovo Vassia sentì come una stretta. Il letto era rifatto, ma molto negligentemente, come se vi avessero appena gettato sopra una coperta. Guardò Vladimir. E lui le mise la mano dietro la schiena (era la sua abitudine, lei la conosceva bene, e inoltre era un segno d'affetto). Vladimir camminava su e giù nella stanza. Raccontava il suo «caso», come aveva avuto luogo, e dove era iniziato. Vassia ascoltava, si sentiva offesa per Vladimir. Intrighi e gelosia, ecco di che si trattava! Era puro, il suo Volodia! Lei lo sapeva. Non poteva essere altrimenti. Vassilissa prese le calze dalla sua valigetta, ma per gli stivali era un'altra faccenda. Che fare?

Vladimir le fece l'osservazione.

«Ah, vedi come sei, non hai nemmeno un paio di stivali di ricambio. Ti procurerò del cuoio. Il nostro calzolaio te ne farà un paio magnifico. E poi lascia, ti toglierò io stesso gli stivali. Mio dio, sono tutti bagnati».

Li tolse, gettò sul pavimento le calze umide di Vassilissa e mise i piedi di Vassia tra le sue mani. Le mani di lui erano bollenti, e i piedi di Vassia erano freddi.

«Hai dei piedi, si direbbero giocattoli. Oh, mia piccola Vassia, mia amata».

Si piegò e le diede due baci sui piedi.

«Che fai? Mio piccolo Volodia! sei stupido...»

Ma lei rideva e si sentì di nuovo felice. Veramente mi ama, sì, mi ama, mi ama!

Bevvero tè, parlarono, si diedero dei consigli. Vladimir era talmente fiducioso! Le aveva detto tutto. Era stato grossolano quando non avrebbe dovuto esserlo, si era lasciato trascinare, non aveva applicato gli ordini, agendo a modo suo. Non poteva soffrire gli «ordini»! Gli era capitato di sbagliare certe cose. Aveva fatto lavorare dei tipi che non ne valeva la pena. Ma che vi fosse il minimo dubbio sul suo modo di condurre gli affari, Vassilissa avrebbe potuto crederci? La respirazione di Volodia diventava irregolare. Sentiva crescersi dentro la collera.

«Se perfino tu hai potuto pensarlo, Vassilissa!...»

«No, Volodia, non è di questo che si tratta, ma io temevo che non ci fosse ordine nella tua contabilità. Adesso sorvegliano tutto con tanta pignoleria!»

«Quanto alla contabilità, non devi affatto inquietarti.

Tutti quelli che hanno incominciato la questione contro di me faranno cilecca. Vedrai! La mia contabilità è trasparente come un vetro. Non per nulla in America ho seguito dei corsi di contabilità».

Vassilissa si sentì più leggera. Purché ora possa vedere i compagni, intendersi con loro, spiegargli!

«Tu sei piena di astuzia, è vero! E tu sei venuta da me!» Ecco quel che diceva Vladimir. «Io non osavo più attenderti. So fino a che punto sei occupata, laggiù. Pensavo che non avessi il tempo di preoccuparti di tuo marito, del tuo piccolo Volodia!...»

«Amor mio, ma non sai che non ho pace quando sei lontano?... C'è sempre qualcosa che mi rode: che starà facendo? Non gli sarà successo niente?»

«Vassilissa, tu sei per me un vero angelo custode, lo so».

Disse questo molto seriamente e abbracciò Vassia. Ma i suoi occhi divennero tristi, pensierosi.

«Io non ti merito, Vassia, ma ti amo più di ogni cosa al mondo. Tu non mi credi. Amo te sola, te sola, tutto il resto sono sciocchezze».

Vassia non lo comprese, in quel momento. Si stupì del suo continuo fervore. E, inoltre, come era di umore ineguale.

Ritornarono nella camera da letto. Era ora di mettersi a dormire. Vassia si mise a sistemare il letto. Spostò la coperta. Che è? Le tempie le si misero a battere. Le gambe tremavano. C'era una benda sporca di sangue, come ne portano in certi giorni le donne... c'erano macchie di sangue sul lenzuolo.

«Volodia, ma allora, che è questo?»

La sua voce risuonò come un gemito.

Vladimir si precipitò verso il letto con rabbia. Gettò la fascia sul pavimento.

«E' quella sporca affittacamere! Senza dubbio è venuta a stendersi qui in mia assenza. Ha sporcato il letto».

Afferrò il lenzuolo e lo gettò sul pavimento.

«Vladimir!»

Vassia stava lì in piedi, gli occhi spalancati, e i suoi occhi riflettevano tutta la sua anima.

Vladimir li fissò e tacque.

«Volodia! ... Perché lo hai fatto? Perché, dimmi».

Volodia si gettò sul letto. Si rompeva le mani.

«Tutto è perduto! Tutto è perduto! Ma io te lo giuro, Vassilissa, io non amo che te, solo te!...»

«Ma dunque perché lo hai fatto? Perché non hai avuto pietà del nostro amore?»

«Vassilissa, io sono giovane. Sono rimasto solo per mesi. Queste donne indegne mi girano intorno. Io le odio... tutte, tutte!... Queste femmine, mi si appiccicano addosso».

Tendeva le braccia verso di lei, sulle guance gli colavano le lacrime, delle lacrime così grosse che si sgranavano sulle sue mani, delle lacrime così ardenti...

«Vassia! Bisogna che mi comprendi! Sì, che mi comprenda. Se no, è finita per me. Abbi pietà di me... La vita è talmente dura».

Il corpo di Vassia si piegò. Come in un'altra occasione, dopo le sedute del soviet, aveva impresso un bacio sulla testa di Vladimir, adesso, ancora una volta, sentì crescerle dentro la tenerezza per lui. Aveva pietà di lui, di lui che era così grande, ma che sembrava senza forza, come un bambino, e questo sopraffece il cuore di Vassilissa. Se nemmeno lei arrivava a capirlo, a compiangerlo un po', chi avrebbe potuto farlo? Anche senza di questo tanta gente gli si metteva sulla strada per lanciargli la pietra. E lei lo avrebbe abbandonato perché si sentiva ferita nel suo onore? E dire che aveva desiderato incassare al suo posto tutti i colpi che gli destinavano, attirandoli a sé, sfidando così il destino. Il suo amore per lei valeva in realtà ben poco, se lei era pronta a lasciarlo alla prima offesa.

Vassia sovrastava Vladimir, in silenzio. Accarezzava la testa di lui con una mano distratta. Non aveva pronunciato una parola. Bisognava trovare una soluzione.

Dei colpi scrollarono la porta. Provenivano dalla scalinata. Bussavano con insistenza e autorità. Chi poteva essere? Scambio di sguardi. Tutto si spiegava. Presto, una stretta, un bacio, un altro più forte. Poi dovettero attraversare il vestibolo. Le cose erano come le avevano immaginate.

L'inchiesta preliminare era chiusa. La decisione netta: Vladimir sarà arrestato. Vassia credette di veder girare il pavimento.

E dire che Vladimir era calmo. Finì di raccogliere i suoi effetti. Tutto era già stato spiegato a Vassia: la classificazione dei documenti, i nomi dei testimoni da convocare, il modo di ripartire le deposizioni...

Condussero via Vladimir.

Avrebbero potuto passare anni, ma Vassia non avrebbe mai dimenticato per tutta la vita quella notte.

Nulla fu più terribile nella sua vita.

Due tormenti laceravano l'anima di Vassilissa: la pena secolare, eterna, femminile, e l'abbattimento dell'amica-compagna, colpita dall'ingiuria fatta all'essere amato, isolato in mezzo all'odio degli uomini e della loro ingiustizia.

Vassia misurava a grandi passi la camera da letto, come una pazza. Non ci sarà mai più calma per lei.

Là davanti a lei, in questa stessa camera, in questo stesso letto, Vladimir aveva accarezzato, aveva dato la sua tenerezza a un'altra, a quella bella donna dalle labbra carnose e dal seno abbondante. Forse era quella che egli amava. Forse per pietà per Vassilissa non le aveva detto tutta la verità?...

Ora Vassilissa voleva saperla, la verità! Nient'altro che la verità! Perché proprio oggi Vladimir le era stato tolto, strappato? Perché? Oggi, se fosse stato là, avrebbe finito per sapere, non avrebbe potuto sfuggire alla domanda. Se fosse stato là, l'avrebbe preservata da questi pensieri oscuri. Avrebbe avuto pietà di lei...

Il suo cuore di donna era lacerato dal tormento e da un sentimento di offesa... Una vampata di odio si accese contro Vladimir. Come aveva potuto agire così. Se l'avesse veramente amata, non si sarebbe rivolto ad un'altra...

Ma se non la amava, che lo dicesse francamente! Che non la facesse languire, che non le mentisse...

Vassilissa misurava a grandi passi la stanza, in lungo e in largo. Non ci sarebbe stata più pace per lei.

Ma ecco che un altro sospetto si insinuò come un dardo nella sua anima... Se veramente il processo di Vladimir aveva una «base reale»? Se il suo arresto non era privo di fondamento? Se delle persone meschine l'avevano imbrogliato? Lui solo sarebbe stato responsabile della faccenda.

La pena di moglie fu dimenticata. La pseudo consorella dalle labbra rosse e carnose scomparve, anch'essa. Non le restò che un timore: quale sarebbe stata la sorte di Vladimir? Spavento gelato, angoscia mortale... Restava solo l'offesa fatta al suo onore, un'offesa lancinante, nauseabonda. Eccolo disonorato, detenuto senza pietà, e da compagni!

Che è dunque l'offesa fatta a lei, la sua «offesa di donna», a confronto di quella che è stata inflitta al suo amato, inflitta dai suoi stessi compagni? Ciò che le faceva male non era il fatto che egli avesse abbracciato un'altra, ma che non ci fosse rettitudine e giustizia nella rivoluzione.

Così scomparve ogni stanchezza, come se Vassilissa non avesse più corpo. Solo un'anima. Solo uno spirito che i pensieri laceravano con i loro artigli di ferro. C'era solo da attendere l'alba. Con l'alba venne una decisione: liberare a ogni costo Vladimir, non lasciarlo schiacciare sotto il peso dell'offesa; strapparlo alla presa degli invidiosi e dei calunniatori; provare al mondo intero che il suo marito-compagno era puro. Che era stato calunniato. A torto lo avevano disonorato e umiliato...

All'alba, un soldato dell'Armata rossa le portò una lettera firmata da Volodia: «Vassia, moglie mia, compagna tanto amata, il mio processo mi è diventato indifferente... Che importa che io perisca... Un solo pensiero mi rode, mi rende folle: non perderti, Vassia, senza di te io non voglio vivere. Sappilo bene. Se hai cessato di amarmi, non fare alcun passo in mio favore. Che mi fucilino pure!

Il tuo Volodia, solamente tuo».

Poi, nel margine, scritto di traverso: «Io amo solo te, credimi. E questo lo dirò anche davanti alla morte». In un altro angolo, ancora una piccola nota: «Io non ti ho mai fatto il minimo rimprovero riguardo il tuo passato, a tua volta sappimi comprendere, e perdonarmi, adesso. Sono tuo, corpo e anima. Volodia».

Vassia rilesse il biglietto, una volta e ancora una volta. Sentì la sofferenza diminuire nel suo spirito. Volodia aveva ragione: mai le aveva fatto il minimo rimprovero per il fatto che non era vergine quando si conobbero la prima volta.

Tutti gli uomini sono come lui! Che avrebbe potuto fare dato che quella donna aveva preso l'iniziativa di attaccarglisi al collo? Avrebbe dovuto davvero fare la parte di un monaco?

Rilesse ancora una volta il biglietto. Vi impresse un bacio. Lo piegò con cura e lo mise nella borsa. E ora al lavoro, si disse. Bisognava «liberare» Volodia.

Pratiche, corse folli, emozioni, scontri con la burocrazia, indifferenza delle persone. Perdere coraggio, perdere la speranza, e poi di nuovo riacquistare le forze, ritrovare il coraggio, e ricominciare la «battaglia». No, non avrebbe permesso all'ingiustizia di trionfare! Non permetterà che gli attaccabrighe e i delatori riportino la vittoria contro Volodia.

Ottenne un successo importante: il compagno Topor-kov prese in mano la faccenda. La riprese completamente in esame. Impose la sua decisione: chiudere il procedimento a causa del carattere puramente verbale delle accuse. Arrestare Sviridov e Maltcenko. Il giorno dopo già Vassia non potè lasciar più il suo letto: il tifo esantematico l'aveva atterrata. A sera non era più in grado di riconoscere nessuno, nemmeno Volodia che rientrava.

La malattia ritornava alla memoria di Vassia come un sogno soffocante. Una sera riprese coscienza.Concentrò

lo sguardo e comprese che era in una stanza. Ma non la riconosceva. Sul tavolo c'erano delle medicine, un'infermiera era seduta presso il suo letto, la testa nascosta sotto il velo, tarchiata, non molto giovane, un viso severo. Vassia la osservò. Questa presenza non le piacque; la vista del fazzoletto bianco la irritava... Ma non sapeva perché.

«Avete sete?» L'infermiera si piegò verso di lei, e le diede da bere. Vassia bevve e ricadde nella sua incoscienza. Nel dormiveglia le sembrava che Volodia stesse piegato su di lei e le sistemasse più comodamente il cuscino. Poi Vassia ricadde nell'incoscienza.

Si domandava se sognava, oppure se era in stato di veglia. Due ombre fecero irruzione nella stanza. No, non erano ombre, erano donne, oppure no... Luna era tutta bianca, l'altra grigia. Turbinavano, si intrecciavano. Danzavano o lottavano? Poi Vassia comprese che erano la vita e la morte che facevano irruzione in casa sua. Lottavano. Chi avrebbe trionfato?

Vassia aveva paura, tanta paura che voleva gridare, ma non aveva più voce... Era ancora più terribile. Il cuore le palpitava, si dibatteva, le sembrava che le si schiantasse. Toc, toc, toc, forse nella strada era cominciata una sparatoria.

Vassia aprì gli occhi. Un lume da notte scintillava, fumava un poco. Solitudine, notte. Bisognava tendere l'orecchio. Dei topi rovistavano come se cercassero qualcosa sotto il pavimento. Sempre più vicino. Allora, spaventata, Vassia credette che i topi da un momento all'altro si sarebbero intrufolati nel letto e avrebbero corso sul suo corpo... E lei non avrebbe avuto la forza per cacciarli...

Vassia si mise a piangere: chiese aiuto con una piccola voce sottile: «Volodia, Volodia, Volodia».

«Vassia, mia amata! Piccola mia, che hai?»

Preoccupato all'estremo, Volodia si piegò su di lei, la guardò in fondo agli occhi.

«Volodia, sei vivo davvero? Non è una visione?» Debolmente, Vassia si sforza di avvicinare la mano alla testa di Volodia.

«Ma sì, sono vivo, veramente vivo, amor mio, sono con te! Ma che hai da piangere? Che è successo al mio Vassiuk? Ha sognato? Ancora un delirio?»

Baciò con tenerezza le mani di lei, le accarezzò la testa rasata, ruvida a toccarsi.

«No, non era un sogno... C'erano dei topi che rosicchiavano...», disse questo con un'aria colpevole, con un piccolo debole sorriso.

«Oh! Davvero? Dei topi?». Volodia si mise a ridere.

«Com'è diventato coraggioso il mio Vassiuk... Ecco che ha paura dei topolini! Io l'avevo ben detto all'infermiera: non la si deve lasciar sola. Per fortuna che stavo proprio rientrando...»

Vassia gli vorrebbe domandare dove ha passato tutto quel tempo... Ma si sentiva talmente debole che non aveva la forza di dire una parola. Sentiva come una debolezza piacevole, come un languore. La cosa migliore era la presenza di Vladimir al suo fianco... Le sue dita deboli si attaccavano alla mano di lui, e non la lasciavano più.

«E dire che è vivo», sussurravano le sue labbra attraverso un sorriso.

«Ma certo che sono vivo», affermò Volodia ridendo.

Poi le baciò dolcemente la testa.

Vassia spalancò gli occhi.

«Ora, per questo, ho perduto la mia treccia. Me l'hanno tagliata».

«Non è niente. Non fartene una pena. In compenso, ecco che sei un vero ragazzo: un vero Vassiuk».

Vassia sorrise. Si sentiva bene, come se fosse ritornata all'infanzia. Volodia non la lasciava mai sola. Mentre lei sonnecchiava, lui restava vicino, seduto sulla sedia, montando la guardia al suo sonno.

«Dormi, dormi, Vassia. Non è proprio il caso di farmi gli occhiacci... Avrai tutto il tempo di contemplarmi quando sarai guarita. Ma se non dormi, ti riammalerai, e i medici, inoltre, si arrabbieranno e diranno che sono un cattivo infermiere...»

«Ma tu non te ne andrai?»

«Andar dove? E' qui, presso di te, che io passo tutte le mie notti. Mi sento tranquillo solo quando ti vedo. Durante il giorno devo andare al lavoro...»

«Come al lavoro?... Di nuovo al rifornimento?»

«Certo, è tutto sistemato. Quegli scellerati sono stati arrestati... Ma cerca di star zitta, Vassia. Dormi, sennò me ne vado».

Le sue deboli dita si attaccarono più fortemente alle mani che stringeva. Ma, ubbidiente, Vassia chiuse gli occhi.

Era dolce e meraviglioso addormentarsi quando Volodia era lì, vicino, lo sguardo preoccupato e tenero...

«Amato!»

«Dormi, ragazzo insopportabile e disobbediente».

«Sì, sì, dormo, solo che ti amo».

Volodia si piegò ancora, delicatamente, teneramente, lungamente: copriva di baci i suoi occhi chiusi...

Vassia avrebbe voluto allora singhiozzare di felicità. Morire subito! Mai più, nella vita, si sarebbe sentita così felice.

Vassilissa evocò più tardi i pensieri che l'animavano in quest'epoca. Si sentiva spaventata: allora era vero, non ci sarebbe stato un momento migliore? Il suo cuore aveva ragione quando le prediceva in quel tempo che mai avrebbe ritrovato simile felicità?

Tuttavia, adesso, non si sarebbe rinnovata una gioia simile, non avrebbe ritrovato una pari felicità? Andava da lui, dal suo amore. Lui l'aveva chiamata, l'attendeva. Le aveva mandato un compagno che avrebbe affrettato la sua venuta. Le aveva fatto avere il denaro necessario per il viaggio e il vestito. Dunque la ama. Perché dunque non avrebbe dovuto essere felice? Vassia voleva crederci, ma nel fondo del cuore un dubbio la rodeva come un piccolo verme. Non poteva arrivare a crederci. Che sarebbe successo? Che cosa era cambiato?

Vassia era di nuovo diventata pensierosa. Si ricordava... Quella volta s'erano separati in un modo inatteso: il fronte aveva ripiegato. Vladimir partì, mentre Vassia era ancora debole. Riusciva appena a trascinarsi. Quando si separarono erano in buoni rapporti. Non ricordarono nemmeno più il nome della sedicente «infermiera». Vassia aveva compreso che quella donna non aveva nessuna importanza per Volodia, che non contava più di un bicchiere di vodka, «dimenticato appena bevuto»...

Vassia rientrò a casa e si mise subito al lavoro. In quell'epoca le sembrava che tutto sarebbe stato di nuovo come prima. Tutto sarebbe andato bene. Ora, al presente, le tornò alla memoria che già qualcosa le pesava sul cuore. Da qualche parte, molto in fondo, si sentiva ferita dall'atteggiamento di Volodia, forse a causa dell'infermiera dalle labbra carnose, e divenne diffidente... Vassia amava moltissimo Volodia. Avevano condiviso le preoccupazioni, e poi la malattia. Tutto ciò li aveva uniti strettamente l’uno all'altra. Prima essi «facevano l'amore», ma non si poteva dire che fossero realmente «vicini». Ora che avevano sofferto insieme, si sentivano molto più vicini l'uno all'altra... Ma già l'amore non portava più a Vassia la gioia radiosa che assomiglia a un'alba di primavera. Sì, l'amore si oscurava come velato da nubi. In compenso, guadagnava in profondità e solidità.

D'altronde, era possibile pensare all’amore, pensare alla gioia in quel momento? In primo luogo, c'erano i fronti, la dispersione, poi i complotti... la mobilitazione "dei comunisti. Da tutte le parti arrivavano minacce. Ognuno aveva lavoro fin sopra i capelli. Vassia aveva a che fare con i rifugiati... Dovette entrare nel dipartimento dell'alloggiamento che dipendeva dal soviet. Fu proprio allora che nacque in lei l'idea di creare una «casa comune». Avevano affidato la faccenda alla sua «iniziativa», con l'aiuto di Stepan Alexievic... Quest'ultimo la sostenne quanto potè con consigli, con aiuti finanziari. Vassia si sprofondò interamente nel suo lavoro.

Condusse questo genere di vita per alcuni mesi. Certo è che continuava a pensare a Volodia, che lo portava sempre nel suo cuore. Ma non aveva il tempo di annoiarsi della sua assenza. D'altronde, anche lui era in piena attività e, a quanto sembrava, non aveva scontri. Non faceva il superbo, viveva in pace con gli uomini del vertice e i capi delle principali direzioni, i famosi glavki.

Vladimir improvvisamente arrivò alla mansarda di Vassia, senza esser né invitato né aspettato. Mentre le truppe battevano in ritirata, era capitato in mezzo a una sparatoria ed era stato ferito, in modo non grave. Aveva necessità, nondimeno, di una pausa. Si vide accordare un congedo. Così se ne andò a casa di sua moglie per «rimpolparsi».

Vassia ne fu contentissima. Ma, tuttavia, le passò un'idea per la testa: perché arrivava proprio adesso? Se solo avesse potuto essere due mesi prima o due mesi più tardi. Mentre proprio nel momento in cui Vassia ha delle preoccupazioni, degli affari da seguire, a bizzeffe!... Un congresso, la riorganizzazione del dipartimento alloggi, la lotta per la comune; in una parola, affari a non finire!

Anche se non ci fosse stato che il tran tran quotidiano, si sarebbero dovuti mettere in stanze separate. E ora, ecco che Volodia arrivava. Per di più ferito. Avrebbe avuto bisogno di cure... Che fare?

Le preoccupazioni velavano la gioia di Vassia.

Vladimir, invece, era felice come un ragazzo.

Le portò gli stivali, precisamente quelli che le aveva promesso il primo giorno che era andata da lui.

«Allora, vediamo un po', Vassia, provateli. Come si sentiranno i tuoi piedini nelle loro nuove calzature?»

Proprio nel momento in cui Vassilissa non aveva il minimo istante libero. Doveva innanzitutto tenere una riunione del dipartimento alloggi. Era impossibile fare nello stesso tempo la malinconica con Vladimir.

Provò dunque gli stivali. Fu come se si vedesse i piedi per la prima volta.

Contemplò Volodia con uno sguardo felice senza riuscire a ringraziarlo.

«Ti avrei portato in braccio, mia piccola Vassia, ma con questa mano ferita non posso. Come amo i tuoi piedini. E anche i tuoi occhi castani».

Vladimir era pieno di vitalità e di gioia. Raccontava e scherzava, raggiante.

Vassia doveva invece assistere alla riunione prevista da molto tempo, e ascoltava suo marito solo a metà. Fissava con lo sguardo la piccola sveglia che stava sul comò accanto a un minuscolo specchio. Gli istanti fuggivano gli uni dietro agli altri. La stavano aspettando alla riunione. Erano arrabbiati. Perché faceva perder tempo alle persone? Non si addice a un presidente essere talmente in ritardo!...

Vassilissa rientrò in casa solo a sera, stanchissima, perché aveva avuto molte contrarietà. Era preoccupata. Salendo le scale fino alla mansarda, diceva a se stessa: è bello che Volodia sia qua. Posso condividere con lui le mie preoccupazioni. Mi può aiutare.

Entrò. Volodia non c'era. Dove poteva essere andato? Il suo berretto era appeso al solito posto, al di sopra del mantello.

Probabilmente s'era assentato solo per un istante. Vassia rimise un po' in ordine la stanza. Mise la teiera sul fornello a petrolio. E Volodia non arrivava.

Dove s'era dunque andato a ficcare? Vassia uscì nel corridoio. Non era là. Si sedette per riposare un momento e attese. Si sentiva inquieta. Dove poteva essere andato a cacciarsi?

Era appena riuscita nel corridoio che anche Vladimir uscì dall'appartamento dei Fedossiev. Ridevano insieme e si salutavano da veri amici. Perché Volodia era andato da loro? Sapeva come regolarsi con loro?

«Ah! Eccoti infine rientrata, Vassia! Per tutto questo tempo, sono stato in gabbia, ero sul punto di impiccarmi per la noia. Sono restato qua, tutto solo, per tutta la giornata, e sono felice di avere incontrato il compagno Fedossiev nel corridoio... e che mi abbia portato a casa sua».

«Non bisogna frequentarli, Volodia... Sai bene, per tua esperienza, che cosa sono gli intriganti...»

«Allora, se ti ascoltassi, non avrei da far altro che lasciarmi morire di malinconia, solo nella tua gabbia? Non hai da far altro che star con me per tutta la giornata. Allora non salirò dai Fedossiev».

«Sì, il fatto è che ho da seguire i miei affari. Sarei ben contenta di poter rientrare più presto a casa. Ma non c'è niente da fare!...»

«Ah, sì, i tuoi affari! E allora, Vassia, com'è che quando tu eri malata di tifo io passavo tutte le notti ai tuoi piedi? D'altronde, anche di giorno trovavo qualche ritaglio di tempo per vegliarti. Perché, alla fine, Vassia, io sono venuto a casa tua ferito. Nemmeno la febbre mi si è ancora abbassata...»

Vassia sentì un rimprovero nella sua voce. Vladimir era seccato a causa della sua assenza di tutta la giornata. Ma come fare diversamente? Il dipartimento alloggi era in piena riorganizzazione. Si era sul punto di aprire il congresso...

«Mi sembra, Vassia, che non sei contenta di vedermi. Non credevo di ritrovarti così!...»

«Via, che stai dicendo? Come, non sarei contenta? Ma per me, mio caro, tu sei il bene più prezioso. Tu sei il mio sposo per tutta la vita...»

Si lanciò per stringerlo e fece versare il fornello.

«Questo mi piace di più. Ero sul punto di domandarmi se non avevi cessato di amarmi. O se non amassi un altro. Sei talmente fredda, indifferente. Mi guardi come un'estranea. Non c'è più affetto nel tuo sguardo».

«Volodia, io sono stanca... Non ho la forza di dominare tutto».

«Tu sei il mio uragano instancabile», rispose Vladimir stringendosi addosso Vassilissa e baciandola...

E' così che cominciarono a coabitare nella «capanna-mansarda».

All'inizio, poteva passare, anche se era penoso per Vassia dividersi tra il suo lavoro e il marito. Ma c'era della gioia in tutto questo, malgrado tutto. C'era qualcuno con cui poter chiacchierare, da cui ricevere un consiglio, renderlo partecipe di un insuccesso, con cui ritrovarsi su dei nuovi progetti.

Solo la «marcia della casa» costituiva un ostacolo più grande. Vladimir aveva preso al fronte l'abitudine di «alimentarsi abbondantemente». Che cosa poteva introdurre Vassia nella sua famosa «economia»? Il pranzo alla soviet con tè zuccherato parsimoniosamente con caramelle alla saccarina. Per i primi giorni fu possibile sostentarsi grazie ai rifornimenti portati da Vladimir.

«Ho sgraffignato qualche provvista, un po' di farina, zucchero, salsicciotti... So che tu vivi come un passero sotto un tetto e che non hai nemmeno un granellino di riserva».

Ma quando furono esauriti i viveri portati da Volodia, bisognò ben tornare ai menu alla «soviet». Questo non piaceva affatto a Volodia. Aggrottava la fronte.

«Perché mi rimpinzi di miglio e di nient'altro che di miglio? Mi prendi per un gallo?»

«Ma non si può trovare nient'altro. Io sopravvivo grazie alle razioni ufficiali...»

«Andiamo, come? non si può trovar niente? I Fedossiev non sono più ricchi di te. Eppure ieri mi hanno offerto un vero banchetto. Patate fritte, aringhe con le cipolle...»

«Sì, ma la Fedossiev ha tutto il tempo necessario da dedicare alla casa... Mentre io, lo vedi tu stesso, io consumo le mie ultime forze per arrivare a terminare il mio lavoro».

«Tu ti incarichi di troppe cose. E allora ecco a che si arriva. Che bisogno avevi di prender su di te tutto quest'imbroglio della comune? E' appunto quello che dicono i Fedossiev...»

«So bene quel che dicono i Fedossiev», gridò Vassia piena di collera. Si sentiva offesa dal fatto che Vladimir si univa a loro, ai suoi "nemici".

«Il fatto che tu presti ascolto alle loro chiacchiere e che inoltre ti metti con loro per criticare il mio lavoro, questo, vedi, non è davvero un agire da compagno».

Disputarono violentemente. Diedero entrambi in escandescenze. Più tardi, se ne pentirono e si biasimarono. Si riconciliarono. Ma Vassia soffriva all'idea di curar male il suo uomo. Era venuto ferito a casa sua, e lei lo nutriva con pasti «alla soviet». Lui faceva molta più attenzione di lei al suo genere di vita. Appunto lui le aveva portato i famosi stivali. Vassia si tormentava perché Volodia non mangiava. Piluccava una o due cucchiaiate, poi respingeva il piatto.

«Preferisco aver fame che rimpinzarmi della tua risciacquatura sovietica. Prepara un po' di tè e fatti prestare un po' di pane da qualcuno. Quando sarò al fronte, riuscirò bene a mandarti un po' di farina. La potrai restituire ai vicini che te l'avranno prestata».

Non poteva più continuare così. Bisognava inventare qualcosa. Le capitò pure di arrivare a una riunione a passo di corsa. Per tutto il tempo, nella sua testa, la risoluzione da sottoporre all'assemblea si confondeva con la zuppa di miglio che doveva preparare... «Che potrei servire a Volodia?»

Se solo avesse potuto disporre di un po' di tempo, avrebbe potuto inventare, immaginare qualcosa, di sicuro.

Un giorno incontrò sua cugina. Vassilissa fu tutta contenta. Aveva proprio bisogno di vederla. La cugina aveva una figlia, una ragazzetta sveglia e vivace che aveva appena terminato gli studi alla scuola tecnica. Attualmente abitava in casa di parenti, senza lavorare, aiutando sua madre nelle cure casalinghe. Si chiamava Stiosa.

Venne rapidamente concluso un accordo con la cugina. Stiosa sarebbe venuta durante il giorno, si sarebbe presa cura della casa; in cambio, Vassilissa avrebbe diviso con la cugina la sua razione di rifornimenti. Si misero d'accordo. Vassilissa potè andare alla riunione, in fretta, un po' rassicurata. Dall'indomani Vladimir sarebbe stato nutrito in modo conveniente.

Si trovò che Stiosa aveva giudizio. S'intendeva bene con Volodia. Insieme organizzarono tutta un'economia. Scambiarono una parte dei viveri della razione. Volodia si procurava alcuni prodotti alla cooperativa grazie alle relazioni che vi si era fatto... Vassia era soddisfatta. Volodia non si lamentava più del cibo. Ma faceva dei rimproveri a Vassia: «Tu hai delle attenzioni per tutti, ma io è come se non esistessi». Vassia ne soffriva. Si era sempre sentita divisa tra la causa e Volodia. E lui era venuto in un periodo così movimentato!... Lo spiegò a Vladimir. Lui si accigliava e fingeva di non capire.

«Sei diventata frigida, Vassia. Hai perfino disimparato a baciare...»

«E' che mi stanco enormemente, Volodia, non ho più forza», diceva con un'aria colpevole.

Volodia continuava ad aggrottare la fronte.

Ma Vassia capiva da sola che non andava bene, così: suo marito era appena arrivato per visitarla, ma lei, fin dal mattino, scompariva per andare alle sue occupazioni. La sera, quando rientrava, aveva le gambe sfinite. Pur di andare a dormire, non pensava nemmeno agli abbracci!

Un giorno avvenne una cosa di cattivo augurio. Volodia l'accarezzava e lei si addormentò sul letto così come si era coricata...

L'indomani mattina Volodia la punzecchiava e si burlava di lei: c'era un certo piacere a carezzare un corpo morto. Scherzava, ma si vedeva bene che era furioso. E lei si sentiva a disagio, con un senso di colpa nei suoi confronti. Poteva in effetti cominciare a pensare che lei non lo amasse molto. Ma da dove poteva prender la forza?...

Una volta Vassia ritornò più presto del solito. Vladimir stava cucinandosi da solo il pasto.

«Che succede? Dov'è Stiosa?»

«La tua Stiosa è risultata essere una "bella porcheria".

L'ho cacciata. Se osa ancora farsi veder qui, la butterò giù dal quarto piano».

«Ma che è successo? Che ha fatto, dunque?»

«Andiamo, credimi, quella ragazzetta non è proprio un bel tipo... Non l'avrei cacciata se non l'avesse meritato. Quanto a raccontartelo, sarebbe mettere anche te di cattivo umore. E' una creatura vile e viziosa! E non voglio sentir più qui il suo odore!»

Vassia vede che Stiosa ha veramente disgustato Vladimir. Decise di non far più domande. Pensava: «La ragazzetta probabilmente ha rubato qualcosa. Questo, adesso, succede spesso. Vladimir tiene molto alle sue cose. Ha uno spirito di "proprietario", benché sia gentile e sempre pronto a dividere con i compagni. Ma che qualcuno gli prenda qualcosa senza chiedergliela, e non glielo perdonerà».

«Ma allora come andrà avanti la nostra casa?»

«Che vada al diavolo la casa! Andrò a mangiare nelle osterie. D'altronde ho ritrovato qualche compagno... Soprawiverò».

Stiosa venne a trovare Vassilissa nel dipartimento alloggi. Venne a chiedere la sua razione di viveri.

«Che è successo dunque con Vlàdimir Ivanovic, dimmi, Stiosa? Che gli hai fatto?»

«Ma io non ho fatto niente», affermò Stiosa. Un lampo passò nei suoi occhi. Raddrizzò il pettine che teneva nei capelli. «Ma il tuo Vladimir Ivanovic si appiccicava in un modo tale che gli ho dato un buon pugno sul muso... Ha sputato sangue per parecchio tempo. Non ci proverà un'altra volta».

«Tu dici delle sciocchezze, Stiosa. Vladimir Ivanovic probabilmente voleva scherzare con te».

Vassia si sforzava di parlare con calma. Ma sentiva che le tenebre le scendevano sugli occhi.

«All'anima dello scherzo! Mi aveva già rovesciato sul letto... Per fortuna sono robusta... A me non mi si prende con la forza!»

Vassia cercò di convincere Stiosa del contrario. Voleva dimostrare che tutto questo non era in fondo che uno scherzo. Vladimir Ivanovic era adesso furioso con lei.

Stiosa si limitò ad arricciare il naso con ostinazione. In fin dei conti, tutto questo non la riguardava. Ma non avrebbe rimesso più piede in casa loro. Tanto peggio per la razione!

Il cuore di Vassia affondò nelle tenebre più profonde. Ma non la minima critica nei confronti di Volodia. «Sono io la colpevole. Perché sono diventata frigida? Forse ho fatto torto al mio amato e lui crede che ho cessato di amarlo. Ma resta una cosa un po' squallida: come ha osato toccare una ragazzetta? Perché, infine, Stiosa è ancora quasi una bambina!... Per fortuna è sveglia. E conosce la vita! Altrimenti, che avrebbe potuto accadere?...» E' come un verme che continua a rodere il cuore di Vassia. Non sapeva bene che fare. Bisognava o no dire a Vladimir: io so tutto, oppure era meglio conservare il silenzio? In tutto questo c'è anche un po' di colpa sua. Ma Vassia non ebbe bisogno di parlare a Vladimir.

Cominciò un nuovo periodo. Vladimir ritrovò dei vecchi compagni, impiegati di commercio, ma anche membri della cooperativa. Scompariva per giorni interi, e con Vassia non si vedevano, per così dire, mai più. Al mattino lei andava al dipartimento alloggi, o al comitato, mentre Volodia dormiva profondamente. Ma se passava di corsa, durante la giornata, per vedere Volodia, non lo trovava mai. E quando rientrava, alla sera, la sua piccola mansarda era vuota...

Vassia era piena di stizza, e non sapeva che fare: coricarsi e dormire, o attendere per servire il tè. Si riscaldava la cena sul fornello e si metteva a esaminare le carte di cui aveva bisogno per l'indomani. Tendeva l'orecchio per sentire i passi risuonare nel corridoio. Non era Vladimir... Spegneva allora il fornello (bisognava fare economia) e riprendeva le carte. Rivedeva i rapporti che doveva presentare. Sceglieva le domande da fare...

Qualcuno saliva le scale quattro a quattro... Sarà lui? No. Non era Vladimir...

Vassia si metteva a letto sola. La stanchezza l'aiutava ad addormentarsi rapidamente. Ma anche nel sonno continuava ad aspettarlo. Non sarebbe rientrato?... Come si sentiva triste senza di lui, come faceva freddo!

Capitava che rientrasse di buon umore, allegro. Svegliava Vassia, l'accarezzava, traboccando di racconti, di novità che voleva dirle... La metteva a parte di ogni sorta di progetti.

Vassilissa allora si sentiva meglio, si sentiva leggera; cresceva la gioia, la tristezza svaniva.

Ma capitava pure che rientrasse un po' ebbro. Allora era oscuro, penoso. I suoi occhi assomigliavano a quelli di un ubriaco... Si faceva dei rimproveri, ma ne rivolgeva anche a Vassia: era vita, questa? Sempre in questa gabbia, sotto il tetto!... Né gioia, né piacere, e, oltre a tutto, non siamo nemmeno sposati! E non abbiamo figli.

E' uno dei grandi dolori di Vassia. Non pensava molto ad avere un figlio per sé, ma avrebbe voluto procurare questa gioia a Vladimir. Che strano! Non riusciva a rimanere incinta. Le altre si lamentavano, non sapevano come preservarsi dalla maternità, mentre Vassia, evidentemente, non aveva questo problema.

«E' l'anemia», diceva il dottore.

Vladimir un giorno decise di distrarre Vassia e di portarla al teatro. Si procurò due biglietti.

Vassia rientrò a casa all'ora fissata; Vladimir si agghindava davanti allo specchio. Era talmente elegante che di nuovo assomigliava a un «signore». Vassia rideva, lo stuzzicava, era contenta che suo marito fosse bello!

«Ma tu, che ti metterai», disse preoccupato. «Non hai veramente un vestito per le feste?»

Vassia rideva. Come pensare a un vestito da festa? Andava bene per l'America pensare ad abbigliarsi con eleganza, a procurarsi altri abiti oltre quelli di tutti i giorni! Si sarebbe messa una camicetta pulita, gli stivali nuovi che le aveva portato Vladimir, ed ecco tutta la sua toilette...

Vladimir si accigliò e guardò Vassia con occhi così furiosi che lei ne fu spaventata.

«Tu pensi che al teatro ti guarderanno solo i piedi... e quello che sta sopra si deve metterlo in un sacco di patate».

«Io non capisco, Vassia, perché ti irriti così».

«C'è di che diventar furiosi, con voi statalisti... Avete organizzato una vita da convento, o da prigione. Non ci si trova né piacere, né vestiti convenienti, né vere case... Bisogna vivere in gabbia, bere acqua, inghiottire brodaglia, presentarsi dappertutto con degli stracci addosso... In America, anche in tempi di disoccupazione, io vivevo meglio che qui...»

«Ma tu lo sai bene, non si può ottenere tutto subito! Lo sai bene, il paese è devastato!»

«Ah, ne ho abbastanza delle tue idee di devastazioni... Siete degli organizzatori da quattro soldi! Per demolire, siete davvero bravi, ma quando si tratta di cominciare a riparare, vi mettete a gridare dappertutto che uno vuole diventare un borghese. Non sapete vivere! E' per questo che tutto si disgrega... Non è per condurre una simile vita che io ho fatto la rivoluzione».

«E' per noi che abbiamo fatto la rivoluzione?»

«E per chi allora?»

«Per tutti».

«Anche per i borghesi?»

«Perché dici sciocchezze? Ma non per i borghesi. Per gli operai, i proletari».

«Ma allora, a tuo avviso, che siamo noi? Noi non siamo operai, proletari?»

Discussero così a lungo che arrivarono in ritardo al teatro.

Camminavano nella strada, sguazzavano nel fango del disgelo. Vladimir camminava avanti, a gran passi, e taceva. Vassilissa faticava molto a stargli dietro.

«Ma mio piccolo Volodia, non camminare così svelto, sono tutta affannata».

Egli si fermò furioso e l'aspettò. Camminò lentamente, ma sempre in silenzio.

Al teatro, Vladimir incontrò dei conoscenti, e passarono insieme tutti gli intervalli. Vassia restò seduta sola. Questa andata al teatro non le procurava alcuna gioia. Perché aveva sciupato così quella serata? L'indomani avrebbe avuto lavoro doppio.

Il congresso cominciò poco tempo prima della partenza di Vladimir. Benché non fosse delegato, assistette al congresso. Avevano luogo discussioni, si formavano dei «gruppi». Vladimir andava tutti i giorni a quelle riunioni con Vassia. E si impegnò a fondo per entrare in un «gruppo». Non pensava più a vedere i suoi amici. Vassia e Vladimir erano ora inseparabili. Insieme andavano al congresso e ne ritornavano. A casa, riflettevano sugli interventi da fare, li discutevano. Nella camera di Vassia c'era sempre una folla: tutti membri del «gruppo». Preparavano delle risoluzioni. Fu portata una macchina da scrivere, e Vladimir fece da dattilografo. Lavoravano con un ardore e un sentimento d'amicizia poco comuni. Tutti sentivano la loro coesione e ne erano commossi. Discutevano con durezza, ma capitava loro anche di ridere, come ragazzi, senza una ragione speciale. Era un vero piacere lottare così. Ora si trascinavano a vicenda. Stepan Alexievic si era unito a loro. Se ne stava là, accarezzandosi la barba canuta, quasi una barba da mercante, e guardava questa gioventù con un occhio affettuoso. Vassilissa gli sussurrava sempre delle cose all'orecchio e lui l'apprezzava: «Non se ne vedono molte di testoline come questa» diceva. Ma sembrava più riservato nei confronti di Vladimir. Vassia lo notò e ne fu rattristata. Perché? Vladimir, a sua volta, non trovò particolari qualità in Stepan.

«E' veramente troppo bigotto, il tuo Stepan Alexievic. Si potrebbe quasi credere che puzza d'incenso. Non è un comunista fatto per la lotta. E' buono per il lavoro clandestino, ma per nient'altro». Il «gruppo» di Vassia fallì nel suo compito, ma raccolse più voti di quanto si aspettassero. Era l'inizio di una vittoria!

Verso la fine del congresso, arrivò il giorno della partenza di Vladimir. Di nuovo Vassia si sentiva divisa: bisognava equipaggiare il marito per il viaggio che doveva fare, e il congresso non era finito...

Nondimeno, nello spirito di Vassia, non tutto era oscuro, sentiva che suo marito non era semplicemente un marito, ma un «compagno». Era fiera di lui. Aveva aiutato molto il «gruppo». Alcuni compagni speravano che non partisse.

«Allora, mio piccolo Vassiuk, addio... Ecco che il mio passerotto resta solo sotto il suo tetto... Non troverà più nessuno per farsi consolare... dei suoi smacchi. In compenso, nessuno lo intralcerà più nel suo lavoro!»

«Ma tu non mi hai mai intralciato nel mio lavoro», e Vassia lo stringeva con. tenerezza, con tutto il corpo.

«L'hai detto tu stessa che tuo marito prendeva tutto il tuo tempo. Ti lamentavi di dover fare tutte le faccende di casa...»

«Non parlarne più! La mia vita è talmente meno bella quando non ci sei», e gli nascose la testa nel petto.

«Tu non sei per me solo un marito, sei un compagno. E' per questo che ti amo tanto».

Si dissero addio con tenerezza e in completa amicizia. Ma come ebbe accompagnato Vladimir, Vassia ritornò a tutta velocità al congresso. All'improvviso la prese un pensiero: non si viveva poi così bene in due; da sola era più libera. Finché c'era l'uomo che amava, pensava per due. E non faceva più niente. Invece adesso poteva dedicarsi completamente al lavoro, e poi al riposo. Quando c'era suo marito, non poteva dormire completamente.

«Avete accompagnato vostro marito?» le domandò al congresso Stepan Alexievic.

«Sì, Vladimir è partito».

«E' meglio così. Eravate completamente perduta quando c'era lui».

Vassia si stupì: come faceva Stepan Alexievic a saperlo.

Tacque. Non voleva dir niente, perché avrebbe fatta torto a suo marito.

L'alba era appena spuntata che già Vassilissa era in piedi. Il treno partiva presto, la mattina. Bisognava trovare il tempo di metter tutto in ordine, di vestirsi in modo conveniente per piacere a Volodia, suo marito. Erano separati da sette mesi, Vassilissa aveva l'anima piena di gioia, come in primavera. Tutto era chiaro, raggiante.

La moglie del «nepman», sua vicina di scompartimento, stava ancora distesa sulla cuccetta, supina; si esaminava il viso in uno specchietto tascabile. Quanto a Vassia, si era già lavata. Si era pettinata i capelli arricciati con cura e portava il vestito nuovo che Grusa le aveva fatto. Vassilissa certe volte si guardava anche lei nello specchio del vagone, e non vedeva che i suoi occhi, ma i suoi occhi avevano una tale luce che tutta la sua figura diventava più bella.

Tutto era in ordine, pareva. Questa volta Volodia non le avrebbe rimproverato di portare solo «stracci».

Arrivarono a una biforcazione. Vassilissa guardò dal finestrino. Erano proprio le prime luci dell'alba, ma già il sole cominciava a spuntare. Nel nord la primavera era appena arrivata, mentre qui tutto era in piena fioritura. Anche gli alberi erano diversi, particolari. Le foglie sembravano quelle del sorbo, ma fatte di una materia più tenera. Erano tutti coperti di racemi bianchi che ricordavano i lillà. L'odore che se ne sprigionava entrava attraverso il finestrino. Era un odore dolciastro, smorto.

«Qual è il nome di quest'albero?» domandò Vassia al controllore del vagone. «Da noi non ce ne sono così».

«Sono acacie bianche».

«Acacie bianche! Come sono belle!»

Il controllore ne tagliò qualche ramo e li diede a Vassia. Che forte sentore ne emanava! Vassia si sentì l'anima così gioiosa che avrebbe voluto piangere... Tutto ciò che la circondava era veramente appassionante, bello. E poi, la cosa principale... la cosa principale era che tra un'ora avrebbe visto Volodia, il suo caro e tenero Volodia.

«Arriveremo presto?» insistette Vassia con il controllore. Le sembrava che il treno non si muovesse. S'era impantanato in qualche biforcazione, ansimava, ma non si muoveva. Eccolo di nuovo in viaggio. Già cominciava a prender forma la città. La cattedrale, le caserme, uno dei quartieri... la scalinata della ferrovia. Dov'era Volodia? Dove era? Vassia lo aspettava vicino al finestrino socchiuso. Volodia balzò nel vagone dall'altra estremità e l'abbracciò.

«Allora, Volodia, attento, hai fatto paura». E si baciarono.

«Dammi i tuoi bagagli. Ecco, presentatevi. E' il nostro segretario, Ivan Ivanovic. Prendete dunque tutti i bagagli mentre noi andiamo alla vettura. Vedi, Vassia, ora ho a mia disposizione due cavalli, possiedo una vacca e dispongo di un'automobile. Vorrei pure mettermi ad allevare dei porcellini. Abbiamo molto spazio, qui. E' una vera tenuta. Lo vedrai tu stessa. Vivrai come la moglie di un signore. La nostra produzione comincia ad andar bene. Abbiamo ultimamente riaperto la nostra filiale a Mosca. Vladimir si mise a raccontare tutto. Aveva fretta di comunicare a Vassia tutto ciò che costituiva la sua vita al presente, ciò che animava i suoi pensieri. Installata comodamente nella vettura, Vassia ascoltava. Benché le interessasse conoscere il modo di vita di Volodia, voleva prima parlare di sé, e sentirgli dire come viveva senza di lei, se s'era annoiato, se aveva atteso molto la sua venuta.

La casa si avvicinava. Era una casa padronale con un giardino. Un fattorino, un giovane adolescente, con un berretto a galloni, montava la guardia presso il portone. Li aiutò a scendere dalla vettura.

«Si vedrà, Vassia, se ti trovi bene nella nostra casa. Sarà meglio del tuo sgabuzzino sotto i tetti».

La scala era ricoperta da un tappeto, c'era uno specchio, poi anche un'anticamera.

Vassia si tolse il cappello, si sbarazzò del suo cappotto.

Entrarono nelle stanze di ricevimento... Canapé, ancora tappeti,.. Nella sala da pranzo si drizzava un grande orologio. I quadri avevano cornici dorate. Rappresentavano frutta, cacciagione appesa a un chiodo.

«Allora, ti piace?»

«Sì, mi piace», rispose Vassia, con un tono poco convinto, e lanciando intorno uno sguardo. In effetti, non sapeva se corrispondeva ai suoi gusti. Tutto qui le sembrava talmente «straniero», bizzarro.

«Bene, ora, ecco la nostra camera da letto».

Vladimir aprì la porta. Due finestre della camera da letto davano sul giardino. Piacque immediatamente a Vassia.

«Ci sono degli alberi», disse rapita. «Sono acacie bianche».

Balzò verso la finestra.

«Guarda prima la stanza. Avrai tempo di correre per il giardino. Ti va? Ho scelto tutto io stesso. Ti ho attesa dal primo momento che ho messo piede in questa casa».

«Grazie, amor mio...» Vassia si mise sulla punta dei piedi per baciare Volodia. E lui la fece girare tenendola per le spalle verso il grande specchio dell'armadio.

«Vedi com'è pratico potersi vedere interi in questo specchio, quando ti abbiglierai. Nell'interno ci sono ripiani per metterci ogni tipo di biancheria femminile, di cappelli, ogni sorta di vestiti».

«Come se ne avessi, di cappelli e vestiti! Ti sei trovato una buffa "dama"...»

Vassia rideva. Volodia seguiva il suo pensiero: «Guarda un po', ammira il letto. La coperta è di seta, tutta zigrinata. I Io fatto fatica a trovarla. Sono cose che ci appartengono in proprio, non fanno parte dell'inventario del mobilio. Di notte si può accendere una lampada rosa...»

Vladimir conduceva Vassia dappertutto. Le mostrava i minimi angolini. E mentre guidava Vassia nella visita, era esaltato di gioia come un bambino. Il nido che aveva preparato per sua moglie era comodo, non era vero? Vassia ascoltava, sorrideva alla sua gioia, a lui, ma dentro di sé non si sentiva molto a suo agio.

Non c'era che dire, era una bella camera, una camera da signore! Tappeti, tende, specchi... Ma questa camera, non sapeva perché, era estranea. Si sarebbe detto che fosse entrata in un appartamento che non le apparteneva. Non era la stanza che Vassia avrebbe desiderato. Non c'era nemmeno un tavolino sul quale potesse posare i suoi libri e le sue carte... La sola cosa che piaceva a Vassia, che le piaceva realmente, erano le due finestre che davano sul giardino e da cui si potevano contemplare le acacie bianche.

«Preparati, lavati, e poi andremo a pranzo», disse Vladimir, e se ne andò verso la finestra per abbassare gli avvolgibili.

«Perché li abbassi?» disse Vassia arrestando il suo gesto. «E' così bello guardare nel giardino».

«Non si può, durante la giornata bisogna abbassare le tende, altrimenti le tappezzerie perdono il colore».

Le tende grigie si abbassarono come palpebre pesanti velando la verdura del giardino che tuttavia si indovinava dalla finestra. Allora la stanza divenne grigia, noiosa e ancora più estranea... Vassia si lavò le mani, davanti allo specchio. Si rimise in ordine i boccoli.

«Allora, che hai fatto della stoffa che ti ho mandato? Te ne sei fatta fare un vestito?»

«Ma sì, è con questa stoffa...»

Vassia si aspettava dei complimenti. Guardava Volodia interrogandolo mentalmente.

«Lasciati guardare» e Volodia fece roteare Vassia su se stessa. Vide dal suo viso che il vestito non gli piaceva.

«Come hai potuto pensare a farti mettere un busto del genere? Tu hai una silouette stretta, adattissima per i vestiti alla moda. Perché dunque hai immaginato una simile bruttura?»

Vassia se ne stava lì, sperduta, rossa in viso. Batteva gli occhi con un'aria colpevole.

«Come, una bruttura? Grusa mi ha detto che la moda attuale è così».

«Che può capire la tua Grusa! E' stata solo buona a sciupare la stoffa. Ora sembri la moglie di un pope. Ti sta meglio il tuo vestito blu».

Senza badare alla figura malinconica di Vassia, Volodia andò verso la sala da pranzo per sollecitare la preparazione del pranzo.

Vassia si tolse con furore l'opera di Grusa e si affrettò a mettersi la sua solita gonna e la blusa.

Non si sentiva a suo agio, e delle lacrime scivolarono sulla blusa lavata di fresco. Si fermarono ben presto e un lampo malvagio passò negli occhi di Vassia.

Durante il pranzo si era serviti dalla domestica del direttore. Si chiamava Maria Semionovna; era una donna un po' corpulenta, d'età media, piena di dignità.

Vassia la salutò stringendole la mano.

«E' inutile», le disse Vladimir, quando Maria Semionovna uscì dalla sala da pranzo. «Devi comportarti verso di lei come una "padrona", altrimenti ti vedrai subissare di richieste».

Vassia guardò suo marito con stupore.

«Ah, veramente, questo non lo capisco proprio».

Vladimir cercava di far mangiare Vassia, ma lei non ne aveva voglia. Si sentiva male dentro.

«Osserva un po' le tovaglie, sono tele delle industrie tessili di Morosov. Lo stesso per le salviette. Ma io non volevo metterle, perché la lisciva costa così cara».

«Da dove ti vengono tutte queste abitudini? E dove hai potuto procurarti tutto ciò? Lo hai veramente comprato?» Vassia guardava Vladimir con un'aria severa e interrogativa.

«Che t'immagini? Sai quanto costa adesso un mobilio del genere? Miliardi! Tu credi veramente che in questa impresa io ricevo uno stipendio da direttore che mi permetta di acquistare tali ricchezze? Ho ricevuto tutto questo con una lista speciale, in quanto direttore. Ed è una fortuna che sia successo quando ci si poteva ancora procurare tali mobili per vie traverse, grazie anche a delle amicizie. Ora è impossibile. Nessuno ti fornirà un mobilio del genere, perché bisogna pagar tutto in contanti. Certo, durante l'inverno, ho acquistato parecchie cose per conto mio: per esempio l'armadio a specchi che sta nella camera da letto, la coperta zigrinata, la lampada che è nel salone... Vladimir enumerava senza fretta, con piacere. Ora, negli occhi di Vassia, si diffondeva un'espressione di freddezza. Vi si accendevano delle piccole luci cattive. Allora questi occhi non sembravano più marroni, ma verdi come quelli di un gatto.

«Ma quanto ti sono costate tutte queste meraviglie?» La voce di Vassia tremava un po'. Il furore la soffocava. Ma Vladimir sembrava sordo: divorava la sua cotoletta con della salsa, e beveva birra.

«Ascolta, se si facesse un totale, aggiungendovi tutto quello che ho preso promettendo di pagarlo a credito... farebbe senza dubbio...»

Vladimir, scandendo le cifre, per stupire Vassia, annunciò una somma importante. La pronunciò e sollevò verso Vassia due occhi sorridenti.

«Vedi un po' che marito hai!»

«Vassia, che ti succede?». Vassia era saltata per uscire dal tavolo, si piegò su di lui. I suoi occhi erano diventati feroci e verdi.

«Ma dove hai preso tutto questo denaro? Dimmelo subito, dove hai preso tutto questo?»

«Ma come puoi domandarmelo, Vassia? Calmati. Come puoi pensare che mi sono procurato questo denaro con mezzi disonesti? Allora tu non conosci il valore del denaro. Calcola un po' quanto mi viene dal mio stipendio. Lo vedrai tu stessa».

Citò allora il trattamento che aveva mensilmente, aggiungendovi le somme ricevute in premio.

«Come? Tu ricevi un salario del genere, e mensilmente? Tu, un comunista, osi spendere una simile somma per tutte queste cianfrusaglie, per comprare tutte queste idiozie? E la miseria, nel frattempo, aumenta, la miseria ci circonda!... E poi la carestia e i disoccupati... Allora, hai

dimenticato di pensarci? Sei veramente diventato un direttore?».

Vassia si avanzò verso Vladimir e lo interrogò con uno sguardo feroce e verdastro.

«Allora, signor direttore, rispondetemi!»

Vladimir non capitolava, cercava di far intender ragione a Vassia, con persuasione, e anche con dei sogghigni. Lei aveva vissuto come un passero, sotto un tetto, non conosceva il valore del denaro. Gli altri avevano un tenor di vita ancor più lussuoso, ben superiore al suo. Non vivevano alla giornata come Vladimir. Avevano veramente un'esistenza «fastosa». Ma Vassia non era una donna di quel «genere». Non la si poteva convincere semplicemente con le parole. Aveva preso la mano ed esigeva un rendiconto. Perché non vive come un comunista? Perché spende denaro per tali stupidaggini quando la fame e la povertà regnano dappertutto, ci circondano?

Vladimir vide che in questo modo non poteva mettersi d'accordo con Vassia. Bisognava parlare diversamente; bisognava spiegarle le cose da un punto di vista politico.

Tale era la funzione di un direttore. Erano venuti ordini dal centro. L'essenziale era imperniare tutto sulla prosperità dell'impresa perché la ditta si sviluppasse a pieno ritmo. Vladimir aveva una posizione solida, in questo campo. Che Vassia incominciasse a vedere quel che aveva fatto in un anno. Il posto era vuoto quando lo aveva preso in mano, egli aveva rialzato la redditività, attualmente tutto il trust doveva mettersi al passo del suo distretto. Bisognava che lei si persuadesse del fatto che se lui viveva «come un uomo», si era in compenso preoccupato dell'esistenza di ogni impiegato, dell'ultimo degli scaricatori. Che si mettesse prima al corrente delle condizioni del suo lavoro, e solo allora avrebbe potuto criticare. Lui, Vladimir, non si aspettava che la sua amica Vassia, la sua sposa-compagna, arrivasse solo per soffiare nella stessa tromba in cui soffiavano i suoi nemici... Anche senza questo, era già così difficile lavorare! Per il bene della causa, non si risparmiavano le forze. E lei, vedete un po' che diceva. Anche sua moglie era contro di lui. Lo avrebbe consegnato al tribunale.

Vladimir si sentiva offeso. Ribolliva di collera. I suoi occhi sembravano quelli di un lupo furioso. Infiammati, lanciavano scintille a Vassia, come se volesse bruciarla con la sua collera e le sue offese. E dire che lei diffidava di lui, che «lo condannava».

Vassia prestava ascolto. Cominciò a far macchina indietro. Era forse vero? Tutto al presente andava in un modo diverso. L'essenziale era che ci fosse una perfetta corrispondenza con i libri contabili. Che la produzione si sviluppasse, con la ricchezza del popolo, su questo punto lei non discuteva con Volodia.

«Bene, bisogna pure che io mi compri degli indumenti! Che mi sistemi! In fin dei conti, non si vivrà sempre nelle comuni. Valiamo quanto gli operai americani, perlomeno. Se tu vedessi quanti di loro vivono in modo del tutto diverso. Hanno un piano, una vettura Ford, una motocicletta...»

La degna Maria Semionovna fece parecchie apparizioni nella sala da pranzo, per lanciarvi un'occhiata. Vorrebbe servire le sue buone frittelle. Ma che vedeva? Appena insieme, e già litigano! D'altronde anche prima succedeva lo stesso in casa dei «veri signori», presso i quali Maria Semionovna stava a servizio prima della rivoluzione. Che fossero quelli o i comunisti, era sempre lo stesso! Peccato che le mie buone frittelle siano andate perdute!

Vladimir condusse Vassia per tutto lo stabilimento, per gli uffici, i magazzini, le mostrò le abitazioni. Eccoli ora nell'ufficio dei contabili.

«Da' un'occhiata a questi libri. Non troverai da nessuna parte una tale gestione... Guarda un po' come ho organizzato il lavoro. Soltanto dopo mi potrai condannare per sperpero».

Chiese al suo contabile di spiegare a Vassia i princìpi della contabilità. Erano regole semplici ma esatte. Al centro avevano appunto elogiato la tenuta dei libri. Vassia ascoltava con attenzione. Non comprendeva tutto, ma vedeva che effettuavano un «vero sforzo», che amavano la loro attività. Volodia si dava al lavoro con tutta l'anima. La condusse negli appartamenti degli impiegati e interrogò espressamente le mogli dei suoi collaboratori. Erano soddisfatte? Guardava Vassia con aria di trionfo, mentre da tutte veniva la stessa risposta pensate dunque se siamo soddisfatte! Con i tempi che corrono non si poteva trovare niente di meglio. E' grazie alle vostre buone cure che noi viviamo, Vladimir Ivanovic!

«Lo vedi, e tu dici che sono diventato uno "scialacquatore". Credimi, ho cominciato col migliorare la situazione degli impiegati; ho fatto i miei passi per ottenere tutto ciò che si poteva. E solo dopo ho pensato a me. Ti rendi conto, adesso, del loro genere di vita? Il livello di vita degli operai non è peggiore di quello degli impiegati. Per ciò che concerne gli operai, ho fatto uno sforzo particolarissimo. Ho fatto tutto il possibile».

«Bene. Tu hai fatto tutto questo, ma loro, che hanno fatto per te?»

«Fai dei ragionamenti bizzarri, Vassia. Noi lavoriamo la mano nella mano. Si tratti di me o di loro. In passato il direttore tirava la coperta da un lato e gli operai dall'altro. Da noi niente va così. Tu, Vassia, nella tua palude, sembri tutta coperta di licheni».

Aveva detto questo per scherzare, ma Vassia sentiva che Vladimir non era contento di lei. Si sentiva offeso dal suo atteggiamento. Per tutta la giornata la condusse attraverso gli edifici appartenenti alla «ditta». Vassia era stanca. Le battevano le tempie. Sentiva delle puntate ai fianchi e mal di schiena. Se solo avesse potuto coricarsi, rientrando a casa! Le sembrava di avere la testa piena di tutti gli urti che le ruote del vagone avevano subito durante il viaggio. Ma Volodia l'avvertì che avrebbero avuto degli ospiti a cena. Vassia doveva «riceverli».

Eccoli a casa. Entrarono nell'anticamera. Il ragazzo che faceva da fattorino aprì la porta. Si teneva lì in piedi come per attendere degli ordini.

Vladimir gli gettò uno sguardo. Tirò fuori un taccuino, vi scrisse alcune parole e lo diede al fattorino.

«Andiamo, di corsa, Vassia, senza gingillarci! Mi trasmetterai personalmente la risposta. Hai capito?»

Si girò verso Vassia e le diede un'occhiata bizzarra, un po' colpevole ma anche interrogativa.

«Di', mia piccola Vassia, mio Vassiuk, perché spalanchi gli occhi quando mi guardi?»

La voce perdette la sua sicurezza, e si sarebbe detto che cercava di «lusingarla».

«Oh, no, non farci caso. Allora anche il tuo fattorino si chiama Vassia?»

«Sì, ti senti offesa perché ci sono due Vassia nella casa? Guarda guarda! Ecco come sei: gelosa... Sta' tranquilla, non c'è un'altra Vassia come te al mondo, e io amo solo te». Abbracciò Vassia con molto affetto. La fissò e la baciò ancora. Per la prima volta nella giornata, egli la accarezzava. Così allacciati andarono verso la camera da letto.

Gli ospiti arrivarono per la cena. Erano Savielev e Ivan Ivanovic, il segretario della direzione. Savielev era un uomo alto, abbastanza forte, portava una giacca grigio chiaro. I rari capelli che gli restavano erano pettinati con cura. All'indice gli brillava un anello. I suoi occhi erano intelligenti, con una sfumatura di astuzia. Il sorriso sarcastico che ostentava sul viso glabro non era molto affabile. Si sarebbe detto che notava tutto, e che tutto gli era indifferente, purché potesse vivere bene. O almeno a Vassia sembrava che fosse così. Quando salutò Vassia avvicinò la mano di lei alle labbra. Ma Vassia la tirò indietro.

«Non sono abituata a questo gesto».

«Come volete. Quanto a me, sapete, non perdo mai l'occasione di baciare la mano di una bella ragazza... E' piacevole, e il marito non se ne urta. Quanto a voi, Vladimir Ivanovic, siete forse assai geloso? Eh? Confessatelo, dunque!» E diede un buffetto, sulla spalla di Volodia, senza alcuna cerimonia. Vladimir rideva.

«Vassia è per me una sposa esemplare, e non c'è motivo con lei di essere gelosi».

«Vuol dire allora che non prende a modello il suo buon piccolo marito», disse Saveliev facendo l'occhietto a Vladimir.

A queste parole, lo sguardo di Vladimir si riempì di spavento.

«Io non credo di darle occasione per un tale rimprovero».

Ma Saveliev l'interruppe,

«Andiamo, su! Vi conosciamo, voi mariti. Sappiamo quel che valete. Anch'io lo sono stato, ai miei tempi. Solo attualmente vivo da celibe».

Saveliev non piacque affatto a Vassia. Non le piacque per niente. Volodia s'intrattenne con lui come con un amico. Parlava di affari e di politica. Vassia non avrebbe mai parlato di politica con un tale «speculatore». Egli sembrava burlarsi del presidente del comitato esecutivo. Volodia doveva assolutamente rinsavire e cessar di tenere una tale amicizia.

Durante la cena, si bevve un po' di vino: era il segretario, Ivan Ivanovic, che aveva portato una bottiglia rivestita di paglia intrecciata. Erano inquieti per il ritardo che avevano i pacchi grandi. Non erano ancora arrivati. Purché arrivassero prima dell'inizio della fiera!

Vassia ascoltava, cercava di afferrare di che si trattasse. Ma le sembrava che ciò fosse senza importanza e che l‘essenziale» non fosse ciò di cui si parlava. Il dolore alla tempia la infastidiva. Si sentiva spezzare da una specie di convulsione. Anche gli occhi le facevano male. Purché la cena non durasse troppo.

Appena si furono alzati da tavola, Vladimir ordinò che si portasse la vettura. Disse che doveva andare a una riunione importante in cui avrebbero discusso dei trasporti.

«Come, andrete alla riunione anche oggi, il giorno dell'arrivo di vostra moglie? Farete meglio a restare con lei. Non è bene, Vladimir Ivanovic», diceva Saveliev, mentre gli lanciava un'occhiata di traverso.

«Non posso», insistette Vladimir. Accese con cura una sigaretta. «Sarei ben contento di restare, ma gli affari...»

«Non tutti gli affari si assomigliano», continuò Saveliev, e di nuovo a Vassia sembrò che quel maledetto trafficante facesse l'occhietto a Vladimir, come se si burlasse di Vassia.

«Se fossi al vostro posto, io, non mi occuperei di affari, oggi. Mi occuperei della mia sposa, non fosse che per la prima sera. State tranquillo, gli affari non fuggiranno».

Vladimir non rispose e prese il berretto con una certa stizza.

«E allora, ce ne andiamo, Nikanor Platonovic?»

Se ne andarono. Se ne andò anche Ivan Ivanovic.

Vassia restò sola nel grande appartamento vuoto. Gli sembrava talmente strano. Non ci si era ancora abituata. Attraversò tutte le stanze con pessimismo, solitaria. Aveva freddo. Restò per un po' vicino alla finestra, si sdraiò sul letto sul quale era stesa la coperta di seta zigrinata. E si addormentò immediatamente.

Vassia sussultò come se avesse sentito un colpo. Intorno a lei l'oscurità. Accese la luce, guardò l'orologio. Era mezzanotte e un quarto. Aveva veramente dormito molto. Ma perché era passata la mezzanotte e Vladimir non era ancora tornato? Vassia si alzò, si passò dell'acqua fresca sul viso, poi andò nella sala da pranzo. La tavola era pronta come se si dovesse pranzare. La luce brillava. Intorno c'era il vuoto e il silenzio.

Le altre stanze erano immerse nell'oscurità. Passò in cucina. Maria Semionovna vi stava mettendo ordine.

«Vladimir Ivanovic non è tornato?»

«Non ancora.»

«Ma allora? Ritorna sempre così tardi dalle riunioni?»

«Dipende».

Non era molto prolissa, Maria Semionovna, e piuttosto arcigna.

«Dovete attendere il suo ritorno alzata?»

«Ci diamo il cambio, con il fattorino Vassia: un giorno tocca a me star di guardia, l'indomani a lui».

«Ma Vladimir mangerà ancora?»

«Se porta con sé degli invitati, pranzerà. Altrimenti, passerà direttamente nella sua camera».

Vassia attese un momento; vedeva che Maria Semionovna era ancora tutta presa dalle sue occupazioni. Non dava nemmeno un'occhiata a Vassia.

Vassia se ne andò nella camera da letto. Spalancò la finestra. La notte era calma e primaverile, fresca. Le rane gracidavano rumorosamente, in una maniera insolita. Vassia cominciò a credere che fossero uccelli notturni.

Il cielo era d'inchiostro, ma pieno di stelle... Vassia contemplava nell'oscurità il frutteto, il cielo, le stelle...

Un senso di conciliazione e di fiducia luminosa discendevano nella sua anima. Saveliev «il trafficante» era completamente dimenticato, così come le offese e le allusioni sgarbate che le aveva inflitto Vladimir senza farlo apposta... Era con il cuore e non con la ragione che comprendeva lo scopo della sua visita all'essere amato. Era venuta ad aiutarlo a rimettersi sulla «giusta strada». Perché, quando ci si lega ai nepman, ci si allontana involontariamente dalla giusta via. Per questo aveva chiesto di venire a Vassia, alla sua sposa-compagna.

Vassia si ricordò della capacità con cui Vladimir aveva organizzato gli affari e ne era fiera. Era un vero lavoratore! Tutto quello che aveva visto oggi le sembrava adesso diverso. Comprendeva con maggior serenità e gioia...

Vassia si sprofondò talmente nei suoi pensieri che non sentì avvicinarsi la vettura. Non sentì nemmeno il passo di Vladimir sul tappeto, lungo il corridoio. Le si avvicinò. Lei trasalì sentendone la voce.

«Perché il mio Vassiuk è così pensieroso? Eh?» Vladimir si piegò verso di lei, e nei suoi occhi si poteva leggere tenerezza mescolata ad angoscia.

«E' qui il mio amato?» Lo ha atteso così a lungo. Le sue braccia gli allacciarono il collo.

Vladimir l'afferrò nelle sue braccia, come aveva fatto talvolta nel corso dei primi mesi; la portò attraverso tutta la camera come un bambino teneramente amato... Che gioia per Vassia! Volodia l'amava veramente. L'amava come prima. Stupida che sono! Come ho potuto arrabbiarmi con lui fin dal mattino?

Bevvero insieme del tè. Ebbero una buona conversazione, profonda. Vassia disse quel che pensava di Saveliev. Non valeva la pena di legarsi con lui d'amicizia. Vladimir non obiettò niente. Confessò che lui stesso non aveva una grande stima nei suoi riguardi. Ma era un uomo di cui si aveva sempre bisogno. Se non ci fosse stato lui, le cose non si sarebbero mai sistemate. Aveva molte vecchie relazioni. I commercianti avevano fiducia in lui; si mettevano in «contatto» con noi per suo tramite. Volodia aveva appreso molto grazie a Saveliev. E' vero che l'uomo non era di per sé molto stimabile, perché talmente borghese. Ma era insostituibile negli affari. Ecco perché Volodia era intervenuto in suo favore quando le autorità locali, «per grande stupidità» lo avevano arrestato. Mosca sapeva apprezzarlo... Le autorità locali sono state fortemente rimproverate a causa di quest'arresto.

«Però tu mi avevi scritto che non era perfettamente onesto».

«Come dirti esattamente? Vedi, è il nostro agente. Certo, non dimentica mai i suoi interessi, ma non più degli altri. E poi, gli altri sgraffignano e non lavorano; mentre lui non agisce solo per timore, ma lavora con coscienza. Conosce bene il nostro lavoro e lo ama».

Nonostante ciò, Vladimir promise a Vassia di frequentarlo un po' meno. Il servizio era il servizio, ma era tuttavia inutile farne un amico.

Finirono il tè, e abbracciandosi ritornarono nella camera da letto. Vladimir stringeva la testa di Vassia contro il petto. Baciava i boccoli della sua pettinatura, e diceva con tenerezza, con un tono meditativo:

«Questa testolina, mi è così vicina... Potrà essermi estranea, un giorno? Di amici come te, Vassia, non può essercene un altro, e d'altronde io non amo che te sola, mia Vassia-uragano».

Vassia si alzò abbastanza tardi. Vladimir era andato da un bel pezzo al lavoro. Ma Vassia non si sentiva in forma. Aveva delle fitte ai fianchi, un po' di febbre e cominciò a tossire. Forse aveva preso freddo durante il viaggio. Tuttavia la giornata annunciava l'estate, leggera come una carezza. Ma Vassia s'imbacuccò nella sua grande sciarpa. Non aveva voglia di muoversi. Non le andava di levarsi dal letto. Maria Semionovna era arrivata, le mani incrociate sul ventre. Stava in piedi nel vano della porta e guardava Vassia come attendendo qualcosa.

«Buongiorno, Maria Semionovna».

«Buongiorno», rispose quella seccamente. Quali sono i vostri ordini per il pranzo? Vladimir Ivanovic mi ha specificato, andandosene, che dovete darmi voi il menu del pranzo. Ci saranno degli invitati».

Vassia si sentì perduta. Non sapeva assolutamente che cosa bisognasse ordinare per quel pranzo. A casa sua, nella comune, aveva sempre mangiato semplicemente con gli altri il pranzo dei soviet.

Maria Semionovna, vedendo che in questo campo Vassia «non ci capiva niente», le propose una lista di piatti. Vassia approvava tutto, e se domandava i prezzi: non verrà troppo caro?, Maria Semionovna si limitava a serrare le labbra.

«Ascoltate, se si vuole che il pasto sia buono, non bisogna guardare alla spesa. Attualmente, non si può trovar niente, senza denaro. I comunisti hanno abolito le razioni».

«Ma avete denaro?»

«Me ne resta un po' di ieri. Ma ce ne sarà appena abbastanza per oggi. La carne è cara, e bisogna anche comprare l'olio».

«Dunque Vladimir non vi ha lasciato denaro».

«No, non mi ha lasciato niente. Mi ha detto di venir da voi, Vassilissa Dementievna, e di mettermi d'accordo con voi su tutto».

Ma allora come fare? Maria Semionovna restava lì, attendendo che le si desse il denaro. Non se ne andava. Certo, Vassilissa aveva un po' di denaro da parte, ma, con un'economia domestica del genere, non le sarebbe rimasto più un soldo. Era spiacevole.

«Forse avete del denaro personale. Datemene un po' per la casa, sarà una specie di prestito. Poi lo richiederete a Vladimir, e lui ve lo renderà». Così Maria Semionovna consigliò Vassia. Lei, in effetti, si diceva: come non vi ho pensato da sola? Si misero d'accordo. Maria Semionovna se ne andò. Vassia passò nel giardino; passeggiava lungo i sentieri, ma la stanchezza si faceva sentire. Decisamente non stava bene. Si mise a letto, prese un libro e s'addormentò leggendo.

Vassia era a letto, distesa. Sulle guance aveva delle macchie brillanti. La opprimevano sogni penosi, soffocanti... Quando ritornò in sé, gettò uno sguardo intorno e si arrabbiò con se stessa. Perché coricarsi così? Avrebbe fatto meglio ad andare a visitare un po' la città. Non era davvero venuta per farsi curare da Vladimir!... Ma non riusciva a sollevare la testa. E, come chiudeva gli occhi, i pensieri le si ingarbugliavano... Non si poteva dire che fosse sonno, e nemmeno sonnolenza. Tuttavia, i suoi pensieri non erano netti:

«Vassilissa Dementievna, da un momento all'altro arriverà Vladimir Ivanovic per il pranzo! Dovreste sistemarvi un po', e io farò il letto. Non gli piace che la stanza sia in disordine».

Maria Semionovna si ergeva al di sopra della testa di Vassia, come una «superiora», come «se dovesse dettarle la sua condotta».

«E' veramente così tardi?»

«Sono le quattro passate... Come, non avete nemmeno fatto colazione? Avrei voluto svegliarvi, ma ho visto che dormivate così bene. Oh, sono le fatiche del viaggio, senza dubbio sarete stata sballottata parecchio!»

«E' possibile che sia per il viaggio, ma è ugualmente possibile che abbia preso freddo. Non so che ho, ma tremo».

«Dovreste mettervi un vestito di lana. Nel vostro scialle ci si può appena avvolgere».

«Sì, ma il mio vestito non è riuscito molto, non è piaciuto a mio marito».

«Perché dite che non è riuscito? Non è vero. Ci sono forse troppe pieghe sui fianchi, e poi la vita non è del tutto a posto. Adesso si porta la cintura... Ai miei tempi sono stata anche sarta, e m'intendo un po' dell'arte di sistemare i vestiti. Permettetemi di cambiargli qualche cucitura... Vedrete, cambieremo questa toilette senza 1' aiuto di nessuno. Vladimir Ivanovic non se ne accorgerà nemmeno».

«Credete che sarà pronto per la cena?»

«Ah no, volete che si faccia troppo alla svelta... No... insieme, senza affrettarci, lo faremo piano piano... Ora mettetevi il vestito nero, e sopra la giacca del vestito, sarà molto chic».

Vassia non era ancora mai stata tanto a lungo davanti allo specchio. Maria Semionovna aveva aggiustato il taglio con l'aiuto di spille. In altri punti, aveva imbastito un po'. Si era procurata chissà dove un colletto di merletto. La toilette si presentava benissimo, semplice ed elegante. Piacque anche a Vassia. Che dirà Vladimir?

Ebbe appena il tempo di abbigliarsi che Vladimir arrivò con i suoi ospiti: un collaboratore del Ghe.Pe.U. e sua moglie. Portava baffetti fini come aghi ed era vestito molto elegantemente. Aveva stivali gialli, allacciati fino al ginocchio. E dire che è un «comunista». Non piacque a Vassia. La signora era vestita nel genere «alta sartoria». Aveva tutta l'apparenza di una «prostituta». Il suo vestito era vaporoso e portava delle scarpette bianche, e una pelliccia sulle spalle. Alle dita le scintillavano anelli. Vladimir le faceva il baciamano. Scherzavano. Di che parlava? Impossibile comprenderlo! Erano inezie. Volodia si piegava in due con una grande amabilità per parlare alla sua ospite. Per «posa» lanciava delle occhiate...

Vassia era seduta al fianco del compagno della Ghe.Pe. U. Era un comunista, ma lei non sapeva di che parlare con lui. Bevvero di nuovo vino. Vladimir brindava con la sua ospite e lei gli sussurrava qualcosa all'orecchio. Entrambi ridevano. Vassia era imbarazzata, mentre il marito non prestava nessuna attenzione alla sua sposa. Era come se non fossero sposati. Situazione bizzarra e non molto onesta.

Si misero a scherzare sulla quaresima. L'invitata confessò di credere in dio, benché non osservasse la quaresima. Ma si confessava. Come era possibile? Il compagno era un funzionario del Ghe.Pe.U., ma aveva una moglie «credente»...

Vassia si incupì. Era scontenta e provava anche un po' di collera nei confronti di Vladimir: aveva degli strani amici!

Alla fine del pasto arrivò Ivan Ivanovic. Annunciò che Saveliev aveva prenotato un palco per tutti al teatro e che li invitava.

«Ci andiamo, Vassia?» domandò Vladimir.

«Con Saveliev?»

Vassia si sforzò di guardare Vladimir negli occhi, ma lui faceva finta di non comprenderla.

«Ma sì, con Nikanor Platonovic. Tutta la compagnia insieme. Oggi c'è la prova generale di una nuova operetta. Ti distrarrà un po'. Dicono che sia divertente».

«No, non voglio andarci».

«Perché?»

«Non mi sento molto bene, probabilmente ho preso freddo durante il viaggio».

Vladimir le diede un'occhiata.

«Vassia, tu hai una faccia strana... Hai gli occhi infossati... Lascia che ti tasti il polso. Oh, ma hai la mano caldissima. Certo, non ci si può andare... Perché non ci andrò neppure io».

«Ma no, perché? Vacci».

Gli invitati cercarono di convincere Vladimir ad accompagnarli. Ci riuscirono. Eccoli partiti per il teatro.

Nell'anticamera, Vladimir strinse Vassia e le mormorò all'orecchio: «Vassia, oggi sei così bella».

Chiese a Maria Semionovna di dare di tanto in tanto un'occhiata per vedere se Vassilissa Dementievna stava bene.

«Coricati subito, Vassia, io sarò presto di ritorno. Non resterò sino alla fine».

Se ne andarono. Vassia errò attraverso le stanze e di nuovo la invase la tristezza.

Quel genere di vita non le piaceva. Non arrivava a individuare che cosa non andasse. Quella compagnia non le andava bene, perché insolita ed estranea... E lei si sentiva «estranea», qui. Nessuno aveva bisogno di lei. Era possibile che Volodia l'amasse, ma ci pensava davvero poco!

Qualche carezza, qualche bacio, e poi se ne andava. Era tutt'altra cosa quando doveva andare a una riunione, o dedicarsi a un'attività qualsiasi. Ma per andare al teatro!... Perché era uscito senza di lei? Come se non fosse andato abbastanza spesso al teatro quest'inverno!

Vassia soffriva, c'era qualcosa che la rodeva. Non trovava le parole necessarie a esprimerlo chiaramente, ma non si sentiva a suo agio nella sua anima.

«Resterò qui solo una settimana» decise Vassia. «Vedrò come si svolge la vita di Vassia e poi me ne andrò...» Ma subito le si pose una domanda: dove andare? Ritornare alla comune? Non vi ha nemmeno conservato la sua camera, la sua mansarda sotto i tetti. Ci si è trasferita la sua amica GruSa, la sarta. E poi, veder di nuovo i Fe-dossiev, essere assalita dalle beghe, le preoccupazioni, difendere di nuovo «la casa», mettersi di nuovo a combattere contro tutti. Non ne aveva più la forza e non credeva che si potesse salvare quella realizzazione. Ecco l'importante. No, Vassia non sapeva più dove andare. Questo pensiero la depresse ancora di più, come se le conficcassero dentro dei chiodi, come se le trapanassero il cuore.

Il freddo la invase, rabbrividiva, si nascondeva le mani nelle maniche. Percorreva a gran passi le stanze oscure, vuote. Le sembrava che in questa casa estranea che non amava stesse per avvenire una disgrazia. Sì, la disgrazia le faceva la posta...

Era un presentimento?

Un comunista poteva credere nei presentimenti? Ma che cos'era, di dove veniva quest'angoscia senza nome, indistruttibile, in attesa?

Vladimir ritornò abbastanza presto, come aveva promesso. Vassia stava leggendo, sdraiata sul letto. Le si sedette vicino e s'informò sulla sua salute. La fissò. A Vassia parve strano che gli occhi di Vladimir fossero così seri e tristi. Sembravano dissimulare qualche dispiacere.

«Che è successo, Volodia? Hai l'aria triste».

Volodia affondò la testa nel cuscino al lato di Vassia e disse con una intonazione lamentosa:

«La vita è davvero difficile, Vassia. Tu non t'immagini nemmeno la natura delle mie difficoltà! Tu non vedi che un aspetto della mia vita e ti rifiuti di comprendermi. Se tu potessi affondare lo sguardo fino al mio cuore, ti renderesti conto di come ho sofferto quest'inverno. Non mi condanneresti, ma mi compiangeresti. Perché alla fine, Vassia, io lo so tu hai un cuore buono».

Vassia accarezzava la testa di Volodia. Sì, lo compiangeva e cercava di calmarlo.

Benché provasse pietà per Volodia, la sua anima si riempiva di gioia: le sembrava che li tormentasse lo stesso pensiero, che li facesse soffrire lo stesso dolore. Era davvero difficile per un proletario essere un direttore. Fu quello che lei gli disse.

Ma Volodia scosse la testa con tristezza.

«Non è solo questo, Vassia, non è solo questo. C'è un'altra cosa ancora che mi tormenta, che non mi lascia in pace».

«Ti perseguitano? Sì?»

Volodia taceva come se volesse dir qualcosa, ma non si decidesse a dirla.

Vassia lo strinse.

«Raccontami, amor mio, cos'è che ti fa soffrire?»

Premeva la testa contro la spalla di lui.

«Com'è possibile che tu sia profumato? Quando hai avuto il tempo di profumarti così esageratamente?» Alzò la testa verso Volodia e lo fissò.

«Profumo?» Volodia si turbò, si allontanò da Vassia. Probabilmente è perché mi son fatto radere dal barbiere, stamattina. E' lui che mi ha innaffiato di profumo.

Vladimir si alzò, accese con lentezza e minuzia una sigaretta, poi lasciò Vassia, dicendo che oggi doveva assolutamente finire di esaminare certi documenti.

Vassia tossiva. La sua salute non migliorava. Aveva la febbre e delle fitte ai fianchi. In presenza di Vladimir, cercava di far buona figura, ma non riusciva ad ingannarlo. La tosse non le permetteva di dormire. Vladimir dovette sistemarsi sul divano del salone. I giorni passavano lentamente, vuoti, senza lavoro, a parte qualche piccola cura domestica. Vladimir era un po' avaro, quando si trattava di dare il denaro per la casa, ma allo stesso tempo esigeva che tutto fosse «in regola». Vassia mise tutto il suo piccolo capitale nelle cure della casa. Le era talmente spiacevole quando Volodia la rimproverava: «Di', allora, hai già speso tutto il denaro per la casa? Non si arriverà mai ad averne abbastanza per tutta la gente che viene». Si sarebbe detto che fosse Vassia che invitava o che esigeva che ci fossero almeno tre piatti per pasto! Ma non poteva nemmeno lamentarsi di Vladimir, per tutto il resto: era estremamente attento e si preoccupava molto della salute di Vassia. Fu lui a venire con il dottore. Quest'ultimo diagnosticò «esaurimento» e un disturbo al polmone destro. Le ordinò di restare il più possibile coricata al sole e di alimentarsi bene. Vladimir ora insisteva con Vassia: agiva di tutto punto secondo i consigli del medico? Maria Semionovna riceveva indicazioni per vegliare su Vassia, perché si alimentasse regolarmente.

Vladimir si era perfino procurato del cacao per Vassia. Era andato di persona a cercare per lei, in vettura, una sedia a sdraio, perché potesse scaldarsi al sole. Sì, Vladimir si preoccupava molto per lei.

Come entrava in casa, cercava dove potesse essere Vassia. Con tutto ciò, si incontravano ben poco. Vladimir era talmente occupato. Viveva un periodo febbrile: stava per cominciare la fiera. Vladimir, concentrato nelle sue preoccupazioni, era pensieroso, e sembrava un po' triste.

Vassia stava allungata sulla sua sdraia nel prato. Si riscaldava al sole, come una lucertola, e si sentiva così bene... su un fianco, poi sull'altro. Era abbronzata, adesso, e sembrava una zingarella. Era strano vivere così: senza lavoro né preoccupazioni, ma anche senza gioia. Era come un sogno. Eppure le sembrava che si sarebbe svegliata e si sarebbe ritrovata «a casa», sì, nella «casa comune». Allora il dipartimento alloggi, i compagni, Stepan Alexie-vic, Grusa, le tornavano alla memoria... Anche la signora Fedossiev. Allora non era stato facile vivere, ma era, tuttavia, più felice.

Vassia oggi attendeva Vladimir. Per quel giorno aveva promesso di rientrare più presto. A Vassia sembrava sempre che sarebbe stato quello il giorno in cui si sarebbero riuniti e in cui si sarebbero messi d'accordo su tutto... Parleremo veramente a cuore aperto. Ma i giorni passavano e la conversazione non aveva luogo. Ora aveva degli invitati, ora erano gli affari. Saveliev non si faceva più vedere; gli altri visitatori, membri della direzione, erano assolutamente estranei a Vassia. Non presentavano il minimo interesse e non la finivano di parlare di carico, scarico, fatture, imballaggi, rimesse, supplementi...

Vassia, allungata sulla sua sdraia, ammirava le cime degli alberi che si disegnavano nell'azzurro del cielo... Il vento d'estate li faceva oscillare, lentamente come una carezza... Vassia ascoltava le cicale... In fondo al giardino, gli uccelli cantavano a gara... Vassia si alzò, se ne andò per i sentieri del giardino pieni di erbacce. Arrivò ai lillà in fiore. Che profumo! Si mise a fare un mazzo... Un'ape le passò davanti ronzando, si posò sul racemo violetto di un lillà e cominciò a lisciarsi le ali. «Ecco, dunque: è davvero audace per non aver paura dell'uomo». Vassia si mise a ridere, e a un tratto sentì un sentimento di benessere invaderle tutta l'anima e con una tale facilità da stupirsene lei stessa. Si voltò e vide il giardino con occhi nuovi. Prima di tutto, l'erba verde... i lillà viola, lussureggianti e profumati... il fossatello coperto di lenticchie, e le ranocchie che gracidavano in concerto.

Come si stava bene. Era meraviglioso!

Vassia ebbe paura di fare il minimo movimento, perché temeva che questa gioia inattesa se ne andasse, questa gioia dalle ali leggere e radiose... Fino a questo momento Vassia non aveva saputo, sentito, compreso che cosa volesse dire «vivere». Ma ecco che lo aveva compreso: non aver preoccupazioni, non affannarsi, non lavorare e non rallegrarsi, non fissarsi uno scopo, ma semplicemente vivere... vivere come una piccola ape che gira intorno ai lillà, come gli uccelli che si chiamano da lontano fra i rami, come le cicale che friniscono nell'erba... vivere! vivere! vivere! Sarà possibile restar per sempre, veramente per sempre in mezzo ai lillà? Perché l'uomo non poteva diventare una creatura di dio? Lei aveva un bel pensare «dio». Divenne furiosa, contro se stessa. Da quando s'era messa a evocare dio? Tutto questo a causa dell'ozio! Tutto questo a causa della «vita borghese» che le procurava Volodia. Non c'era da fare che un passo per diventare una moglie di nepman.

Vassia si affrettò a rientrare in casa. Non voleva più starsene senza far niente in giardino.

Ma il sentimento di gioia non la lasciava. Si sentiva leggera. Aveva forse acquistato nuove forze? Era forse ritornata la salute? Vassia non ebbe il tempo di rientrare nella stanza da letto, di mettere i lillà in un vaso, che già Vladimir arrivava a tutta velocità nella sua vettura.

Andò dritto da Vassia.

«Ci siamo. Hanno cominciato! Era un po' che gli attaccabrighe, gli intriganti mi lasciavano tranquillo. Ma adesso hanno ripreso i loro vecchi tentativi con nuovo vigore. Mi hanno appena convocato alla commissione di controllo... Stanno montando contro di me tutto un processo. Ma vedremo... Vedremo chi trionferà, alla fine!»

Vladimir si agitava per tutta la stanza, le mani erano unite dietro la schiena, segno d'emozione.

«Tutt'a un tratto, di nuovo, hanno ricollegato a questo il mio anarchismo e la mia mancanza di disciplina. Vada tutto al diavolo! E mentre qui uno esauriva le sue ultime forze per lanciare l'azienda, i membri dei comitati esecutivi, invece di aiutarvi, non pensavano che a mettervi i bastoni tra le ruote.... Se mi perseguitano ancora in questo modo, lascerò il partito... Me ne andrò da solo. Non si diano la pena di minacciarmi di espulsione...»

Vassia comprese che la situazione peggiorava. Sentiva un morso nel cuore. Non era questa la disgrazia che l'aspettava al varco? Ma non lasciò trapelare nulla. Tranquillizzò Vladimir e cercò di ricondurlo alla ragione.

«E, oltre a ciò, il tuo caro Stepan Alexievic è stato anche lui edificante! Gli hanno chiesto di dare un quadro della mia persona, e lui non ha trovato di meglio da dire che lodare il mio spirito di lavoro, ma aggiungendo che per il resto io avevo troppa "ambizione" e che ero "instabile di morale"!... Un vero prete! Ora si giudicherà un uomo non per la sua attività, ma per la sua morale?... Sembrerà che non vivo "da comunista"! Forse mi ordineranno di andarmene in convento! Ma loro, in che sono meglio di me? Non è certo il direttore del dipartimento di agitazione e propaganda che va a finire in giudizio. Eppure, ha abbandonato moglie e tre figli per sposare una prostituta. A tuo avviso, sono sopportabili simili cose? E' forse questo comportarsi da comunisti? Perché se la prendono solo con me, perché devo essere un eremita? D'altronde, perché si dovrebbero immischiare nella mia vita privata?...»

Ora, su questo punto, Vassia e Vladimir non erano d'accordo. La commissione di controllo aveva ragione: per un comunista non è bene prendere a modello i borghesi, per un comunista e, che è di più, per un direttore. Deve essere un esempio per tutti gli altri.

«Ma che diavolo! Dove vedi la mia colpa? In che consiste il mio "non comunismo", dimmelo, per grazia di dio? Senza dubbio nel fatto che non vivo in miseria e che per il bene del servizio sono obbligato a tener relazioni con ogni sorta di individui "loschi". Allora, fate dei regolamenti che prescrivano chi si può far entrare in casa propria, quante sedie uno ha il diritto di tenere, quanti pantaloni "un comunista" può possedere!»

Vladimir era veramente in ebollizione. Discuteva con Vassia. Ora, lei era felice di trovare un'occasione per dirgli ciò che le si era accumulato da tempo nell'anima. Certo, lei non sapeva sempre bene dove stesse il male, ma le sembrava che Vladimir non vivesse come doveva, non agisse come doveva farlo un comunista. Vladimir voleva saper tutto. E sia: lei non credeva che gli affari sarebbero andati peggio se nell'appartamento del direttore non ci fosse stato specchio, o tappeto! Non credeva che ci fosse bisogno di intrattenere tanti intrighi con ogni sorta di Saveliev, o che gli affari sarebbero andati meglio se Vladimir baciava la mano di ogni sorta di «mondane»...

«Allora, anche tu dici questo. Sapevo bene che era così. Sentivo che tu non eri venuta come un'amica, ma per giudicarmi. Tu ti metti a cantare la stessa canzone dei miei nemici. In compenso, sono riuscito a saper che tu mi disprezzi come loro... Ma perché non l'hai detto francamente, perché hai dissimulato la collera dentro di te, perché mi tormenti così?»

Vladimir era diventato pallidissimo. I suoi occhi lampeggiavano. Nella sua voce passava un sentimento di disonore e di collera. Vassia non lo comprendeva. Perché si lanciava contro di lei? Ora non era più nemmeno possibile fargli la minima obiezione. E' diventato veramente troppo vanitoso! Purché non abbia da pentirsene più tardi!

«Ah, Vassia, Vassia, io non mi aspettavo che tu agissi così, io non potevo immaginare che tu mi abbandonassi nel momento in cui ho bisogno di te. E' chiaro che ho fatto un calcolo sbagliato. Tanto peggio. Che vada tutto al diavolo! Se bisogna perire, periamo. In ogni modo, tutto è finito!»

Così dicendo, diede un tal pugno sulla tavola, che il vaso dov'era il mazzo di lillà si rovesciò. I grappoli viola si sparpagliarono sul pavimento, l'acqua si versò sulla tovaglia di seta in un getto di diamanti.

«Guarda un po' che hai fatto!»

Vladimir lasciò ricadere il braccio e si diresse alla finestra, il viso scuro; nei suoi occhi si leggeva l'inquietudine. Vassia lo guardava. E, come al solito, provò pietà per lui. La vita di Vladimir non era facile. Attualmente, per tutti i proletari, d'altronde, era ben difficile vivere. Vediamo, cerchiamo di comprendere ciò che è giusto e che si può fare.

«Andiamo, Volodia, non scoraggiarti. E' troppo presto per abbandonare. La tua causa dev'essere ancora esaminata. Non devi rimproverarti nessun delitto. E', come sempre, la tua mancanza di disciplina. Aspetta un po'. Andrò di persona al comitato per informarmi della piega che sta prendendo la faccenda. Forse tutto finirà per sistemarsi».

Vassia si avvicinò a Vladimir, gli mise una mano sulla spalla, tentò di fissarlo. Ma Vladimir non sembrava accorgersi di lei. Si teneva lì, oscuro, ruminando i suoi pensieri. Non ascoltava Vassia. Che gli succedeva? Perché adesso si trattavano come estranei e non come «compagni»? Lei tacque e meditò. Il suo cuore era senza gioia. L'assillava il grigiore delle preoccupazioni.

L'indomani Vassia andò al comitato di partito. Quando aveva interrogato Vladimir, l'inquietudine era cresciuta nella sua anima. Le accuse non erano di poco conto, ma riflettevano una certa parzialità. Chi può sapere come andrà a finire? Vassia attraversò la città che ancora non conosceva. Di tanto in tanto chiedeva la strada ai passanti, ma non aveva nemmeno voglia di dare uno sguardo alla città nuova per lei. Avrebbe voluto arrivare al più presto al comitato di partito. L'ansia la incalzava.

Davanti a lei una casa padronale; al di sopra, la bandiera rossa. L'insegna le era familiare, un po' come se si fosse ritrovata nella sua provincia. Una vampata di gioia salì nel cuore di Vassia. Si annoiava a non vedere più i «suoi», perché le persone frequentate da Vladimir non le considerava completamente membri del partito.

Vassia domandò dove si trovava l'ufficio del presidente del comitato provinciale.

Al tavolo delle informazioni era seduto un ragazzo.

«Scrivete chi siete e perché venite. Forse vi riceverà oggi, o rimanderà tutto a giovedì».

Questo spirito «burocratico» spiacque molto a Vassia. Ma non c'era niente da fare. Si sedette al tavolo dell'ufficio e riempì il questionario.

«Tieni, portalo al segretario», e il questionario passò dalle mani del ragazzo seduto al tavolo informazioni a quelle del fattorino.

«Seguite le scale, girate a destra lungo il corridoio; arriverete proprio davanti a una porta dove c'è scritto: "sala di ricevimento". Dovete aspettare là». Egli dava tutte queste informazioni con un tono visibilmente annoiato.

A un tratto si svegliò:

«Oh, mia piccola Mania, com'è che sei venuta qui, dimmi?»

Una ragazzetta, con una gonna che non scendeva oltre il ginocchio, ma, in compenso, con un cappello alla moda, rispose con un'aria da civetta che metteva in risalto i suoi occhi.

«Vengo a trovare dei conoscenti. Perché? M'impedirete di passare nel vostro comitato di partito?».

E' una prostituta, si disse Vassia con convinzione, e di nuovo si sentì a disagio. Un tempo, persone del genere non avrebbero osato venir a fare una visita a dei «conoscenti» al comitato di partito...

Vassia seguì il lungo corridoio chiaro. Impiegati, donne e uomini, passavano velocemente. La vita, al comitato di partito, non era irrigidita. Tutti attendevano alle loro faccende. Solo Vassia sembrava trovarcisi per guastare il paesaggio.

Nel locale dei ricevimenti, l'impiegato di guardia, un giovane con i baffi nascenti, le domandò con un'aria importante il cognome, cognome che verificò sulla nota che gli avevano appena rimesso. Queste informazioni erano registrate da una ragazza gobba.

«Dovrete fare una lunga anticamera, perché il vostro caso non è urgente. Dovrete aspettare».

Vassia si sedette contro la parete. Anche altri attendevano. Operai dai visi magri ed esauriti, con giacche logore. Si mettevano d'accordo tra loro. E' evidentemente una delegazione. C'era anche un uomo, alto, ben vestito, con occhiali. Certamente uno specialista, uno «spes», come si diceva adesso. Leggeva un vecchio giornale. Una vecchietta, un'operaia, i capelli sotto il fazzoletto, seduta in silenzio, con pazienza.Di tanto in tanto sospirava... Sembrava che fosse pronta a dire la formula religiosa: «abbiamo dovuto commettere dei peccati davvero orribili»... Un soldato dell'Armata rossa, in buona salute, giovane, straripante di gioia di vivere... Al suo fianco un contadino che portava la blusa tradizionale; vicino, un prete in sottana. Che sarà venuto a fare al comitato di partito?

«E' il vostro turno, padre», disse proprio allora l'impiegato di guardia. Fece passare il «padre» nell'ufficio del presidente del comitato provinciale. «Vedete, viene da parte della setta della chiesa vivente», spiegò a quelli che gli erano seduti davanti. «E' un uomo davvero intelligente e ci può essere estremamente utile».

Passavano di corsa delle impiegate, donne comuniste, dai capelli corti, con vecchie gonne. Erano indaffarate, preoccupate, portavano alla firma dei documenti. Rivolgevano domande all'impiegato di guardia, sussurravano un poco con lui, poi di nuovo fuggivano via.

Entrò un'altra donna, vestita alla moda. Assomigliava alle vecchie «dame dei signori». Era in realtà la moglie di un funzionario responsabile. Era senza partito. Vassia la conosceva di vista. Questa dama esigeva che la si lasciasse passare immediatamente, senza preoccuparsi minimamente di quelli che attendevano. Aveva anche un biglietto da parte di un membro del Comitato centrale. Perché, infine, lei veniva da Mosca... e non aveva il tempo di aspettare. All'inizio l'impiegato di guardia si dimostrò abbastanza deciso. Ma alla vista del biglietto con l'intestazione Comitato centrale, esitò... Poi si ricredette: non si poteva andar contro le istruzioni. «Perché il vostro caso è personale. Vogliate aspettare il vostro turno tra quelli che attendono». La dama, che assomigliava alle spose dei signori di una volta (così Vassia l'aveva battezzata dentro di sé), era furiosa. Non comprendeva che cosa significassero quelle disposizioni in provincia. A Mosca, l'avrebbero lasciata passare immediatamente! A Mosca tutti lottavano contro la burocrazia. Qui, guardate un po' che regolamento si sono inventati... «Ah, questi funzionari»!

Si sedette, l'aria profondamente offesa, lisciando con attenzione le pieghe della gonna. Ecco che entra un uomo corpulento, il berretto tirato giù sulla nuca, il cappotto aperto. Era abbastanza grasso e rumoroso. «E' un nep-man» decise Vassia.

«Compagno, voi che montate la guardia, che regolamento applicate? Ogni istante è per me prezioso. Il carico è in corso, e voi mi fate perdere tempo con un mucchio di sciocchezze; mi fate riempire un questionario... Trasmettete per favore il mio nome a chi di dovere: Condra-sev». E passò, il naso all'aria, imbevuto di vanità come se si fosse presentato «Lenin in persona». Vassia sentì crescersi dentro tutto l'antico odio che aveva per i borghesi. Ecco chi meritava veramente d'essere arrestato e giudicato. Che faccia, che faccia insolente!...

Il funzionario di guardia presentò le sue scuse. Non poteva far diversamente, c'erano delle istruzioni... Il nep-man non voleva sentir ragioni. Insisteva, esigeva, e finalmente trionfò. Il segretario andò all'ufficio per «annunciare» il suo arrivo. Ritornò confuso.

«Il compagno presidente del comitato provinciale chiede che vogliate sedervi un istante. Riceverà prima di voi altre due persone venute per affari urgenti».

«Mi domando che vale un tale regolamento... Come potete fare degli affari con loro... E hanno esigenze, vi minacciano, vi insultano e vi tacciano di sabotatore. Ecco il problema: chi è in realtà il sabotatore?»

Asciugò col fazzoletto il sudore che gli scorreva giù per il viso. La dama che assomigliava a quelle dei signori di un tempo lo approvava. Il signore con gli occhiali, lo «spes», li considerava da dietro il suo giornale. Quanto agli operai, erano talmente occupati nelle loro questioni che non sembrava si fossero nemmeno accorti del rumore fatto dal nepman. Adesso era il loro turno. Dopo di loro c'era lo specialista con gli occhiali. Era davvero noioso attendere. Vassia si diresse verso la finestra. Davanti, c'era un piccolo cortile, nel mezzo due bambini che inseguivano un cane. Risuonavano voci di bambini.

«Tiralo per la coda, se vuoi che abbai. Non morde. Bobka, qui! Prendilo! Prendilo!»

Ora era la volta di Vassia. Il presidente del comitato provinciale era di bassa statura. Il grande tavolo quasi lo nascondeva. Aveva un pizzetto e portava gli occhiali. Aveva le spalle ossute. Si sarebbe davvero detto che le ossa si disegnavano sotto la giacca.

Lanciò a Vassia uno sguardo ostile. Le tese la mano, ma senza alzarsi.

«Per quale motivo venite? E' una faccenda personale?» Parlava con una voce secca, come se Vassia fosse una «postulante».

«Sono venuta per presentarmi al comitato. (Decise di non cominciare a parlar subito del caso di Volodia, perché con quest'uomo non era facile intendersi). Sono arrivata di recente».

«L'ho sentito dire. Ma resterete a lungo qui da noi?»

«Il mio congedo è di due mesi, ma dato il mio cattivo stato di salute, vi resterò più a lungo».

«Vi riposerete oppure vi incaricherete di un'attività?» Domandava senza nemmeno gettare uno sguardo su Vassia. Cercava tra i documenti, come se volesse dire: non vale proprio la pena di raccontarmi delle storie, non ho tempo.

«Non mi incaricherò di un'attività continua, ma se volete impegnarmi nell'agitazione».

«Sì, sì, vi si potrà impiegare. La prossima settimana comincia una campagna per il bilancio locale. Secondo quanto ho sentito dire, siete una specialista nelle questioni degli alloggi». E di nuovo uno sguardo scivolò lungo il viso di Vassia, sguardo che finì per cadere sui documenti.

«Ho lavorato due anni nel dipartimento alloggi... Organizzavo comuni».

«Bene, è interessante. Ci insegnerete ora come le si possa render redditizie».

«Ah, no», disse Vassia scuotendo la testa. «Da quando abbiamo lanciato questo principio della redditività, tutte le nostre imprese sono fallite. Le comuni sono piuttosto una scuola nella quale si può formare lo spirito comunista...»

«Oh, sapete, ora non c'è tempo di occuparsi di tali faccende. Ditemi piuttosto come si possono affrontare le cose in modo più ragionevole con un calcolo finanziario... per alleggerire il bilancio dello Stato. Come volete occuparvi di educazione attraverso i problemi dell'alloggio? Questo è previsto alla scuola, nell'università».

E il presidente del comitato provinciale sogghignò con indulgenza, squadrandola.

Vassia ne fu seccata.

Si alzò bruscamente.

«Addio compagno».

«Arrivederci», rispose quello.

Guardò Vassia con attenzione questa volta, e' lei lo fissò ugualmente con lo sguardo. Si sentiva fredda.

«Dovreste passare alla sezione agitazione; vi farete registrare là. Date anche un'occhiata alla sezione femminile. Hanno sempre bisogno di militanti».

«Volevo ancora domandarvi, come vanno le faccende di Vladimir Ivanovic?» Fece questa domanda guardando il presidente del comitato provinciale con severità, come se volesse dirgli: io so che sei tu che hai ordito tutto...

«Come dirvi?» replicò il presidente del comitato provinciale aggrottando i sopraccigli. Sogghignando, fece scivolare la sigaretta fino alla commessura delle labbra: «Mi sembra un caso serio. Ho sentito dire che voi siete una compagna di grande levatura... Non tocca a me parlarvi di Ivan Ivanovic...»

«Ma di che l'accusate, dunque? Vladimir Ivanovic non ha commesso nessun crimine. Non ne sarebbe stato capace!»

«Dipende da ciò che si intende per crimine!... D'altronde, io non mi immischio in questa storia. Informatevi alla commissione di controllo. I miei rispetti».

Fece un gesto con la testa, e si immerse nei suoi documenti. Era come se dicesse: non m'impedire di lavorare, mi attendono delle faccende serie. Vassia lasciò dunque il presidente, adirata, furiosa. Da loro, in provincia, anche una «senza partito» non sarebbe stata accolta così. Era venuta per trovare dei compagni e invece non era che un'estranea. Vladimir aveva ragione: erano diventati dei funzionari, dei governanti...

Vassia camminava tutta pensierosa e, senza saper come, si trovò faccia a faccia con un uomo della sua provincia: Mikhail Pavlovic, un operaio del dipartimento delle macchine della fabbrica in cui Vassia aveva lavorato.

«Ah, mamma mia! Ma chi c'è qui davanti a me? Vassilissa la bella! La mia cara amica!»

«Mikhail Pavlovic, mio caro amico!»

Si abbracciarono e baciarono.

«Allora, siete venuta a passare il congedo con vostro marito?»

«Ma voi, che fate qui voi?»

«Ripulisco il partito... sono membro della commissione di controllo. Ripulisco, ripulisco, e resta sempre sporcizia».

Nascose un sorriso nella sua barba rossa. I suoi occhi avevano un'espressione affettuosa. Tale era stato in passato, pieno di spirito, e tale era restato.

Erano felici di rivedersi. Si fecero delle domande e si raccontarono storie. Mikhail Pavlovic aveva trascinato Vassia nella sua stanzetta, accanto all'entrata principale. Un tempo, sotto il regno dei signori, vi abitava il portiere. Mikhail Pavlovic, da quando era arrivato, vi si era sistemato provvisoriamente, e poi vi era rimasto. Bisogna dire che non era granché: un letto, un paniere con dei viveri, alcune sedie, un tavolo, sul tavolo alcuni giornali, bicchieri, tabacco...

Quei «provinciali» erano felicissimi di incontrarsi. Non la finivano più di parlare. Ricordavano tutti i compagni, le conoscenze che avevano fatto insieme. Si ricordavano delle faccende della provincia. Si chiedevano che cosa avesse «avuto successo» e che cosa fosse «andato a rotoli». Trattarono il problema della Nep. La Nep, per Mikhail Pavlovic, era come un osso in gola. E inoltre, non amava molto il presidente del comitato provinciale...

E' un uomo molto piccolo, ma vuol mettersi in mostra "io, io e ancora io!". E' vero che lavora molto. E' energico e non è un imbecille. Ma tutto deve passare per le sue mani. Come se tutte le luci del mondo fossero concentrate sul presidente! Agli operai questo non piaceva. Dicevano: il congresso ha deciso di "democratizzare" e da noi si dà prova di ancor più burocratismo e rispetto per la gerarchia. Allora, naturalmente, è la lite. Si formano dei gruppi. Questo impedisce di lavorare e scalza l'autorità del partito. Il presidente del comitato provinciale dovrebbe essere il punto di "riunione" di tutti, un po' come un "padre imparziale"... mentre un uomo come quello finirà per disperdere tutti gli aderenti».

«A proposito, Mikhail Pavlovic, mio caro amico, che ne è dell'affare di Vladimir? In che consistono le accuse? Sono serie? Ditemelo come a un amico».

Mikhail Pavlovic si accarezzò la barba rossa. Rifletté un poco e riconobbe che tutta quella faccenda non valeva una pipa. Se si portavano i comunisti davanti ai tribunali per atti del genere, bisognava giudicare tutti quanti. Tutto dipendeva dal fatto che Vladimir Ivanovic, dal momento in cui era arrivato, non si era inteso con il presidente del comitato provinciale. Ognuno restava sulle sue posizioni. Il presidente del comitato provinciale «prescriveva» mentre Vladimir Ivanovic «non ubbidiva». Diceva: vedete, tutto ciò non mi riguarda. Questa è la linea del partito. Ora, io non vi sono subordinato. Io tengo conto solo delle organizzazioni economiche. Solo queste devono giudicare i meriti del mio lavoro. I conflitti si moltiplicarono. La cosa arrivò fino a Mosca. Ora, sembrava che Mosca sostenesse il presidente del comitato provinciale, ma d'altra parte difendeva il direttore. Non si arrivava a niente perché entrambe le parti avevano ragione.

Più si andava avanti, più le cose si aggravavano. Nessuno dei due cedeva. Al minimo pretesto inviavano rapporti a Mosca. La situazione divenne grave. Si fece venire da Mosca una commissione per discutere tutti questi contrasti. Si adottarono risoluzioni sempre più severe. Ma come la commissione fu partita, la bagarre ricominciò. Adesso si stava esaminando il caso nella commissione di controllo. Mikhail Pavlovic voleva chiudere la questione in modo pacifico. Che il direttore lavori come ne ha bisogno seguendo le direttive economiche. Ma al centro erano scontenti. Non potevano accusare il direttore di veri e propri crimini. Lui lo conosceva fin troppo, l'americano, pensava Mikhail Pavlovic, l'anarchico... L'aveva visto all'opera dal 1917, nella sua provincia. Insieme, avevano conquistato dei soviet. Quanto al fatto che conduceva «un tipo di vita largo», che la sua condotta non era esemplare, che la sua maniera di trattare gli altri non era quella di un «compagno», chi, dunque, attualmente, non peccava in questo senso? Il presidente del comitato provinciale, insieme agli altri membri della commissione, insisteva perché questo caso avesse un andamento «serio». Si trattava di mostrare, con l'esempio del direttore, che il partito non era indulgente con tale atteggiamento, perché gli altri non fossero tentati a seguire la stessa via.

«In che consistono gli "atti" di Vladimir Ivanovic? Non sarà il fatto che ha dei mobili eleganti? Che peraltro non gli appartengono. Sono dello Stato, riferiti alla funzione di direttore».

«Si tratta proprio del mobilio. E' questo che semina il dubbio. Da dove prende il denaro per mantenere due famiglie?»

«Come due famiglie? Pensate che Vladimir Ivanovic mi mantenga? Pura invenzione! Anch'io contribuisco col mio denaro, se volete saper tutto! Vladimir non ha abbastanza denaro per sé, perché il lavoro esige pranzi, ricevimenti».

Mikhail Pavlovic ascoltava Vassia con la compassione negli occhi. Irritava Vassia. Perché doveva compiangerla? perché interveniva in favore di un «anarchico»? Mikhail Pavlovic, a suo tempo, non aveva approvato la scelta di Vassia, quando lei aveva deciso di vivere con Vladimir.

«Perché mi guardate così? Non mi credete? Come avete potuto pensare che io cerchi di estorcergli denaro?»

«Mia cara amica, non è di voi che si tratta... Sono tutti quei conoscenti poco frequentabili che lo mettono in cattiva luce...»

Dicendo questo, guardò Vassia come se volesse controllare qualcosa.

«Alludete a Saveliev?»

«Sì, a Saveliev, ma anche ad altri».

«Saveliev non viene più a casa... Vladimir mi ha promesso di non avere più rapporti con lui... salvo negli affari. Quanto agli altri, sono gli affari a esigerlo... Molte delle persone che ha vicine non gli vanno bene, gli sono indifferenti. Ma che fare? Sono negli affari, intermediari, tecnici».

«Ah, sì», disse Mikhail Pavlovic con voce strascicata. Si accarezzava la barba con un'aria pensierosa.

Vassia gli raccontò che, anche a lei, attualmente, parecchie cose sembravano incomprensibili. Non riusciva più a distinguere il bene dal male. Che fare? Fin dove poteva spingersi un comunista? Gli uomini sono cambiati, e pure il lavoro...

Vassia sarebbe restata ancora a lungo con il suo «paesano», ma Mikhail Pavlovic era convocato alla commissione di controllo. Lasciandosi, decisero che Mikhail Pavlovic avrebbe presentato a Vassia dei ragazzi «onesti», solidamente inseriti nelle fabbriche. Quanto agli affari del «direttore», ci avrebbero ripensato. Ma Vassia doveva sapere che se Vladimir si fosse ostinato nella sua condotta, lo avrebbero espulso dal partito.

«Infine la mia tempesta è di ritorno. Dove sei andata dunque a guerreggiare? Al comitato di partito? Che dice?» Vladimir andò incontro a Vassia appena apparve sulla scalinata. Sembrava attenderla. Vladimir ascoltava Vassia, misurando a gran passi la stanza. Fumava. Il suo viso era preoccupato.

«Mi dici che mi accusano di "mantenere due famiglie". Ma questi bigotti, perché ci ficcano il naso? Se anche mantenessi cinque famiglie... Purché la mia contabilità fosse in ordine e non si rubassero le merci, che avrebbero da rimproverarmi?»

Vassia ancora una volta non ci capiva più niente. Perché si parlava di «famiglie»? Riguardo Saveliev, Vassia mantenne ferme le sue posizioni. Bisognava farla finita. Saveliev doveva solo venire all'ufficio, ma non in casa. Fece quindi delle domande sul conto degli operai: era vero che Vladimir li trattava grossolanamente, che li insultava?

«Menzogne, stupidaggini, spiate. Sì, mi è capitato di gridare, di bestemmiare. Ma se lo meritavano. Non era a vuoto. Non bisogna allentare troppo il morso, soprattutto con gli scaricatori. Sono pigri, sprovvisti di coscienza».

Vassia non gli parlò della minaccia di espulsione. Era già talmente agitato. Ma decise che tutto si sarebbe sistemato sul posto, a casa: nessun invito senza necessità, pasti il più semplici possibile. Il cavallo che Vladimir s'era comprato, era meglio venderlo. Non serviva a niente, dato che disponeva di un'automobile.

E di nuovo Vladimir si eccitava. Quel cavallo era un cavallo da sella, addestrato. Poteva anche portare una sella da amazzone. Non se ne trovavano facilmente, adesso. Un'occasione del genere! E inoltre davvero a buon mercato. Un simile cavallo, coi tempi che corrono, era un «capitale».

«Un "capitale". Allora il tuo scopo è diventare capitalista. Vladimir, abbandona questo genere di vita... Purché non abbia da pentirtene amaramente più tardi...»

«T'immagini che mi espelleranno dal partito! Che vale un partito che pronuncia espulsioni per la "morale"? Ebbene, sia: lavorerò in ogni modo con gli organismi di gestione!»

Vassia vedeva bene che lo diceva per rabbia. Non discusse. Ma insistette su ciò che aveva detto: bisognava ( cambiare modo di vita, tutto doveva essere più modesto, più calmo e soprattutto si dovevano evitare legami poco «convenienti».

Vassia si sarebbe permessa di andare a trovare ancora Mikhail Pavlovic e, in caso di estrema necessità, sarebbe andata a Mosca a trovare Toporkov.

Vassia stava seduta sul davanzale della finestra, talmente magra e pallida che le si vedevano solo gli occhi. La loro espressione non era allegra.

Vladimir la guardava. Gettò la sigaretta sul pavimento e le si avvicinò. L'abbracciò stringendola forte contro il petto.

«Vassia, amica mia, mia tenera amica!... Non abbandonarmi ora, sostienimi... Insegnami come devo fare. So di essere colpevole, non colpevole verso di loro, ma verso di te».

Le appoggiò la testa sulle ginocchia, come se fosse piccolo...

«Ma di che sei colpevole, Volodia?»

Egli taceva.

«In fin dei conti, è vero che tu agisci contro di te. Tradisci il tuo carattere proletario... Ma non è con me che devi confessarti, ma con te stesso...»

«Veramente, Vassia, tu non capisci, tu non senti. Vassia, oh Vassia».

Vladimir si allontanò un poco da Vassia. Sembrava contrariato. E come se volesse interrompere la conversazione, domandò improvvisamente: «E' pronto il pranzo? Ho veramente fame, da stamattina non ho mangiato niente».

Vassia tornò dall'assemblea in cui aveva preso contatto con le donne della fabbrica di imballaggio. Andava spesso nel loro stabilimento, aiutando la donna preposta all' organizzazione a ripartire il lavoro. Le piaceva lavorare con le «masse». Si sarebbe detto che fosse ritornata a casa sua. Andava spesso a trovare Mikhail Pavlovic e si legò con i «ragazzi» che le aveva presentato. Non formavano un gruppo particolare. Ma erano solidali gli uni con gli altri e «lottavano» contro il presidente del comitato provinciale. Non approvavano d'altronde gli «amministratori» e rispettavano solo un vecchio che esercitava le funzioni di direttore alla fonderia d'acciaio. Costui era «dalla loro parte». Non si era mai separato «dalle masse», non era diventato «un governatore di provincia».

L'affare di Vladimir era ben lontano dalla conclusione. Mikhail Pavlovic le disse che erano arrivate nuove direttive. Non erano «buone». Consigliò a Vassia che Vladimir diventasse molto prudente, che evitasse di vedere Saveliev. C'erano degli affarucci poco puliti sul conto di quest'ultimo. Malgrado le proteste degli organi di gestione, il Ghe.Pe.U. non gli avrebbe permesso a lungo di restare in libertà. Vassia si allarmò molto. Si sentiva offesa per Vladimir. Attualmente, egli era occupato dal mattino fino alla sera tardi. Appena entrato in casa, si metteva immediatamente a verificare i libri contabili. Riorganizzava la contabilità in base agli ordini del centro, «aveva fatto venire uno specialista d'affari bancari». Insieme esaminarono meticolosamente fino alle tre del mattino i grandi libri contabili. Vladimir era diventato magro. Soffriva d'insonnia. Su di lui pesava una doppia preoccupazione: da una parte dover sorvegliare affari di grande responsabilità, dall'altra, le beghe. Vassia soffriva per lui.

La tenerezza nei suoi riguardi le riempiva tutta l'anima. A casa loro non venivano più invitati. Non si sentiva più parlare di Saveliev. Si sarebbe detto che fosse partito. Era meglio, d'altronde, che fosse così. Vladimir non andava più al teatro, né dai suoi amici. Rientrava ogni sera a casa, preoccupato, silenzioso, cupo.

Vassia non sapeva che inventare per distrarlo, per facilitare il lavoro del suo sposo-compagno.

Lo dimenticava solo quando stava alla fabbrica delle tele da imballaggio. Fra le operaie, era allora al servizio del partito. La vita era difficile, i salari bassi. Non si riusciva sempre a tenere ancorati i salari al costo della vita e, inoltre, si era in ritardo con le paghe. La «direzione» era deficiente in materia di gestione. Erano degli sventati. Vassia fece pressione su di essi. Difendeva gli interessi dei lavoratori. Alla fine, fece intervenire il sindacato e portò la questione fino alla «commissione d'arbitraggio».

In fabbrica, Vassia era in ebollizione. Dimenticava tutto il resto e non vedeva più la luce del giorno. Rientrava a casa a piedi con l'organizzatrice Liza Sorokina. Era un'operaia giovane e intelligente. Vassia aveva cominciato ad amarla. Camminavano insieme discutendo. Abbozzavano «un piano». Su chi bisognava far «pressione», come accelerare le cose alla commissione d'arbitraggio?

Erano arrivate senza accorgersene fino alla casa di Vassia. Entrarono. Vladimir venne loro incontro. Era strano, oggi, sembrava contento. I suoi occhi splendevano. Un piccolo fuoco astuto danzava nel suo sguardo. Abbracciò Vassia appena entrata.

«Allora, mia piccola Vassia, puoi felicitarti con me. E' arrivata una lettera da Mosca. Avrò un trasferimento. Una promozione, perbacco. Dirigerò un intero distretto. Dovremo restare qui solo ancora due mesi, per terminare gli affari in corso. Ah, ce l'abbiamo fatta con quelli della commissione di controllo! Il presidente del comitato provinciale non oserà più fiatare».

«Dimmi, non esultare troppo facilmente! Purché il tuo affare non comprometta la nomina».

«Sciocchezze! Ora quelli del centro non mi lasceranno più cadere. Gli sono diventato indispensabile».

Esultava come un ragazzo; accarezzava Vassia, la abbracciava.

«Allora, mia tempesta instancabile, ti ho portato un regalino per festeggiare la buona notizia».

Nella camera da letto, sul letto, sono esposti un taglio di seta azzurra e un altro di batista bianca.

«E' per te. Seta azzurra per un vestito... Fatti un po' elegante, mia carissima. Questo azzurro ti starà a meraviglia. La batista è per delle camicie».

«Per delle camicie. Ma mio piccolo Volodia, che ti immagini», disse Vassia ridendo. «Fare camicie con una stoffa simile!»

«Questa stoffa va benissimo per la biancheria. E' batista come ne portano le dame, finissima... Non vorrai portare tutta la vita dei "cilici". Ti gonfiano come una vescica».

«Ah, no, ne farò delle bluse. Quanto alla seta, benché sia molto bella, hai fatto male a procurartela. L'hai indubbiamente pagata in contanti. Perché fai queste spese inutili?»

Vassia scuoteva la testa. I regali di Volodia non la rendevano felice. Avrebbero di nuovo detto che era uno «sperpero». Allo stesso tempo provava pena, come se lo avesse offeso.

«Forse ti dispiace?» domandò Vladimir.

«Non c'e che dire, è una stoffa magnifica. Ma quando la porterò? Rifletti dunque un po' tu stesso».

«Ma quando andrai al teatro».

«Sì, forse quando ti accompagnerò al teatro nella mia qualità di "moglie di direttore"». Vassia s'era messa a ridere immaginandosi vestita con quell'abito azzurro. «Non fa niente, ti ringrazio della tua gentilezza e della tua attenzione».

Si alzò e abbracciò Volodia, lo baciò con tutte le sue forze.

«Ah, mia piccola Vassia, non hai dimenticato come baciare. Io pensavo che tu avessi finito per non amare più tuo marito... che tu lo avessi cacciato dal tuo letto... Non mi ti avvicini mai, non mi fai mai una carezza».

«Ma ascolta, che dipenda dall'uno o dall'altra, non troviamo mai il tempo. Tu, d'altronde, hai ben altro per la testa!»

«Ma non è perché hai cessato di amarmi?»

«Io cessare di amarti. Se vuoi ti ricorderò come ci amavamo un tempo».

Ridevano entrambi, come se si ritrovassero dopo una lunga separazione.

Vassia andava in fretta alla fabbrica delle tele da imballaggio. Ma appena arrivata al cancello, ricordò che aveva dimenticato di portare il libro di Bukarin, L'ABC del comunismo. Quel libro era nell'armadio di Volodia. Andò al suo ufficio a tutta velocità, aprì la piccola porta a vetri. Ma ecco che un pacchetto cadde dal ripiano più alto. Toccando il pavimento, si aprì. Vassia si chinò per raccoglierlo e si sentì stringere il cuore come da una tenaglia: c'era dentro un taglio di seta azzurra, del tutto uguale a quello che Volodia le aveva regalato, ed esattamente la stessa pezza di batista. La sola differenza era costituita da un mucchio di merletti e ricami.

«Per chi sono?»

Vassia aveva paura a pensarci, paura di capire tutta la verità. Ora, a un tratto, la piccola vipera della gelosia aveva riguadagnato il suo cuore, e vi muoveva la lingua velenosa...

«Mantiene due famiglie».

Il suo umore non era costante: ora la ignorava, come un estraneo, ora era esageratamente affettuoso, come per un senso di colpa. Ricordò che era sempre profumato, dopo le serate al teatro. Lo rivedeva davanti allo specchio, mentre si agghindava con cura per uscire la sera... Le tornò anche alla memoria la sedicente infermiera, quella dalle grosse labbra che aveva creduto di aver dimenticato, così come l'episodio dell'assorbente igienico. Le tenebre discendevano sugli occhi di Vassia. Le mani non le appartenevano più, si erano improvvisamente pietrificate... Un dolore inesprimibile le serrava il cuore. Volodia, il marito-compagno, tanto amato, la ingannava, ingannava lei, Vassia, la sua amica.

Frequentava altre donne, a sua insaputa e anche quando c'era Vassia. Quando si è separati, è un'altra cosa... Ma ora, nel momento stesso in cui accarezzava Vassia, mentre lei era con lui con tutto il suo cuore, con tutto il suo amore, con tutta la sua tenerezza! Ma allora, forse non l'amava più! Non era possibile!... Vassia non poteva crederci... Cercava un fuscello di paglia a cui attaccarsi, come una disperata che stesse affogando. Se veramente non l'amava più, poteva essere così affettuoso, così pieno di attenzioni? Perché avrebbe spinto Vassia a venir qui? D'altronde, come avrebbe potuto succedere che Volodia cessasse d'amare Vassia? Essi erano più che parenti, come rami saldati l'uno all'altro. Erano degli amici-compagni. Ne avevano vissute di cose, insieme! La disgrazia adesso li attendeva al varco... Vassia non voleva crederci... ma la vipera della gelosia continuava a morderle il cuore col suo dardo velenoso. Perché, allora, restava così poco in casa? Perché era così triste, così sinistro? Perché non aveva mai il tempo di guardare Vassia come una volta? Perché aveva preso il pretesto della tosse di Vassia per dormire solo? La vipera della gelosia mordeva così dolorosamente la sua anima che avrebbe voluto gemere. Ma Vassia aveva paura di prestare ascolto alla voce profetica della vipera e la respingeva. Mentitrice... E' Vassia che Vladimir ama, egli la ama. Altrimenti non avrebbe potuto accarezzarla come ha fatto ieri. Quei tagli di seta erano forse destinati a qualcun altro, forse doveva consegnarli a qualcuno. Perché aveva deciso che quel pacchetto gli apparteneva? Non c'era scritto. Era stata lei a immaginarselo.

Un pensiero confuso le si agitava dentro: «mantiene due famiglie».

Vassia provava vergogna per la sua diffidenza, perché ragionava come una «donnetta». «Sorvegliava suo marito!..»

La piccola vipera non le dava tregua e lei faceva tacere i suoi sospetti. Vladimir sarebbe ritornato, gli avrebbe chiesto tutto con precisione. Avrebbe saputo la verità.

Prese L'ABC del comunismo ed eccola partita per la fabbrica. Era già in ritardo, anche senza questo contrattempo.

Vassia si affrettò a rientrare. Pensava che sarebbe arrivata tardi per la cena.

Alla fabbrica, la vipera si era calmata. Ma appena uscita in strada, come si era ritrovata sola, tutto era ricominciato.

«Mantiene due famiglie».

Due tagli di seta uguali, due pezze di batista. Da chi sapeva Volodia che la biancheria femminile si fa con la batista? Chi porta una tale biancheria? Prostitute, donne di nepman che dispongono di enormi somme di denaro... E che cosa le ha detto parlandole della sua biancheria? Ha parlato di «cilicio» che gonfiava come vesciche... Come se si trattasse solo di biancheria! Un tempo, dopo una lunga assenza, non sarebbe uscito fin dalla prima sera... Aveva detto che era per partecipare a una riunione. Ma allora perché si era fatto così elegante guardandosi allo specchio? Perché aveva addosso quel profumo? Perché aveva cessato di guardare Vassia col suo occhio gioioso e malizioso? Vassia si disse che appena giunta a casa gli avrebbe fatto delle domande. Dimmi la verità, su questo e su quello. Per chi tieni da parte questa stoffa? Perché l'hai nascosta nella libreria? Se questo taglio appartenesse a qualcun altro, l'avresti semplicemente messo sul tavolo... Andiamo, non giocare d'astuzia, non mentire. Stai attento, non te lo perdonerò...

Vassia fece le scale quattro a quattro. Suonò con precipitazione. Perché la vettura era già nel cortile. Vladimir, dunque, era già rientrato. Voleva vederlo immediatamente, ed esigere una risposta da lui. Non gli avrebbe perdonato «la menzogna»; non gli avrebbe permesso di fare di lei un giocattolo come fanno i mariti prendendosi gioco delle mogli che non amano.

Vassia era eccitata. La sua collera cresceva. Perché ci mettevano tanto ad aprire?... Infine la serratura scattò.

«Ci sono degli invitati venuti da Mosca», le annunciò Maria Semionovna. «Sei persone».

«Invitati? E chi dunque?»

Si sentivano voci nel salone; la conversazione era animata. Vladimir interpretava la parte del padrone di casa. Presentò sua moglie Vassilissa Dementievna. Erano membri del cartello dell'industria, appena arrivati. Portavano un nuovo piano di lavoro. Vassilissa avrebbe voluto parlare di ciò che succedeva a Mosca, del processo politico di cui tutti si preoccupavano. Ma Maria Semionovna apparve nel vano della porta e misteriosamente fece dei gesti per chiamare Vassia. Evidentemente, si trattava di dare una mano. Avevano mandato Vassia, il fattorino, a cercare del vino. Ivan Ivanovic era uscito per procurarsi degli antipasti. Quanto alla degna Maria Semionovna, non ce la faceva più. Doveva allo stesso tempo stare in cucina e apparecchiare la tavola. Era necessario che Vassia l'aiutasse. Vladimir esigeva che tutto fosse perfetto. La tavola doveva avere lo stesso aspetto che «al tempo dei signori».

Maria Semionovna e Vassia si davano da fare. E per fortuna era tornato Ivan Ivanovic, che così potè dare anche lui una mano.

Vassia non aveva più tempo per pensare al taglio di seta azzurra. La piccola vipera stava nascosta nel suo cuore, tacendo come se non fosse mai esistita. Vassia voleva far piacere a suo marito, affinché, come direttore, non perdesse la faccia davanti ai membri del cartello industriale.

Vassia accorse tutto ansante, con il vino. Ivan Ivanovic stappò le bottiglie. Avevano apparecchiato la tavola come per Pasqua. Antipasti, vini, fiori, salviette provenienti dalla fabbrica di tessuti di Morozov, coperti d'argento.

Gli ospiti furono pregati di passare a tavola. Vladimir gettò uno sguardo circolare sulla tavola. Era soddisfatto. Ma perché, non fosse che con uno sguardo, non aveva ringraziato Vassia? Lei ci aveva messo tutto il suo impegno. La piccola vipera si risvegliò facendo fischiare il suo dardo avvelenato. Questo le faceva male, la rendeva folle d'angoscia.

Vassia conversava con i suoi ospiti, ma dentro di sé continuava a pensare alla seta azzurra... A chi era destinata? Sì, a chi veramente? Guardò Volodia d'un occhio nuovo. Se le mentiva, se la ingannava, era veramente un «estraneo»... Perché se le fosse stato veramente vicino, avrebbe avuto pietà di lei e non avrebbe permesso al maledetto rettile di levarsi nel suo cuore...

Vassia fu occupata per tutta la serata. Cercò dei posti per la notte per i suoi visitatori; inviò il fattorino Vassia a cercare dei cuscini e organizzò un vero «dormitorio comunitario», nell'ufficio; ma gettava continuamente delle occhiate al maledetto armadio libreria. Dentro c'era il taglio azzurro. Per chi era? A chi sarebbe andato?

Vassia era stanca di tutto quel va e vieni. Aveva offerto tè ai suoi ospiti. Tuttavia essi continuavano a parlare dei loro affari. Analizzavano le diverse categorie di merci, i mezzi d'imballaggio, specificavano i prezzi.

Erano persone serie, tutti vecchi commercianti. C'erano sì due comunisti fra loro. Ma si erano rapidamente messi al passo ed erano diventati dei veri «commercianti rossi»...

Vladimir si illuminava, fiero del suo lavoro. Aveva superato tutti. I suoi affari s'ingrandivano ogni mese. I commercianti gli mostravano rispetto. Lo ascoltavano, e nessuno prestava attenzione agli altri membri della direzione.

Vassia notò tutto questo. In altri tempi, sarebbe stata contenta per Vladimir, ma oggi lui le sembrava talmente «estraneo»...

Gli affari, sempre gli affari, ma a lei nemmeno ci pensava. Non si rendeva conto di quanto era stanca di questa giornata? Di quanto la gelosia le aveva torturato il cuore con morsi dolorosi? Se la ingannava, se le mentiva, forse non era «corretto» nemmeno nel suo lavoro? Forse il comitato di partito aveva ragione a esigere da lui il rendiconto.

Ma che avevano dunque da parlar tanto questi membri del cartello industriale? Non bastava loro la giornata? Se almeno avesse potuto prendere Vladimir a quattr'occhi, se avesse almeno potuto sapere la verità sul taglio di seta azzurra!...

Vassia si preparava a mettersi a letto. Attendeva Vladimir, perché questa volta avrebbero passato la notte insieme. I membri del cartello avevano occupato tutte le stanze. Tendeva l'orecchio a ogni passo. Tutti gli ospiti avevano preso congedo gli uni dagli altri. Solo Ivan Ivanovic dava ancora ordini per l'indomani. Arrivava qualcuno. Il cuore di Vassia palpitava al suo avvicinarsi. Le ginocchia le tremavano. Si sedette sul letto. Come entrerà, gli farà la domanda. Ma Vladimir non le diede il tempo di farla. Aveva un mucchio di cose da raccontare, e pregava Vassia di consigliarlo: come riorganizzare l'apparato del partito in modo tale che i comunisti fossero rafforzati nella loro posizione e che i borghesi del cartello fossero tenuti sotto il tallone del partito.

«Vassia, consigliami. E' veramente il tuo campo. Pensaci. Domani avremo una riunione per esaminare insieme i nuovi statuti. Se tu potessi leggerli prima e riflettervi! Alcuni individui con dei grossi pancioni strisciano furtivamente verso il potere, conducono una campagna segreta contro di noi, i proletari... Non fa niente! Abbiamo tanto di baffi. Ma bisogna costruire un partito tale che non si possa fare un sol passo senza di lui, senza i comunisti».

«Ma guarda un po' come esegui le decisioni del partito. Non mi hai detto tante volte "se mi espellono dal partito, non sarà una gran disgrazia, riuscirò a vivere senza starci"?»

«Si dicono tante cose quando si è in collera», rispose Vladimir sogghignando. «Tu puoi comprenderlo... Come si potrebbe vivere senza il partito? Uno non può separarsene», disse Vladimir pensosamente, levandosi gli stivali. «Purché questa faccenda che mi hanno lanciato contro finisca! Un peso di meno sul cuore. Vassia, come vivremo davvero insieme, vedrai che comunista modello sarò appena mi trasferiranno in un altro distretto. Peraltro, non dovrò incontrare il presidente del comitato provinciale. Sarò un vero santo». Volodia era contento, oggi. Non aveva l'aria sinistra degli ultimi tempi. Nei suoi occhi brillava una piccola luce astuta.

«Bene, dormiamo».

Vladimir fece il gesto di spegnere la luce, ma Vassia gli trattenne la mano.

«No, aspetta un po'. Devo... devo prima domandarti...» Si sollevò appoggiandosi sul gomito, per veder meglio il viso di Vladimir.

Il cuore le batteva e la voce era mutata. Vladimir era attentissimo.

«Andiamo, fai la domanda».

Ma lui girò lo sguardo e fissò il muro.

«Volevo domandarti com'è che nel tuo armadio per i libri c'è una pezza di stoffa, della seta e della batista?...»

«Seta? Vuoi parlare dei campioni che ho».

«Andiamo, che campioni? Ce un taglio grande, uguale a quello che mi hai regalato... Per chi era? Per chi?»

Fissava Vladimir con lo sguardo come se volesse penetrarlo.

«Vuoi sapere per chi? Davvero non lo indovini?»

«No».

«Ma è per Ivan Ivanovic. Mi ha chiesto di portargli un taglio di stoffa per la sua fidanzata. Fa sempre a gara. Quello che ottengo io, deve averlo anche lui!... Mi scimmiotta letteralmente».

Spiegava ciò così semplicemente, senza affrettarsi, che il sangue affluì alle guance di Vassia, vergognosa dei suoi pensieri.

«Per Ivan Ivanovic, per la sua fidanzata? E dire che io avevo pensato...»

«Che vuoi dunque pensare», disse Vladimir d'un tono canzonatorio, e girò il viso verso Vassia.

«Amor mio, ti amo tanto. Mio piccolo Volodia».

Vassia lo baciava. Come l'aveva sfiorata un tale pensiero? Non aver fiducia, sospettare di lui, del suo amico?

«Andiamo, andiamo, che avevi pensato, dunque? Ah, mio apprendista spione, mio piccolo giudice istruttore fasullo...»

Volodia strinse Vassia, ma nei suoi occhi si leggeva l'inquietudine.

«Bene, ora bisogna dormire. E' bello baciarsi, ma domani ci attendono tanti di quegli affari che bisognerà alzarsi molto presto».

E spense la luce.

Il cuore di Vassia sembrava essersi liberato di un gran peso. Ma stava per addormentarsi quando sentì un morso al cuore.

Perché l'aveva chiamata il suo apprendista spione, il suo giudice istruttore? C'erano delle cose da spiare? Vladimir dormiva profondamente, ma Vassia si rannicchiava al suo fianco. Fissava l'oscurità. Non dormiva. Credergli o non credergli?

I membri del cartello industriale erano partiti. Vladimir aveva adesso un lavoro due volte più grande: la riorganizzazione, e preoccupazioni a volontà. Ma era anche arrivata una buona notizia. Mikhail Pavlovic aveva invitato Vassia a passare da lui nel suo alloggio.

«Le cose sono arrivate a buon termine», disse. «Sono arrivate in segreto dal centro le istruzioni seguenti: il direttore non ha commesso un vero "crimine", ma la sua mancanza di disciplina e la sua condotta, che non è "un modello", gli hanno attirato ogni sorta di recriminazioni. Bisogna archiviare il caso senza pubblicità e lasciare che si sistemi senza chiasso».

Vassia sospirò. Si sentiva rassicurata, «grazie a dio», le venne di dire, secondo la sua vecchia abitudine, a si riprese in tempo. Mikhail Pavlovic era felice soprattutto per Vassia. L'amava davvero e la compiangeva.

Ma ecco che Vassia subì uno smacco. La commissione d'arbitraggio prese una decisione in favore della direzione. Le operaie non erano contente, era nell'aria lo sciopero. I menscevichi raccolsero tutte le loro forze. Lavoravano nascondendosi come «senza partito». Si creava uno stato d'animo pericoloso. Malgrado la tosse e la febbre Vassia passava giornate intere in fabbrica. Discuteva con il direttore, insisteva, esigeva delle concessioni. Cercava di calmare le operaie. Si dedicava completamente a questo compito. Il taglio di seta azzurra fuggì via dal suo spirito. Non aveva il tempo di pensarci. Una sola volta Vassia sentì che il piccolo serpente che covava in seno sarebbe stato duro da estirpare. Tutto quello che seguì avvenne a causa di un cane, un barboncino bianco.

Un giorno Vassia, il fattorino, portò a casa un barboncino bianco. Sulla testa dell'animale, tra le orecchie, era annodato un ridicolo fiocchetto di seta.

«A chi appartiene? Di dove viene? Perché l'avevano portato?»

Vassia, il fattorino, disse che Vladimir Ivanovic gli aveva ordinato di portare a casa il barboncino, e che lui stava ubbidendo al padrone. Apparteneva a Saveliev che era in viaggio La casa era vuota e il barboncino si annoiava molto.

Vassia si stupì di questa pietà per i cani da parte di Vladimir. Era veramente per compiacere Saveliev? Riapparve il suo risentimento nei confronti di costui. Perché Vladimir si ostinava ad avere delle relazioni con lui, con quel trafficante, quel mascalzone! Quando Vladimir rientrò, il barboncino gli girava intorno come se avesse sentito il «padrone». Vladimir accarezzò la bestia e gli parlò.

«Da dove viene questo cane, Volodia? Appartiene a Saveliev?»

«Ma niente affatto, è il barboncino della fidanzata di Ivan Ivanovic. E' partita e Ivan Ivanovic mi ha chiesto se potevamo guardarglielo per un po'».

«Sì, ma Vassia ha detto che quest'animale apparteneva a Saveliev».

«Ma che ha raccontato, quello? E' vero che in questi ultimi giorni questo cane è restato a casa di Saveliev e che Vassia è andato a prenderlo là. Ha dunque deciso che era di Saveliev».

Vassia ascoltava. A prima vista, tutto era chiaro e semplice. Ma incontestabilmente la vipera continuava a vivere nel suo cuore. Le sue spire si stringevano sempre di più. Credere? Non credere?...

Come Ivan Ivanovic fu di ritorno, Vassia gli domandò a chi appartenesse il barboncino.

Ivan Ivanovic raccontò con moltissimi dettagli tutta la storia della sua fidanzata, come gli aveva chiesto di custodire il barboncino... Ma che fare? Lui, per così dire, non sta mai in casa. Dunque lo aveva mandato da Saveliev. Ma c'era solo la donna di servizio che lo chiudeva quando se ne andava...

Probabilmente era proprio così. Ma ormai Vassia odiava quel barboncino.

Vladimir Ivanovic si assentò per alcuni giorni, a quanto aveva detto, per affari riguardanti il cartello industriale.

Vassia restò sola. Pensava di annoiarsi molto. Ma, tutto al contrario, le sembrò di ritrovarsi. Il peso che, in presenza di Vladimir, le gravava sul cuore come una pietra, scomparve. Non aveva nemmeno più animosità nascosta, non espressa, nei confronti di Volodia. Ma per il fatto che non le prestava più attenzione, le cose si presentavano in modo diverso: si sarebbe detto che Vassia non esistesse più. Certo, lei comprendeva che era preoccupato, che aveva altro per la testa, ma il suo cuore di donna, stupidamente, ne era rattristato, come privato di tenerezza.

Ma ecco che senza Vladimir tutto andava meglio. Era sola, ebbene, tanto peggio, bisognava risolversi. Era inutile adesso prestar orecchio, lottare per non perder la faccia.

Vassia invitò i suoi amici: Liza Sorokina, i ragazzetti della fabbrica, Mikhail Pavlovic. Organizzò un pranzo. Aveva voglia di offrirglielo. Dopo pranzo, discussero degli affari del partito. Passeggiarono per il giardino e cantarono in coro... Tutto andava bene, si sentivano felici. Soprattutto Vassia. Era davvero tutt'altra cosa da quando doveva intrattenere la conversazione con dei membri del cartello industriale o con Saveliev. Vassia non si rese conto che i giorni passavano, durante l'assenza del marito.

Vladimir tornò col treno del mattino.

Vassia stava bevendo il tè, quando egli entrò. Trasalì e gli andò incontro. Lui non la baciò, le prese la mano e la portò lentamente alle labbra... Sollevò la testa e i suoi occhi erano pieni di lacrime. Vassia sentì mancarsi il cuore.

«Che ti succede, Volodia? Di nuovo qualche dispiacere?»

«No, Vassia, non mi è successo niente. Solo, la vita mi è penosa, tutto mi affatica».

Si sedette a tavola, la testa tra le mani, ma le lacrime continuavano a scorrere...

«Ma Volodia, che hai, dunque? Dimmelo, amico mio, ti sentirai meglio».

«C'è da chiedersi se mi sentirò meglio, Vassiuk!» diceva Vladimir con tristezza. «Ho riflettuto molto, mi ci sono rotto la testa. Vassia, io ho sofferto molto... Ma non andrà meglio dopo, perché non c'è via d'uscita».

Il cuore di Vassia si strinse di nuovo, perché presagiva, con spavento...

«Volodia, non mi fare aspettare. Dimmi la verità. Dimmela, sono completamente esaurita e non posso trovar riposo».

Mentre parlava, le mancava il respiro. Si lasciò prendere dalla tosse.

«Andiamo, vedi, ricominci a tossire. Non si può parlare con te».

Nella voce di Volodia risuonò un rimprovero, o forse dell'angoscia. Vassia tossiva e Volodia si accigliava. Fumava la sigaretta sempre più in fretta.

«Bevi almeno un po' di tè. Chi sa! forse passerà», consigliò Vladimir.

«No, prenderò le gocce».

L'accesso di tosse passò. Vassia servì il tè a Vladimir, mentre lui le raccontava, col tono abituale, questa volta, le difficoltà che aveva dovuto affrontare. Erano gli scaricatori a protestare, questa volta. Volevano che si pagassero le loro ore di straordinario a una tariffa più alta, ma avevano abbassato il «ritmo»... Il cartello industriale aveva subito dei danni, per causa loro, e ora quelli passavano alle minacce.

«Se non ci pagate, faremo sciopero!»... Forse ci sono in mezzo a loro degli agitatori. Non si riusciva a sorvegliare tutto. Era appena sceso dal treno che già Ivan Ivanovic gli si precipita incontro con un rapporto. Ecco a che punto si era. Se ne era andato appena per pochi giorni e immediatamente scoppiava un conflitto. Perché gli altri membri della direzione non avevano preso alcuna decisione? Non avrebbero dovuto lasciar arrivare le cose a una «situazione così tesa». Ora sarebbe cominciata tutta una storia che avrebbe dato al comitato provinciale dei motivi per intervenire.

«E' per questo che hai detto che la vita era penosa, che non c'era via d'uscita, a causa degli scaricatori?»

«Ma evidentemente. Che t'immaginavi?»

Vladimir lanciava sbuffi di fumo dalla sua sigaretta, girava lentamente il tè con un cucchiaino. Si mise di nuovo a dissertare sul conflitto. Che provvedimenti si dovevano prendere per evitare lo scandalo, il putiferio?

Vassia lo ascoltava con un solo orecchio. Credere o non credere?

Si sarebbe veramente messo a piangere a causa degli scaricatori? Questo non era nel suo carattere. Doveva esserci qualche altra storia tipo «il taglio di seta azzurra». Nel suo cuore si svegliò di nuovo la vipera. Ma Vassia non voleva lasciarsene dominare. Forse era semplicemente la stanchezza. L'avevano veramente esaurito con quel processo alla commissione di controllo. Vassia cercava di convincersi. Non voleva pensare che Vladimir avesse altre preoccupazioni oltre quelle che gli dava il lavoro. I colpevoli erano i membri della direzione, e gli scaricatori.

Vassia ritornava in fretta e furia dalla fabbrica. C'era finalmente riuscita. La direzione aveva ceduto e si era decisa a fare delle concessioni. Le operaie esultavano. Avevano accompagnato Vassia alla porta della fabbrica. Ma Vassia sapeva che non sarebbe finita così, se non fosse intervenuto il presidente del comitato provinciale. Vassia attualmente lo incontrava spesso. Ed era riuscita ad apprezzarlo. Era un uomo deciso, non troppo tollerante anche verso gli amministrativi...

Vassia tornava a casa, ma ad un tratto si accorse che il cortile era invaso dagli scaricatori. Il frastuono copriva tutto. Discutevano. Quelli con la voce più forte dichiaravano senza mezzi termini: «Pagateci alla massima tariffa! Nessuna concessione, altrimenti facciamo dietro-front e lasciamo il lavoro. La direzione dovrà fare i carichi da sola con i suoi impiegati».

Vassia scivolò tra la folla. Ascoltava, faceva domande. La riconobbero. Fu circondata. Volevano gridare tutti più forte degli altri ed esporre i motivi del loro scontento. Non li avevano pagati interamente. Le ore straordinarie erano andate in fumo. I calcoli erano falsi. Vassia fu minacciata. Anche la direzione. Nella sua qualità di «moglie del direttore», non aveva che da intervenire, spiegare le cose a suo marito... Con simili tariffe, i padri di famiglia non potevano mantenere i loro...

Vassia ascoltava, domandava. Quelle rimostranze, quelle lamentele le erano familiari e le comprendeva talmente bene. Era una serie di offese che aveva provocato questo stato di ebollizione. Gli amministrativi e i burocrati avevano una vita comoda; avevano il ventre pieno ma toglievano letteralmente «la pelle agli scaricatori». I loro figli non avevano di che vestirsi... Non si poteva continuare così. Bisognava far pressione sulla direzione, fosse anche per il tramite del sindacato. Senza organizzazione e senza un piano, non si poteva ottenere nulla. Si affermarono dei «sobillatori». Essi si intesero con Vassia. Si decise di «formulare» per scritto le rivendicazioni e, se la direzione non avesse ceduto, ci si sarebbe rivolti direttamente alla commissione d'arbitraggio. Vassia si infiammava. Dimenticò la sua posizione di «moglie del direttore». Sposò totalmente la causa degli scaricatori. In loro sentiva il suo «prossimo» e le era impossibile non aiutarli coi suoi consigli. Erano senza esperienza. Non c'erano tra loro dei veri dirigenti. Invitò gli agitatori a venire a casa sua per formularvi le rivendicazioni. Entrarono. Gli scaricatori attraversarono le stanze da ricevimento per andare nella camera da letto di Vassia. Contemplavano di malocchio l'interno degli appartamenti del direttore. Vassia allora si rese conto che non avrebbe dovuto introdurre gli scaricatori in casa sua. Ma era troppo tardi per battere in ritirata.

Tutta questa gente si sedette intorno al tavolino personale di Vassia per formulare le rivendicazioni.

Nel cortile, la collera si spense per dar luogo all'attesa. Si formavano dei gruppetti: nascevano conversazioni, tutto in un'atmosfera impregnata di fumo. Ma all'improvviso la collera riprese. Si avvicinava un'auto, quella del direttore. Fece direttamente irruzione nel cortile.

«Belle maniere! Vi immaginate di poter fare una riunione qui! Ah, minacciate? Non siete contenti!»

La voce di Vladimir rombava come un tuono.

«Non ci penso nemmeno a discutere con voi... Questo è il mio appartamento privato. Andate alla direzione. E se non siete soddisfatti dei prezzi fissati, trasmettete le vostre lamentele ai sindacati. Questo non ha niente a vedere con la direzione, che ha ben altre preoccupazioni. Se volete scioperare, questo riguarda voi. Se i sindacati prendono una tale decisione, fate sciopero. Ma nel frattempo sloggiate, che non vi si veda più! Non vi voglio nemmeno vedere. Mi parlerete in direzione».

Vladimir si sbatté dietro la porta. Andò direttamente nella camera da letto di Vassia.

Si irrigidì sulla porta vedendo Vassia con gli scaricatori intorno al tavolino. Seduti, essi «formulavano le loro rivendicazioni»...

«Questa poi è nuova! Chi vi ha fatto entrare? Come avete osato fare irruzione qui senza esserne autorizzati? Alla porta, fuori di qui!»

«Ma Vladimir Ivanovic, non siamo venuti per nostra decisione. Vostra moglie...»

«Tagliate la corda, vi dico, se no...»

Vladimir divenne pallidissimo. I suoi occhi lampeggiavano. Da un momento all'altro avrebbe cominciato a picchiare.

Gli scaricatori uscirono precipitosamente.

«Ma Vladimir, sei diventato matto? Come osi parlare così? Sono io che gli ho detto di venire!... Fermatevi, compagni... Fermatevi, compagni, dove andate?»

Vassia si precipitò verso gli scaricatori. Ma Vladimir l'arrestò stringendole il braccio al di sopra del gomito con una tale forza che Vassia gettò un grido.

«Sei tu che gli hai detto di venire? Chi ti ha autorizzato a farlo? Chi ti ha invitato a immischiarti nei miei affari? Tu non sei responsabile del cartello industriale... Se vuoi coltivare gli scioperi, va a farlo nella tua fabbrica».

«Ah, è così che parli... Mi cacci perché difendo il diritto, perché cammino coi miei fratelli, perché non proteggo gli interessi del direttore, perché farò abbassare i premi?»

«Oh, sporca bigotta...» Fu come se colpisse Vassia a scudisciate. «Maledetta! »

Lei, Vassia, era una maledetta! Stavano l'uno di fronte all'altra, fissandosi nel fondo degli occhi, come due nemici... Un'angoscia saliva dal fondo del loro cuore, un'angoscia inaudita, lugubre, mortale... Era la fine della loro felicità.

Gli scaricatori si dispersero. Vladimir andò alla direzione. Quanto a Vassia, giaceva attraverso il letto, con il viso nella coperta di seta. La seta era bagnata di lacrime. Ma un tale dolore non può finire con le lacrime.

Il dolore non veniva dal fatto che lui l'aveva maledetta, ma dal fatto che erano diventati «estranei» l'uno all'altra, che non si comprendevano più... Erano due nemici, appartenenti a campi opposti...

Passarono dei giorni grigi, senza gioia. Vladimir restava molto a casa, ma non serviva a niente. Erano come estranei l'uno all'altra, e non si parlavano che per l'indispensabile. Ciascuno viveva nel suo angolo. Vassia ricadde malata. Ivan Ivanovic andò a cercare il dottore. Questi prescrisse la calma assoluta, il minimo possibile di emozioni. Vladimir, Ivan Ivanovic e il contabile si occupavano dei loro affari, e restavano chiusi nell'ufficio fino a sera. Uscivano solo per pranzare, ma restavano preoccupati, sinistri, poco loquaci.

Liza Sorokina passava a trovare Vassia di corsa, per darle le notizie della fabbrica. Le operaie erano rattristate per la malattia di Vassia.

Ora, lei non soffriva per la sua malattia, ma per il fatto che lei e Volodia erano diventati «estranei». Entrambi non riuscivano a dimenticare il conflitto che era scoppiato con gli scaricatori. Nessuno dei due poteva perdonarsi qualcosa, in fondo all'animo.

Vassia accarezzò l'idea di tornare alla sua provincia. Avrebbe voluto rientrare «a casa». Ma dov'era questa casa? Grusa s'era installata nella mansarda, sotto i tetti. Viverci in due era impossibile, perché troppo stretto. Non poteva nemmeno riposarsi presso i suoi parenti. Avrebbero cominciato a «piagnucolare» sulla loro vita e a ingiuriare i bolscevichi... Ma dove poteva andare, allora? Vassia scrisse a Grusa chiedendole di cercarle una stanza. Si rivolse anche a Stepan Alexievic perché le trovasse qualche attività nel lavoro che il partito faceva tra le masse. Appena avesse ricevuto una risposta sarebbe partita. A che poteva servire, qui? Era inutile... Volodia viveva bene senza di lei. Alcuni giorni si trascinarono con lentezza, pieni di ansia. L'estate era al culmine. Nel frutteto le ciliegie erano mature; i pruni si coprivano d'un bruno azzurrognolo. I gigli vivaci scoppiavano di bianchezza sui loro alti steli sottili. Ma tutto ciò, adesso, lasciava indifferente Vassia. Passeggiava un po' nel giardino e si ricordava di quelle belle giornate in cui stava sdraiata sulla sua sedia. Era felice di vivere, allora. Ciò la rendeva ancora più triste. Le sembrava che in quel tempo non fosse la stessa persona, ma un'altra Vassia, giovane, fiduciosa, felice. Qualcosa se n'era andata via. Vassia non riusciva a definirla, ma sapeva che qualcosa se n'era andata via senza possibilità di ritorno... A Vladimir capitò di vederla dalla finestra mentre passeggiava solitaria per i sentieri del giardino, indifferente e appassita... Allora diventava cupo, ma nei suoi occhi si leggeva il tormento. Restava ancora un po' vicino alla finestra, poi si girava, per rimettersi al lavoro con Ivan Ivanovic...

Quanto a Vassia, sospirava. S'era ingannata ancora una volta... Credeva che le sarebbe andato incontro nel giardino... Ma non era venuto. Evidentemente non aveva il tempo di occuparsi di lei. «Gli affari» erano più importanti delle sofferenze di un cuore di donna...

Vassia si svegliò sentendo un fruscio. Era mattina.

Vladimir stava vicino all'armadietto, cercando di tirarne fuori qualcosa.

«Volodia, perché ti alzi così presto?»

«Devo andare alla stazione. Devo ricevere una spedizione».

«Da solo?»

«Devo occuparmi di un controllo».

Vladimir si annodava la cravatta nuova davanti allo specchio. Non ci riusciva. Vassia lo guardava. E a un tratto le sembrò vicino e desiderabile.

«Vieni, ti aiuterò, vieni qui, Volodia».

Obbediente, si avvicinò e si sedette sul letto. Vassia gli annodò la cravatta. Si guardarono in silenzio, si strinsero.

«Mio Vassiuk, piccolo mio che io amo tanto. Fa così male vivere come estranei. Continueremo così?» chiedeva lamentosamente Vladimir, rannicchiandosi contro la testa ricciuta di Vassia.

«E io? Tu credi che io non soffra?... E' come non vivere».

«Ma allora, non litighiamo, Vassia».

«Non so. Qualche cosa si è messa in mezzo a noi».

«No, Vassia, no, niente si può mettere fra di noi. Io sono con te, con tutto il cuore, solo per te. Tu intendi bene, per te, unicamente tuo».

«Tu mi ami ancora?»

«Sciocchina».

La abbracciò.

«Ascolta, non litighiamo più. E' così stupido. Ci facciamo male tutte due. Io non posso abbandonarti, Vassia. Io non so vivere senza di te. Non ci urteremo più, promesso!»

«Sì, ma tu non farai più il direttore».

«E tu non istigherai gli scaricatori contro di me!»

Si misero a ridere.

«Ecco, ma adesso dormi. Se non ti concedi qualche ora di sonno in più, domani batterai di nuovo la fiacca. Rientrerò verso le due».

Rimboccò le coperte di Vassia, le baciò gli occhi e se ne andò.

Allora lei si sentì così bene nel fondo della sua anima, così leggera, che si addormentò dolcemente, di nuovo piena di gioia come se ci fosse ancora ciò che era essenziale.

Vladimir non tornò a casa dopo la discarica del vagone. Spiegò per telefono che doveva andare in direzione. Ma sarebbe tornato per la cena. Vassia si sentiva molto meglio, oggi, ma non andò in fabbrica e cominciò a mettere in ordine l'appartamento insieme a Maria Semionovna. Un po' prima dell'ora di cena, il telefono squillò. Vassia rispose.

«Pronto?»

«E' rientrato Vladimir Ivanovic?»

«Non ancora. Chi parla?»

«E' l'ufficio della direzione».

«Ma perché telefonargli a casa quando è lì da voi?»

«Non è più in direzione, è già uscito. Scusatemi».

Di nuovo quella voce femminile. Chi poteva essere? A Vassia non piaceva quella voce. Aveva chiamato Vladimir molto spesso nel corso dei primi giorni dopo il suo arrivo. Poi improvvisamente aveva cessato. Una volta Vassia aveva chiesto a Ivan Ivanovic chi chiamasse Vladimir dall'ufficio, e durante le ore di lavoro. Ivan Ivanovic aveva risposto che era un membro del personale di guardia. Era strano. Le voci si assomigliavano. Di nuovo Vassia si sentì male. Quella maledetta gelosia le attanagliava il cuore. Che dolore!

All'ora di cena, Vladimir arrivò con due membri della direzione. Erano molto preoccupati per i carichi che avevano ricevuto quella mattina. Nondimeno, Vladimir domandò a Vassia se si sentiva bene, se aveva fatto la lucertola al sole come le aveva prescritto il dottore.

«No, non ho preso il sole».

Tagliò corto con la conversazione, e disse come per caso:

«Quella signorina della direzione telefona di nuovo

continuamente. Ti ha chiamato ancora».

«Quale signorina?»

Vladimir spalancò gli occhi per lo stupore.

«Tu dici che ha chiamato dalla direzione. Allora è certamente Chelgovnova. Ecco una strana "signorina"! Una rispettabile madre di famiglia. Tu la conosci, Vassia, è grassa e ha una verruca sul viso».

Lo diceva con semplicità e naturalezza. Ma Vassia restò ansiosa.

No, c'è qualche cosa che non va... Dopo cena, i membri della direzione se ne andarono. Vassia ne fu contenta. Si riprometteva di restare da sola con Vladimir, per tranquillizzarsi... Non era possibile che il mattino le avesse annunciato invano la gioia!

Appena i membri della direzione se ne furono andati, nello studio trillò il telefono. Vladimir prese la cornetta. «Sì, sono io», disse seccamente. «Avevo chiesto di non telefonarmi» (nella sua voce c'era un rimprovero). «Evidentemente per dei problemi familiari» (egli diceva questo con sarcasmo). «In nessun caso. Lo proibisco categoricamente, formalmente. Bene» (lo disse con una voce che fa delle concessioni). «Non per molto. Arrivederci».

Vassia era nella stanza vicina, ascoltava e di nuovo qualcosa le rodeva il cuore, con ansia. Con chi parlava, dunque? A chi prometteva «non per molto»? A chi poteva «proibire»?

Vladimir uscì dallo studio e si diresse direttamente verso la camera da letto. Passò davanti a Vassia senza accorgersene. Lei lo seguì. Vladimir si sistemava la giacca davanti allo specchio e si rimetteva in ordine i capelli con un pettinino.

«Volodia, a chi parlavi al telefono?»

«A Saveliev».

«A Saveliev? E' tornato?»

«Stamattina».

«L'hai incontrato?»

«Ma dimmi, è un vero interrogatorio quello che mi vuoi fare? Sai bene che sono stato a ricevere dei carichi».

Diceva tutto questo con un tono inquieto e seccato.

«Lo vai a trovare immediatamente? Glielo hai promesso?»

«Sì ».

Seguì un silenzio. Vassia sentiva il cuore batterle con sempre maggior forza, con un'intensità raddoppiata. Le sembrava che le scoppiasse. Tanto peggio! Quel dolore non era sopportabile. Le mancavano le forze. E improvvisamente si addossò a Vladimir e lo prese affettuosamente per la mano.

«Volodia, non farlo. Non ricominciare ad agire come all'inizio».

«Ma come, all'inizio?» domandò con un tono di sospetto tinto di inquietudine.

«A frequentare quel mascalzone di un trafficante... Mi hanno detto che il rimprovero principale che ti facevano era che frequentavi uomini poco "corretti"».

«Oh, anche tu ricominci ad agire come all'inizio. Suoni la stessa musica dei tuoi controllori... Vuoi avermi ad usura... Vuoi privarmi della mia volontà. Vuoi che io sia cucito alla tua gonna...»

Vladimir sentiva che la collera lo sopraffaceva. Respinse la mano che Vassia gli aveva posto sul braccio.

«Fermo, aspetta un po', Vladimir. Di che parli? Quando ho cercato di attaccarti alla mia gonna? Ritorna in te. Non è di me che si tratta, ma di te. Non scavarti da solo la fossa. Hai già abbastanza nemici. Ma se per di più rivai a farti amico con Saveliev».

«Che c'entra Saveliev?»

«Che c'entra? E non vai da lui, adesso?» Lo sguardo di Vassia era interrogativo e ansioso.

«Certamente. Ma che ne deduci, tu? Ci vado per affari. Mettitelo in testa. E' indispensabile».

«Non ti credo», gridò Vassia con tutti i nervi tesi. «Aspetta fino a domani e convocalo alla direzione».

«Vassia, tu agisci come un bambino», disse Vladimir. E il suo tono cambiò. «Bene, va bene. Ti dirò la verità. Savefiev non mi invita per parlare d'affari, perché questo lo avremmo potuto fare in direzione. Semplicemente, riunisce a casa sua qualche amico che ama divertirsi, e giocheremo a carte... Tu hai notato, Vassia, che per quasi un mese non mi sono mosso di casa. Sempre a casa, fino al collo negli affari. Te ne prego, lasciami respirare un po'. Sono giovane anch'io. Voglio vivere e non posso essere un monaco».

«Io lo comprendo, Volodia», disse Vassia, abbassando tristemente la testa. «Tutto questo è vero. E non c'è niente di male se ti puoi distrarre di quando in quando. Ma con Saveliev, con quel trafficante stomachevole? Tu non hai la minima stima di lui, non è vero?... Perché ne hai dunque bisogno? Andranno subito a dire dappertutto che Vladimir Ivanovic è di nuovo l'amico di Saveliev, e la storia rischia di arrivare lontano... Volodia, mio amato, te lo chiedo insistentemente. Non andare da lui, oggi, telefonagli, digli che non vai».

«Che stupidaggine!» rispose lui con impazienza. «Se il comitato provinciale trova il tempo per trascinare le persone davanti ai tribunali per i conoscenti che hanno, non è più un comitato provinciale, ma una pattumiera. Tu esageri tutto, Vassia».

«E sia. Ma, Volodia, se a me dispiace che tu lo vada a trovare. Egli non mi ama, lo so bene, T'invita a casa sua per farmi arrabbiare. Ho capito bene come tu gli spiegavi che non poteva venire "per delle ragioni di famiglia"... Avete riso, in quel momento. Volodia» disse Vassia con tono commosso «io mi sento offesa per il fatto che ti burli di me, con quell'estraneo, con un Saveliev, di me che dici che non ti lascio uscire».

«Ma è vero».

«Ah! Ah! è così che metti la questione. Bene. Va dunque a trovarlo. Ma ricordati (pronunciò queste parole con un lampo negli occhi) ricordati che la mia pazienza è al limite. Ti ho tirato fuori dai pasticci, sono stata troppo paziente, sono intervenuta in tua difesa. Basta così... Vacci pure, poiché lo desideri, ma io, da parte mia so che mi rimane da fare!»

La sua voce era divenuta isterica e stridula.

«Ne ho abbastanza di tutti questi isterismi femminili» disse lui con irritazione. «Perché mi ti attacchi? Che vuoi che faccia?»

«Volodia!» Aveva le lacrime nella voce. «Io non ti ho mai domandato niente. Oggi, te ne supplico, resta con me, per te e per me».

«Andate al diavolo. Siete tutte fatte della stessa pasta, voi donne e mi annoiate».

Passò rapidamente davanti a Vassia in direzione dell'anticamera. La porta d'entrata sbatté. E la sirena dell'automobile si mise a urlare.

Vassia gemeva come una bestia ferita.

«Liza, sono venuta da te, ospitami, l'ho lasciato per sempre». La voce le si spezzò, ma gli occhi restavano asciutti. Quando l'infelicità è troppo grande non si può più piangere.

«L'hai lasciato, ma avresti dovuto farlo da molto tempo. Noi, tutti quanti, non abbiamo mai potuto comprendere come hai fatto a pazientare così a lungo...»

«Liza, siamo diventati "estranei" l'uno per l'altra. Ecco in che consiste la nostra disgrazia».

La voce di Vassia era velata di una tristezza infinita.

«Ma come non avreste potuto essere "estranei" l'uno all'altra?... Ci si domanda come puoi amarlo così».

Vassia non rispondeva. Nemmeno lei riusciva a credere a ciò che era avvenuto. Ma non avrebbe mai potuto perdonargli una tale «offesa». Non l'avrebbe mai dimenticata. Era la prima volta che gli domandava qualcosa. Mentre lui... si sarebbe detto che lui scavalcava il suo cadavere. E tutto questo perché? Ma, veramente, perché? Per poter giocare un po' a carte con un mascalzone come Saveliev, con un trafficante, e in compagnia di una società così equivoca e affaristica. Che Vassia muoia di dispiacere è indifferente, purché lui si diverta, possa distrarsi quando vuole. E chiamano questo vivere l'amore da compagni, da «comunisti»!

Liza ascoltava quel torrente di parole incoerenti che usciva dalla bocca di Vassia. Non riusciva a comprendere che cosa potesse davvero esser successo tra di loro, e che c'entrasse Saveliev in tutto questo.

«Come che c'entra Saveliev? Ma è tutto per colpa sua, tutto è successo a causa di quel maledetto trafficante. Vladimir è andato a casa sua...»

«Non pensare che sia andato da lui».

«Ma dove avrebbe potuto andare? Tu pensi che non è là che è andato?»

«Non si tratta più di pensare!... Lo sa tutta la città meno te. Tu sei come una cieca, o forse non vuoi vedere intenzionalmente... E' impossibile capirlo!»

«Vedere che? Liza, dimmelo».

«Ma semplicemente che il tuo Vladimir mantiene un' "amichetta"».

Vassia non riuscì a capire subito. Fissava Liza a occhi aperti. Non ci si poteva leggere né spavento, né infelicità, ma semplicemente stupore.

«Tu dici un"'amichetta". Ma chi è?»

«Non è dei nostri, non è un'operaia, ma un'impiegata d'ufficio».

«La conosci?»

«L'ho intravista, ma tutta la città la conosce».

«Perché?»

«Esibisce le sue toilettes. Ecco perché i compagni sono così arrabbiati con il tuo Vladimir... E' proprio di questa conoscenza che il Mikhail Pavlovic ti aveva parlato. Come hai fatto a non capire. Tu non sei un'imbecille, ma in questa storia hai agito come l'ultima delle sciocche».

Vassia sembrava preoccupata da un'altra cosa.

«Ma la ama?»

«Come si può saperlo? Probabilmente sì, dato che la frequenta da tanti mesi. Avevamo pensato che quando fossi arrivata tu questa commedia sarebbe finita. E invece!

Continua ad andare a casa sua, nel suo appartamento, in vettura».

«Ha un appartamento suo?»

«E un po' più elegante del tuo...»

Ecco dunque spiegato il «mantenere due famiglie». Adesso tutto si chiariva per Vassia. Un solo punto rimaneva oscuro: perché Volodia le aveva mentito, perché l'aveva tormentata e ingannata?

«Tu forse avresti voluto che venisse da te pentito, oppure che ti domandasse l'autorizzazione a visitare la sua amichetta... Dipendeva da te vedere quello che succedeva. Tu non te ne sei accorta. Ti sei comportata come un'imbecille. E non devi rimproverarlo che a te stessa.

«Perché dici sempre imbecille, Liza? Non è questo che è importante. L'essenziale è sapere se l'ama o no»>.

«Che vuoi dire con questo? Io non capisco quello che dici! Probabilmente l'ama, visto che la mantiene. Sembra che le faccia regali di gran valore».

«Tu lo pensi. Ma io, vedi, non ne so niente».

«E allora? Tu pensi che ama te, senza dubbio? Vassia, tu non devi illuderti, questo ti farà ancora più male! E' evidente che ti apprezza, tu sei sua moglie, e sei una buona compagna, ma in quanto ad amarti, è da tempo che ha cessato di amarti. Credimi».

Vassia scosse la testa.

«Ebbene, io non ci credo».

Liza era furiosa per la «stupidità» di Vassia. E le descrisse con intenzione l'amichetta di Volodia: una bellezza degna di un pittore. Quanto alle sue toilettes, non ne parliamo nemmeno. E' vestita di seta dalla testa ai piedi. Le girano sempre intorno degli ammiratori, e le fanno la corte. Saveliev è pieno di premure per lei, ma nondimeno resta amico di Vladimir. Insieme, per serate intere, fanno festa. Si racconta che Vladimir dispone di questa ragazza insieme a Saveliev, metà per uno.

Questo fece particolarmente male a Vassia.

Vladimir era veramente divenuto tale. Poteva amare una «puttana»?

Vassia non riusciva a crederci, niente da fare, non lo credeva. Doveva esserci qualche altra cosa...

Liza era furiosa...

«Bene, non mi credere. E' affar tuo. Puoi domandarlo a chi vuoi, tutti ti racconteranno la stessa cosa. E' stata impiegata in un ufficio, poi segretaria di Saveliev. Poi ha continuato per il direttore. Può essere che altri ne approfittino ugualmente. In base a certe chiacchiere, anche Ivan Ivanovic, e certi membri dell'amministrazione passavano per la sua casa... E' semplicemente una "puttana", ma non lo è ufficialmente, con "certificato"... Per fortuna, nella Russia dei soviet non ce ne bisogno».

«Ma Vladimir non può amare una donna del genere», protestò Vassia.

«Ma perché t'immagini questo? Gli uomini amano particolarmente le donne di questo tipo, soprattutto un uomo come il tuo Vladimir. Lo si vede subito, basta guardarlo. Più una donna è corrotta, tanto più gli piace».

«Taci, Liza, ti proibisco di dir questo... Tu non lo conosci. Come puoi giudicarlo?»

«Ma perché lo difendi? Si può dire che ha fatto di te lo zimbello di tutta la città. E guardate un po' come lo protegge!»

«Ha fatto di me lo zimbello della città!... Pensa un po' che significa questa vergogna... e sarei io ad esserne responsabile... Tu non mi capisci, Liza. Non è questo che mi fa male, per niente».

«Allora, è il fatto che ha cessato di amarti che ti fa male».

«No, Liza, non è questo... Certo, questo mi colpisce, ma l'essenziale non è questo. Io sento bene di che si tratta, ma non riesco a esprimerlo. Eravamo compagni, dei veri compagni, così vicini, e improvvisamente si viene a sapere che Vladimir mi si nascondeva, mi mentiva, mi temeva.... Pensa un po': mi temeva. Come poteva provare questo? Io non mi son mai messa sulla sua strada. Come se io potessi impedirgli di amare!... Certamente Volodia non poteva avere pensieri del genere. C'è dunque dentro qualcosa che non va: questo vuol dire che quest'altra lui forse non la porta nel suo cuore».

«Andiamo, ricominci con le tue sciocchezze».

E Liza lasciò cadere le braccia per la stizza che sentiva.

«Con te non è possibile capirsi. Tu l'ami ancora troppo, il tuo piccolo Volodia... E' come se gli dicessi: battimi, calpestami, in tutti i modi, ed io resterò la tua sposa sottomessa, ti leccherò gli stivali. Io non agirei così. Io gli farei pagare una simile situazione in un modo tale che non resterebbe più niente di lui».

Vassia non continuò la discussione, ma più Liza condannava Vladimir più lei si sentiva solidale con Volodia. Avrebbe voluto dire a Liza che, ai suoi occhi, la colpa non stava nel fatto che si era preso un' «amichetta», che si fosse messo ad amare un'altra, ma nel fatto che non le aveva detto niente... Non era più un vero amico, non era più un compagno. Lei era, a quanto pare,diventata un'«e-stranea» non solo nel lavoro, ma anche in quel campo. Lui non aveva alcuna fiducia in lei, poiché la riteneva simile a una sposa legittima che sarebbe intervenuta per difendere le sue prerogative.

«Ma certo che bisogna intervenire» gridava Liza «ma tu devi farlo... Come ha osato disonorarti? Solo dopo lo dovrai lasciare. Non merita di vivere con te, Vassia. Non vale nemmeno la punta del tuo mignolo».

Vassia discuteva. Era così anche per lei. Spesso condannava Vladimir, dentro di sè. Non approvava le sue azioni e i suoi gesti. Ma appena qualcuno lo toccava sia pure un pochino, passava dalla sua parte e mobilitava tutte le sue energie per difenderlo contro le offese. Gli altri non lo comprendevano... Solo Vassia sapeva chi era Vladimir, l'americano.. Pronunciò queste parole e si mise a piangere... Le ritornava alla memoria come Vladimir, l'americano, aveva saputo dirigere la cooperativa, aveva saputo agire per il bene dei soviet... La nostalgia aveva il sopravvento.

Abbracciò Liza, pianse. Non pensava a Vladimir, il direttore, ma all'americano. E' a lui che si rivolgevano quelle vampate di nostalgia. Era finita, non c'era via d'uscita.

«E' penoso, non ne posso più».

«Lo so, mia cara, tesoro mio... Pazienza, Vassilissa, passerà. Ho provato la stessa cosa, anch'io, l'anno scorso. Eppure adesso, quando lo incontro, non sento più niente... Passerà, mia cara, passerà».

Liza accarezzava i capelli di Vassia, la consolava, come se fosse possibile consolare e dimenticare una tale pena!

Vassia non riusciva a prendere sonno. Liza l'aveva fatta mettere sul suo lettino, mentre lei si era sistemata su una fila di sedie. Si era talmente stancata durante la giornata che ora dormiva di un sonno profondo. Vassia, invece, non finiva di girarsi. Si alzava, si metteva seduta, si risdraiava, non poteva trovar pace. I pensieri le fuggivano, per poi riaffluire tutti insieme. Era allora una tortura continua, quella che le straziava il cuore, un po' come quella che aveva vissuto la notte terribile in cui aveva trovato l'assorbente igienico insanguinato e in cui Vladimir era stato arrestato...

Non era la gelosia a farla soffrire. La piccola vipera si era calmata, non si manifestava più, attendeva il momento favorevole. La sofferenza veniva dalla mancanza di fiducia che Volodia le aveva dimostrato. Ah, senza questo, lei avrebbe perdonato tutto! L'essere umano non è padrone del suo cuore... Ma, nondimeno, Vassia non riusciva a credere che lui amasse quell'altra... Non lo credeva! Era un legame che era sorto così... Per mesi aveva vissuto in solitudine, e Vladimir era un temperamento focoso. Ed ecco che Vassia si ricordò di Stiosa... Lui aveva avuto una relazione. Gli avvenimenti avevano seguito il loro corso. Ma una persona come quella non lasciava la «presa». Liza diceva che quella «approfittava» di lui. Ora, se era così, non poteva amarla. Questo significava che quella semplicemente ne traeva i suoi vantaggi. Ragazze del genere erano astute e abili. Riuscivano a incatenare ben altri uomini che Volodia. Lui avrebbe voluto uscirne fuori, ma non poteva. Adesso Vassia si ricordava di Vladimir mentre misurava a gran passi la camera, pieno di tristezza. Come era incostante d'umore, ora affettuoso, ora estraneo. Soffriva e, cosa peggiore, soffriva solo. Pensate. Che tortura! Vivere con un uomo vicino e nello stesso tempo avere il sentimento nettissimo che uno scellerato si nasconde dietro le sue spalle per affilarvi il pugnale... Vassia si ricordò che parecchie volte le era parso che Vladimir volesse confessare qualche cosa, ma che si fermava a metà. Era quello che era successo la mattina del conflitto con gli scaricatori. Aveva cominciato a parlare, il peso che l'opprimeva gli stava sulla punta della lingua. Vassia lo sentiva. Era stata lei a spaventarsi. Era stata presa da un accesso di tosse, come per disgrazia. Allora Vladimir aveva taciuto, senza dubbio per compassione. Ma se era capace di compassione, questo significava che l'amava. Che l'amava! Strano amore, davvero. Poi c'era stato l'episodio del taglio di stoffa azzurra. Aveva fatto lo stesso regalo alle due donne... Senti, moglie odiosa: farò un bel regalo alla mia dulcinea, ma non dimenticherò nemmeno te, maledetta. Ecco la tua seta, ma sta zitta!... Ah, maledetto...! Vassia strinse i pugni come se si preparasse a battersi con Vladimir. La piccola vipera si sentì rinvigorita e, stringendo il cuore di Vassia con i suoi anelli ben stretti, lo succhiava, lo pungeva col suo dardo affilato. Non le dava tregua... Dolore, angoscia, soffocamento. La vipera aveva davvero assediato il cuore di Vassia. Le venne un pensiero. Ieri, dunque, non era andato a casa di Saveliev... Saveliev non c 'entrava, in questa storia, serviva solo da pretesto. Per nascondere tutti i sintomi, c'era bisogno di una «copertura».

Supplica pure, io farò come mi pare...! E anche se tu muori di dispiacere, avrò io la meglio. Non ti sacrificherò niente, maledetta, nemmeno una quisquilia. Era questo che le aveva fatto più male, e per questo, in fin dei conti, aveva lasciato suo marito. Se avesse saputo che c'era una storia d'amore, non sarebbe stata così in collera con Vladimir. Avrebbe pianto, avrebbe sofferto, ma avrebbe compreso. Se invece avesse offeso Vassia per conservare l'amicizia di un Saveliev, di un infame trafficante! L'esistenza di una «signorina», lei poteva ben comprenderla! Ma lo avrebbe perdonato? Come aveva fatto una volta per sua cugina, per Stiosa, che lei considerava quasi una sorella. Sarebbe riuscita ad ammirare il barboncino bianco? Vassia non avrebbe mai potuto perdonarglielo: aveva calpestato la sua anima per una buona compagnia e qualche mano di carte.

Non le restava altro che dimenticare l'episodio del taglio di stoffa azzurra. Ma ora vivevano in tempi diversi. Una volta, una cosa almeno era sicura: le loro anime vivevano in armonia. Partivano per la lotta la mano nella mano. Attualmente ciascuno stava per conto suo. Che cosa li aveva legati? Il cuore. Ma se Vladimir aveva tolto anche il cuore, che cosa restava? Come perdonare, come dimenticare? Non si poteva dimenticare una tale situazione, non potevano riconciliarsi! Ecco la vera disgrazia! E a Vassia sembrava che non ci fosse al mondo una persona più infelice di lei.

Liza era appena uscita per andare al lavoro che si aprì la porta. Apparve Maria Semionovna, la testa coperta da un fazzoletto di merletto nero. Ansimava per il calore. L'estate era al culmine.

«Buongiorno, Vassilissa Dementievna. Vi ho portato una lettera di vostro marito. Mi aveva ordinato di prendere una carrozza. Ma dove trovarne con i tempi che corrono?»

Vassilissa aprì la busta che portava l'intestazione della direzione. Le dita le erano diventate di ghiaccio, non le obbedivano più.

«Vassia, che vuol dire questo? Ti rendi conto di quello che mi fai? Perché ti mostri così crudele con me? Vuoi forse far scoppiare uno scandalo in tutti i distretti per dar ragione ai miei nemici, per farmi affondare del tutto... Tu dicevi di essermi amica, e ora fai causa comune con quelli che mi sono ostili. Tu mi ferisci il cuore! Io non posso più vivere così. Se hai cessato di amarmi, dimmelo francamente. Perché mi uccidi nascondendoti all'angolo d'una strada? Tu sai bene che amo solo te, tutto il resto, tutto quello che gli altri hanno potuto dire sul mio conto, sono stupidaggini, cose passeggere. Ascoltami! Te lo giuro, ieri, non sono stato da Saveliev! Ti giuro anche che là, dove sono stato non ti ho tradito. Il mio cuore è sempre con te. Io sono esaurito dai dispiaceri, Vassia. Abbi pietà di me. Vieni da me perché io possa contemplare i tuoi begli occhi e dirti tutto. Tutta la verità! Se tu sei la mia compagna e la mia amica, tu verrai. Se no, addio! Ma sappi che, senza di te, io non vivrò. Il tuo infelice Volodia»

Vassia rilesse la lettera, una, due volte. Ora il suo cuore era inondato da una voce dolce, le lacrime le salivano agli occhi. «E' una cosa passeggera». «Amo solo te». Poi ricominciava a crescere il furore contro Vladimir. Era lei ad avergli fatto male. Ecco che doveva esser lei a compiangerlo! Lui aveva avuto compassione di lei! Non l'aveva torturata! Le lacrime si seccarono e le labbra pallide di Vassia si serrarono in una smorfia. «Lui infelice». Andiamo. Per tutta la notte si era divertito con un'altra, le aveva portato la seta azzurra... Nemmeno la minima pietà per Vassia. Ieri, lo aveva supplicato di restare, aveva raccolto tutta la sua anima negli occhi. Ma lui aveva respinto la mano di Vassia, aveva lanciato il suo «grido da marito» e se n'era andato. Scriveva «tu sei la sola che io amo»! Mente! Non mi ama. E' bello il suo amore. Offese, dispiaceri! Perché Vassia dovrebbe aver bisogno di un tale amore?... Ma perché aveva scritto «Addio». «Sappi che senza di te non vivrò». A che pensava? Stupidaggini, Minacce perché Vassia fosse più tenera, perché accorresse come un'idiota alla sua chiamata... Per la terza volta rilesse la lettera di Volodia. Maria Semionovna troneggiava con dignità, nella stanza, indifferente. Si asciugava il sudore dal viso. Teneva il fazzoletto come un ventaglio.

«Ieri, eravate appena uscita che arrivò Vladimir Ivanovic. Domandò dove eravate. Gli risposi che non ne sapevo niente. Rientrò nel suo studio con delle carte. Poi chiamò per telefono Ivan Ivanovic. Restarono seduti là per un po'. A mezzanotte passata, venne in cucina a domandare se non eravate rientrata. Ma io gli dissi che no. Riuscì, riaccompagnò Ivan Ivanovic, poi andò nella camera da letto. Senza dubbio lesse allora la vostra lettera. Lo sentii piangere, singhiozzare come un bambino. Non si coricò per tutta la notte... Camminava in lungo e in largo. Al mattino non bevve il tè e disse: "non voglio niente, andate e ritrovatemi Vassilissa Dementievna. Non dovete far altro che andare a casa di tutti i suoi amici, e tornate solo quando l'avrete trovata. Non vi fate vedere qui senza di lei"».

Vassia ascoltava. Le si stringeva il cuore. La sua tenerezza abituale per Vladimir le feriva l'anima. Il suo cuore era inondato di dolore. Era rimasto là, solo, per tutta la notte, l'aveva attesa. Aveva sofferto, pianto... L'aveva chiamata. Anche lei aveva conosciuto quei tormenti; avrebbe voluto lanciarsi verso di lui. Ma per tutto quel tempo era stata preda della gelosia. Chissà! forse tutti i legami che li univano non erano rotti; forse l'amore non si era dissolto. Perché prolungare il tormento? Rientrare, o meglio andare da lui a spiegarsi.

«Quando siete uscita, che faceva Vladimir Ivanovic? Andava in ufficio?»

«Quando sono uscita, telefonava alla sua "dulcinea"... Pensava senza dubbio di condividere la sua disgrazia con lei... ma forse anche la sua gioia. Chi potrà riuscire a comprendere questi uomini, questi maschi. A loro basta che non ci sia uno scandalo...».

Aveva telefonato alla sua «dulcinea». Oggi... Mandava una lettera a Vassia e, nello stesso tempo, telefonava. Forse Liza aveva ragione: non mantiene il suo legame con Vassia che per paura dello scandalo... Se lei non fosse stata la sua sposa legittima, sua moglie, se ne sarebbe infischiato. Non l'avrebbe chiamata che per burlarsi di lei, ancora una volta... No! Basta così. Vassia non andrà a ritrovarlo, non si farà prendere a quest'amo. Eppure sentiva che le tenebre le scendevano negli occhi.

«Dite a Vladimir Ivanovic che non riceverà risposta. Ecco tutto. E adesso andate, andate alla svelta».

«In ogni modo, non posso camminare più svelta. D'altronde, in queste faccende, non c'è bisogno di affrettarsi. Vassilissa Dementievna, voi avreste dovuto riflettere prima. Benché Vladimir Ivanovic sia colpevole nei vostri confronti, come nei confronti di una moglie, non avete del tutto ragione nemmeno voi. Come si può lasciare un marito solo e giovane, per mesi? D'altronde, se si è giusti, Vladimir Ivanovic, è, sotto parecchi aspetti, un marito magnifico... Come si prende cura di voi! Voi bevete cacao, vi compra uova fresche, pensa ai vostri vestiti più di quanto ci pensiate voi. Quanto alle donne... chi non è colpevole! Voi siete la moglie, tutto il rispetto è per voi. Quanto al resto, è vero che ha speso un po' di denaro, che ha fatto un regalo. Ma ecco tutto!»

Vassia ascoltava Maria Semionovna e il cuore le faceva ancor più male. Se avesse potuto pensare in questo modo, tutto sarebbe stato semplice. Maria Semionovna non comprendeva che l'offesa era di un tipo del tutto diverso... Vladimir non era più suo amico; lei non aveva più fede in lui... E se lei non aveva più fiducia in lui, come poteva continuare a viverci insieme?...

«Non è meglio aspettare la sera, Vassilissa Dementievna? Io rientro a casa per dire a vostro marito che voi rifletterete, e che in serata invierete una risposta. Sarà più saggio! Bene. Ecco che ho deciso. Andando troppo di corsa ci si può sbagliare. Più tardi, magari, ve ne pentirete. Piangerete».

«No, Maria Semionovna, non cercate di convincermi. Sarà come ho detto. Non ritornerò più da lui... E' finita».

Le sue labbra tremavano, e lacrime rade, ma grandi, colavano lungo le guance smagrite.

«Bene, è affar vostro... Volevo darvi un consiglio, ma la decisione dipende interamente da voi».

Maria Semionovna se ne andò. Vassia come una bestia ferita aveva voglia di gemere, a voce alta, perché l'eco riempisse tutta la casa, tutta la strada. Era finito per sempre. Addio, Volodia, amor mio!

Le magre braccia di Vassia andavano verso Volodia. Il suo cuore balzava fuori del petto per andare verso di lui... Le lacrime scendevano lungo le guance smorte. Ma la ragione, torturandola, diceva: «Basta così, non andar più laggiù. E' ora di farla finita».

Vassia aveva pianto molto nel cuscino di Liza, poi si era addormentata. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Non era una sciocchezza quello che le era successo. La risvegliò il suono di un clacson. Vicinissima alla finestra rombava un'automobile. Chi era? Sussultò. E se era Vladimir che era venuto a trovarla di persona? La speranza, la gioia, fremettero nel suo cuore.

Corse ad aprire le imposte.

Nel vano della porta stava il fattorino Vassia.

«E' successa una grande disgrazia, Vassilissa Dementievna. Vladimir Ivanovic s'è avvelenato».

«Che cosa?» Vassia si avventò verso il fattorino, lo afferrò per la mano. «E' morto?»

«No, è ancora vivo. Ma ha le convulsioni, soffre, vi chiama. Ivan Ivanovic mi ha ordinato di venire di corsa qui in macchina».

Vassia, spettinata, saltò nella vettura. Le battevano i denti. Tremava come se avesse la febbre. Aveva ucciso il suo amore. L'aveva torturato fino alla morte... Non aveva avuto alcuna pietà di lui, non era andata in suo soccorso. Lui l'aveva chiamata per tutta la mattina.

Gli occhi di Vassia si allargarono fino a diventare fissi. Non vi si leggeva il dolore, ma una fatalità implacabile: la morte.

Il fattorino, senza vederle gli occhi, raccontava con volubilità come erano andate le cose. Sembrava addirittura che gli piacesse. Una situazione nuova, un'avventura inaspettata!

Vladimir Ivanovic era andato il mattino in ufficio. Vi aveva passato una mezz'ora e poi era ritornato a casa. Era andato nel suo studio. Vassia l'aveva visto avvicinarsi all'armadietto in cui si mettevano i flaconi che servivano per provare le tinte.

Vassia stava spazzando il cortile. Si era avvicinato all'anticamera e aveva sentito che qualcuno urlava. Vassia era entrato nello studio per vedere che succedeva. Vladimir Ivanovic era steso sul divano, come un cadavere, gli occhi rovesciati, la bocca aperta e, sulla bocca, della schiuma.

Allora aveva cominciato ad agitarsi in tutti i sensi. Vassia era uscito di corsa a cercare il dottore che viveva nella stessa strada, proprio all'angolo. Si stava appunto mettendo a tavola. Vassia lo aveva messo al corrente della situazione. «C'è un uomo che muore, avrete il tempo di mangiare dopo».

Vassia era stato spedito in due riprese alla farmacia, in macchina. Era accorso Ivan Ivanovic. Tutta la casa era sottosopra.

Vassia ascoltava, ma non sembrava intendere. Non sembrava più esistere. C'erano solo Vladimir e le sue sofferenze. Vassia si sentiva dissolversi in lui. Se Volodia moriva, la vita sarebbe finita per Vassia. Non le sarebbe rimasto che il vuoto, il vuoto che è più terribile dell'attesa.

Vassia entrò nell'anticamera con il fattorino, mentre Ivan Ivanovic riaccompagnava il dottore.

«E' ancora vivo?»

«Faremo tutto il possibile, non posso dir niente prima di domattina».

Vassia entrò in punta di piedi nella camera da letto. Percepiva con chiarezza i gemiti di Vladimir. Le sembrava di essere lei a gemere, come se Vladimir non potesse esistere separato da lei!...

Contrariamente al solito, la camera da letto era in disordine. Il tappeto era arrotolato, il letto spostato. Il letto era vuoto. Dov'era dunque Volodia? Una grande forma bianca era allungata sul divano. Il viso era di un grigio bluastro. Gli occhi chiusi. I gemiti erano cessati... Ma che è? E' forse morto?

«Volodia, Volodia».

Il dottore si girò verso di lei, furioso.

«Tacete, vi prego di non cedere all'isteria».

Il dottore si agitava vicino a Vladimir, insieme a una infermiera che portava un fazzoletto bianco. I due visi erano pieni di serietà e di severità... Non lasciarono che Vassia si avvicinasse a Volodia.

Volodia aprì gli occhi. Un sospiro irregolare gli sollevava il petto. Era dunque vivo.

«Dottore» supplicava sussurrando Vassia «ditemi la verità, c'è una speranza...».

«C'è sempre speranza finché il cuore regge», disse il dottore d'un tono scontento, come se Vassia dicesse delle sciocchezze. Che vuol dire finché il cuore regge? E se mancasse? Ma non osò far domande. Il dottore era occupato. Insieme all'infermiera, sollevava la testa di Vladimir e gli versava in bocca qualche cosa.

Volodia gemette di nuovo, dei gemiti irregolari. Vassia tendeva l'orecchio. Sembrava che la sofferenza si arrestasse. Tutto il suo corpo si paralizzò. Come se lei avesse perduto i sensi a causa del dolore, come se non esistesse più.

Arrivò la sera. Discendeva l'oscurità. Nella camera da letto fu acceso un lume da notte. Vennero ancora dei dottori. Confrontarono le loro diagnosi e ordinarono al fattorino di andare a cercare un'autorizzazione al dipartimento della sanità per aver diritto a una medicina speciale. Non lasciarono accostare più Vassia a Vladimir. D'altronde, lui non la chiamava più. Passava da uno stato comatoso a dei gemiti irregolari. Da un momento all'altro sembrava che lo spirito potesse staccarglisi dal corpo con i gemiti. Si sarebbe detto che l'anima di Vladimir lottasse con il corpo, ma che questo corpo non lasciasse parlar la sua anima. La presenza di Vassia era inutile, al momento, poiché lei non poteva far niente. Scalpitava in mezzo ai dottori, non sapendo cosa fare.

A un tratto le sembrò di sentire una bruciatura d'acqua bollente: delle chiacchiere dovevano già correre attraverso la città. Avrebbero detto: è un comunista, ma ciò non impedisce che abbia tentato di suicidarsi... E perché? E sarebbero incominciate le storie...

Bisogna impedire al più presto che si diffondano i pettegolezzi, al più presto. Immaginare un pretesto: perché è successo, che è successo? Ebbe un'idea. Si era avvelenato con dei funghi che aveva mangiato a pranzo. Ed ecco che era sulla soglia della morte. Si ricordò che in occasione di una visita a sua nonna, era successo al villaggio un caso del genere: un sarto venuto dalla città per visitare suo fratello. Aveva colto dei funghi che aveva preparato lui stesso e mangiato. Ed era morto. Vassia telefonò dapprima a Mikhail Pavlovic e gli disse che gli avrebbe dato una spiegazione completa quando si fossero visti. Per il momento gli partecipava la sua disgrazia. Le cose erano andate così. Vladimir Ivanovic si era avvelenato con i funghi, era in articulo mortis. Telefonò quindi al presidente del comitato provinciale, poi ad altri compagni. Avvertì Ivan ivanovic che spiegasse la situazione ai membri della direzione. A lungo Vassilissa spiegò al fattorino e a Maria Semionovna che non bisognava parlarne troppo. Il fattorino, quel ragazzo sveglio, indovinò subito di che si trattava. Storse un po' il naso, alzando le spalle, ma in fondo era contento. Strana situazione! Che gli importava. Erano i funghi che avevano provocato ciò? Ebbene, fossero i funghi! Se non era zuppa, era pan bagnato. Maria Semionovna unì le mani sul ventre e, con un'aria offesa, chiuse le labbra. Lei non voleva decisamente accettare la versione dei funghi.

«Ma come è possibile prendersi un avvelenamento con dei funghi? Tutti diranno: perché la cuoca non ci ha fatto attenzione?»

Ma Vassia esigeva con fermezza questa versione dei fatti. Lo abbiamo già detto a tutti quanti: ha mangiato dei funghi ed è per questo che è malato».

«Sarà come volete. Solo, non è una buona trovata... Si fosse trattato d'un'altra cosa, ma i funghi! Chi mai andrebbe a cucinare dei funghi velenosi?»

Vassia lasciò la cucina. Ma Maria Semionovna non riusciva a calmarsi. Agitava furibonda le sue casseruole. Vogliono gettare tutta la colpa su di me, e hanno preparato un piatto che non riuscirebbe a digerirlo il diavolo. Bene, bene. Tutta la responsabilità ricade su Maria Semionovna. Io sarei incapace di distinguere dei funghi velenosi! Io potrei mettere un fungo cattivo in un piatto! Come si può calunniare una persona in tal modo? Sto da ventanni dietro i fornelli. Non sono una semplice cuoca. Valgo almeno quanto un buon cuoco... Ho un mucchio di attestati. La defunta moglie del generale Gololobov, malgrado tutta la sua boria, mi chiamava per nome, Maria Semionovna. I miliardari Pokatilov mi avevano offerto per Natale una catenina d'oro e un orologio. Tutto ciò per le salse che gli avevo preparato. Mentre adesso, vedete un po' che hanno imbastito: «Maria Semionovna ha messo in pericolo il direttore servendogli funghi velenosi». Non mi aspettavo di poter essere tanto offesa. E dire che aveva preso in simpatia quella Vassilissa, provava pietà per lei, non aveva mai detto in sua presenza una parola sull'amante di suo marito!... Eccola la riconoscenza umana. Una vera ingiustizia! E dire che sono comunisti!

«Ma perché siete così furiosa, perché vi sentite offesa, Maria Semionovna?» obiettò con un tono ragionevole Vassia, il fattorino, mentre mangiava la zuppa con appetito.

«Tutto quello che diranno sarà inutile. La verità non si può nascondere. Voi non sarete responsabile. Fanno tutto questo perché ci sia meno scandalo. Ecco perché mentono a proposito dei funghi... Ed io, mi ci diverto. E' complicato, è stupefacente. E' molto meglio che al cinema. C'è da divertirsene».

«Proprio un bel divertimento,stupido! C'è un uomo che sta morendo, e lui parla di divertimento... Viviamo davvero in tempi strani. Nessuno prova dispiacere per la morte. Alla minima cosa, pif, paf! e c'è un uomo di meno. Non si rimpiange nemmeno più la propria vita e tutto questo perché ci si è dimenticati dell'esistenza di Dio».

«Ci risiamo! Eccola partita a parlare di Dio. Ebbene, io non sono comunista, ma non credo in Dio».

«E' molto male non crederci. E perché resti piantato su questa sedia a muovere la lingua con stupidità? C'è da fare, qui. Aiutami, non fosse che per raccogliere i piatti... Guarda un po' quante stoviglie hanno sporcato quei diavoli di medici... Bisogna stargli sempre a servire del tè e offrirgli qualche cosa... e tuttavia non mettono capo a niente. Sarà come ha deciso Dio. E' quanto ho detto a quella smorfiosa, la serva dell'amante di Vladimir Ivanovic. Avevo appena servito il pranzo al dottore che eccola salire per la scala di servizio. Agitava le gonne e portava un grembiule di batista. Teneva una specie di farfalla bianca attaccata ai capelli. Si sarebbe davvero detto che facesse la ruota. "La signora mi ha mandato, diceva, per informarmi sulla salute di Vladimir Ivanovic". "Ah, dissi, si tratta della sua salute! Da un momento all'altro perderà l'anima, perché Dio punisce tutti gli uomini per i peccati che hanno commesso. Quanto a quella donnaccia della tua padrona, dille che vada piuttosto in chiesa a confessarsi... E' di sicuro lei che ha fatto perire quest'uomo"».

Maria Semionovna era poco loquace quando si rivolgeva a Vassilissa, ma quando trovava un altro interlocutore, non era più possibile fermarla.

Improvvisamente un vero silenzio regnò nella casa. Per ventiquattro ore c'erano stati la stampa, i membri della direzione, collaboratori di ogni rango che si agitavano; i dottori rilasciavano interviste... Liza era restata per tutta la notte con Vassia perché non si tormentasse troppo, da sola, perché non aspettasse l'esito da sola. Liza si sentiva inquieta, un po' colpevole. Forse aveva un po' troppo montato Vassilissa contro Vladimir Ivanovic.

«Non sei stata tu ad avermi eccitata. Son diventata nervosa da sola... Ma da quando la morte mi ha fissato col suo sguardo, ho compreso che niente mi era più caro al mondo. Come potrei vivere ora senza di lui? Perché, infine, sono io che l'ho fatto morire».

Seduta al capezzale di Vladimir si sosteneva con la mano la testa ricciuta, e rifletteva su ciò che sarebbe successo se Volodia fosse morto. Nemmeno lei avrebbe continuato a vivere. La rivoluzione, il partito! Ma il partito aveva bisogno di esseri umani la cui coscienza fosse libera da ogni delitto. Ora Vassia avrebbe conservato quelle parole come un ricordo: «sono io che ho fatto morire Vladimir, e almeno ci fosse stata una ragione! Tutto per una gelosia da donna!». Se Volodia fosse stato uno scellerato del tipo di Saveliev, se avesse aiutato quest'ultimo a nascondere qualche truffa, se avesse arrecato danno agli interejsi del popolo, forse si sarebbe potuto perdonare Vassia, ma mandare alla morte un amico a causa di un'altra donna. E che amico! Pensava che lui non l'amasse. E ora si vedeva a cosa si era deciso, votandosi alla morte. Anche per Volodia la vita non presentava interesse... senza Vassia. Malgrado il dolore che le schiacciava lo spirito, prendendo coscienza di questo, avrebbe voluto piangere, ma non piangere di amarezza, piangere per confessarsi nella gioia.

Vassia covava suo marito con gli occhi. Gli sussurrava allo stesso tempo con tenerezza: «non potrò mai guardarti abbastanza. Mi potrai perdonare? Dimenticherai il male che ti ho fatto, tesoro mio?»

Vladimir si agitava. Muoveva la testa con inquietudine.

«Da bere, da bere».

«Subito, mio caro, subito, mio adorato».

Vassia sollevava con prudenza la testa di Volodia che riposava sul cuscino, come glielo aveva insegnato l'infermiera, per dargli da bere. Vladimir bevve un po'. Aprì gli occhi, guardò Vassia, la contemplò senza sembrar vederla.

«Va meglio, mio piccolo Volodia?»

Vassia si piegò delicatamente verso di lui. Volodia non rispose. Apriva e chiudeva gli occhi.

«C'è Ivan Ivanovic?» disse con voce debole.

«No, se ne andato. Hai bisogno di lui?»

Mosse la testa affermativamente: «Chiamalo per telefono».

«Ma il dottore non ti ha permesso di occuparti degli affari».

Sul viso di Vladimir si leggeva impazienza e sofferenza.

«Almeno adesso, non torturarmi. Fallo venire». E chiuse gli occhi.

Il cuore di Vassia si chiuse. Perché aveva detto «almeno adesso non mi torturare»? Non le perdonava di averlo condotto fino alle soglie della morte. Vassia chiamò per telefono Ivan Ivanovic. Appena arrivò, Vladimir pregò Vassia di andarsene. Voleva restare solo con Ivan Ivanovic. Lei uscì nel giardino. Il cespuglio di rose purpuree terminava di fiorire. I gerani sfoggiavano il loro lusso. Il sole era ardente. Bruciava le braccia, le spalle, la testa. La vegetazione del giar-• lino era lussureggiante. Gli arbusti di ginepro si allacciavano ai lillà. L'edera li invadeva. Il cielo, a causa del

calore, non era più azzurro; sembrava essere d'argento fuso. Vassia se ne andò seguendo i sentieri che scottavano. No, Vladimir non le avrebbe perdonato niente! Non lo avrebbe dimenticato. Se lei fosse venuta quando l'aveva chiamata questa mattina, non sarebbe successo niente. Lei lo aveva perduto, per sempre, non come marito e amante, ma come amico e compagno. Volodia non avrebbe più avuto fiducia in Vassia. Non l'avrebbe più considerata un «appoggio».

Vassia si appoggiò all'acacia bianca che in primavera era carica di pesanti grappoli bianchi. Si coprì gli occhi con la mano. Perché non si era avvelenata lei? Perché viveva ancora?

«Vassilissa Dementievna, Vladimir Ivanovic vi chiama», le gridò Ivan Ivanovic mentre se ne andava nella vettura.

Forse andava a portare un messaggio alla «signorina».

Ma, ora, tutto era indifferente a Vassia.

Era impossibile ritornare sul passato.

Il sole d'estate bruciava con violenza, come una tortura. Le tende erano abbassate. Vladimir sonnecchiava. Vassia stava al capezzale di Volodia, in ginocchio. Cacciava le mosche. Purché Volodia dormisse e si riposasse, dopo aver subito tanti tormenti!

Vassia e Volodia erano soli nella casa. Maria Semionovna era uscita per fare le commissioni. Il fattorino era sempre in giro. A Vassia piaceva restar sola con Volodia. Adesso, egli le apparteneva interamente, a lei sola. Era così debole e così perduto.

Se solo avesse potuto comprendere, se avesse potuto andare fino al fondo del cuore di Vassia, avrebbe visto come lei lo amava, con passione, come si sentiva affamata di tenerezza, come cercava le carezze di Volodia. Perché Volodia era sempre così silenzioso con lei, di un tale malumore? Non la guardava mai in faccia... Quando aveva la disgrazia di sistemargli male il cusino, egli diceva subito con un tono irritato «stupida d'un'infermiera. Non è nemmeno capace di sistemare i cuscini».

Non si poteva rimproverare niente a un malato. Ma, tuttavia, perché si comportava così? Non l'avrebbe mai perdonata? Resteranno insieme, ma come adesso, con questo freddo nel cuore, questa solitudine, questa atmosfera sinistra. Vassia contemplava Vladimir. Il viso di lui era noto e amato. Le sue ciglia erano come raggi. Vassia li aveva amati prima di tutto. Quanto a lui, lo aveva sedotto la treccia di Vassia, ma la treccia non c'era più.

Un vero romanzo. L'aveva stregato con la sua treccia, poi la treccia era stata tagliata e l'amato era subito partito. Si erano davvero amati! In quel momento, nel 1917, ma anche quando i bianchi portavano l'offensiva, ed essi erano partiti insieme una notte per arrestare i «cospiratori»...

Aveva detto a Vassia: «Se mi uccidono, fa' attenzione, non abbandonare mai la nostra causa, perché poi te ne pentiresti».

«Ma anche tu, Volodia, promettiamo tutti e due». Si erano stretti la mano, si erano scambiati uno sguardo, poi di nuovo al lavoro...

Ora, quella notte, aveva gelato... Le stelle erano diventate rare in tutto il cielo, e la neve scricchiolava sotto i passi del distaccamento che Vassia e Vladimir seguivano. Vassia si ricordava di tutto ciò. Sentiva che il cuore le si scioglieva sotto la carezza appassionata di una felicità passata. Non aveva pianto, non si era lamentata quando la disgrazia si era abbattuta su di lei. Sopportava pazientemente il suo male e si dimenticava di se stessa. Ma adesso le lacrime le scendevano lungo le guance, non lacrime di amarezza e di odio, ma lacrime tristi e dolci. Vassia piangeva sulla sua felicità passata, trascorsa per sempre... Niente avrebbe potuto riportarla, mai.

«Vassia, ma dimmi dunque, Vassia, perché piangi?»

Volodia aveva sollevato la testa dal cuscino. Contemplava Vassia non con un occhio estraneo, che non vede niente, glaciale, ma con quello sguardo vicino, singolare, affettuoso, pieno di desiderio e di tristezza.

«Perché piangi, mia piccola Vassia?» Posò affettuosamente la mano sulla testa ricciuta di Vassia.

«Volodia, tu sei ciò che io ho di più caro al mondo, amore mio, mi perdonerai?»

«Sei davvero sciocca, mia piccola Vassia. Che ti devo perdonare? Non piangere così. Parliamo un po'. Vieni, siediti più vicino. Ecco, così. Noi viviamo tacendo, ed è ben penoso per entrambi».

«Non ti devi inquietare... Ho paura per te, mio amato. E’ meglio che parliamo un'altra volta».

«No, un'altra volta non riusciremo a parlare nello stesso modo. Lasciami alleggerire l'anima. Sono allo stremo delle forze, Vassia. E' per questo che ho voluto lasciare la vita. Ora, attualmente, pur avendo voglia di vivere, non vedo via d'uscita».

«Cerchiamo insieme, Volodia. Io non sono diventata un'estranea per te».

«Tu sai tutto, Vassia».

«Sì», disse lei con la testa.

«Allora tu hai compreso la mia angoscia, la mia tortura... E dire che mi rimproveravi ógni sorta di stupidità, soprattutto quel Saveliev».

«Lo so bene».

«Tu ti sei ancora ingannata su un altro argomento: hai dovuto pensare che ci fosse amore! Non è vero? No Vassia, non ho amato e non amo che te, mio angelo custode, mia fedele amica... tu puoi chiamarla "infatuazione", puoi chiamarla come vuoi, ma non è amore. Ora, tu eri gelosa, mi hai sospettato, spiato...»

«Mai, Volodia, mai».

«E allora, come mai? Non ricordi più la storia della stoffa? Non ricordi più come cercavi di sapere? Perché io ero profumato? Dove abitava Saveliev?»

«Volodia, io non ti spiavo, non è vero. Ma immaginavo ogni sorta di ragioni, il che mi faceva male. Cacciavo questi pensieri, Volodia. Non volevo sospettare di te, non volevo perdere la fiducia in te».

«Tanto peggio, se immaginavi, ma tuttavia eri gelosa, non parlavi francamente, ma mi tormentavi e mi torturavi. D'altronde, perché parlare... Siamo entrambi colpevoli».

Un silenzio. Entrambi erano pensierosi.

«Volodia, adesso passeremo tutta la nostra vita così?» domandò Vassia con inquietudine.

«Non lo so, Vassia. Io mi sento perduto. E non so che fare».

Di nuovo entrambi tacevano. Nel loro spirito ribollivano tante cose che non riuscivano a comunicare. Si sarebbe detto che un muro si fosse alzato tra di loro.

«Chi sa, Volodia, forse tu starai meglio con lei, con quell'altra donna?» domandò Vassia con prudenza. Si stupì lei stessa di non soffrire facendo questa domanda.

«Vassia, sì, Vassia, io vedo che tu non mi credi».

«Veramente, il fatto di essermi suicidato, quando ho compreso che ti perdevo, non ti dice chi amo?»

C'era del rimprovero nella sua voce, e anche negli occhi.

Il cuore di lei fremeva di gioia. Gli occhi bruni di Vassia erano illuminati di felicità.

«Volodia, mio caro marito». Si stringeva contro il petto di lui, gli allacciava il collo cercando le sue labbra.

«No, Vassia, non fare così. Calmati, mia piccola Vassia. Tu vedi che io sono privo di forze. Non posso ancora baciare».

Vladimir sorrideva, accarezzava i capelli di Vassia, ma i suoi occhi riflettevano di nuovo la tristezza.

Il muro era cresciuto tra di loro. Era impossibile abbatterlo, impossibile trovare un sentiero che conducesse al cuore dell'altro attraverso le spine che li avevano allontanati.

Vladimir andava per la prima volta al lavoro. Andò all'ufficio della direzione. Vassia fu felice di sentirsi libera. Fin dal mattino si recò al comitato di partito. Andò più tardi alla fabbrica d'imballaggio. Liza aveva bisogno d'aiuto, perché bisognava preparare la conferenza sindacale. Vassia si affrettava ad arrivare al comitato di partito. Sorrideva, dentro di sé. Si sentiva liberata da una gabbia, felice di rincontrare i suoi amici. Da molto non vedeva i suoi compagni. D'altronde anch'essi erano contenti di vederla. Erano annoiati di non incontrarla più. Tutti i compagni amavano Vassia. Era così seria nel lavoro, e non i erano pettegolezzi, per di più. Sapeva comprendere le pene altrui. Appena arrivata al comitato di partito, la misero al lavoro. Bisognava scegliere le tesi da sviluppare, preparare i materiali di cui avevano bisogno i «relatori».

Vassia diede un'occhiata all'orologio: oh, erano le sette passate. Certamente Vladimir l'aspettava da molto. E gli avranno servito il pasto che il dottore gli aveva ordinato? Vassia se n'era dimenticata. Camminava fianco a fianco con Liza, commentando le notizie di Mosca portate da un compagno del centro. Ora avevano luogo delle cose incomprensibili nel partito. Liza «non era d'accordo con la sua linea di condotta». Preferiva appoggiare i compagni della fabbrica. Alla conferenza del partito erano stati presentati candidati separati. E di nuovo si sarebbe lottato contro il presidente del comitato provinciale. Vassia la invidiava. Perché da quando era arrivata non prendeva vere decisioni in nessun campo. Era come se non fosse membro del partito, ma una simpatizzante.

«E tutto questo perché sei la moglie del direttore. Se vivessi da sola, avresti una vera attività».

Vassia sospirava. Sapeva tutto ciò senza che Liza glielo dicesse. Ma, attualmente, non c'era nemmeno la possibilità di pensarci. Bisognava che prima di tutto Vladimir ritrovasse la salute, poi sarebbe partita per la sua provincia.

«Tu non partirai» disse Liza «ti sei troppo attaccata al tuo Vladimir Ivanovic. Sei diventata una "moglie"». Liza pronunciava questa parola con stizza. Ma dopo tutto ciò che Vassia aveva dovuto subire, non si lamentava più. Il suo desiderio più forte era che Volodia vivesse, che non soffrisse più.

Vassia rientrò a casa. Ma Volodia non c'era.

«Dov'è Vladimir Ivanovic? Non è ancora rientrato?»

«Come? certo che è entrato. Era in casa alle tre, aspettandovi perché mangiaste con lui. Ha atteso a lungo. Voi non siete venuta. Ha dunque mangiato con Ivan Ivanovic. E sono partiti da poco insieme in automobile».

Così Maria Semionovna la informò di quel che era avvenuto.

«C'è un biglietto per voi sul tavolo».

Vassia se ne impadronì.

«Cara Vassia. Abbiamo convenuto che al presente non ci può essere che la verità tra noi, e che tu mi comprenderai sempre. Oggi ho bisogno di stare "là". Ti spiegherò più tardi perché e tu comprenderai che è necessario che sia così. Conformemente al nostro accordo, ti prego di non rattristarti. Il tuo Volodia».

Vassia lesse. Si sentì cadere le braccia. Come? Di nuovo? Non è cambiato niente? Perché aveva pensato che fosse finito? Forse Volodia glielo aveva detto? Come se non sapesse che Ivan Ivanovic andava spesso là e faceva da tramite tra Volodia e l'altra. Volodia manteneva onestamente quello che lei gli aveva tanto domandato: «la verità, nient'altro che la verità». Ma allora, perché soffriva Muto? Perché accrescere l'amarezza generata dall'offesa? Perché era furiosa contro Volodia? E' che lui l'aveva di nuovo «delusa».

Maria Semionovna mise a tavola gettando uno sguardo di disapprovazione su Vassia.

«Su, mangiate, o farete di nuovo i capricci? Prima non mangia l'uno, poi non mangia l'altra. Come se io non «avessi preparato niente. Storie, lacrime, finché non avrete finito di uccidervi l'un l'altro. Fate come volete, Vassilissa Dementievna, arrabbiatevi pure con me, ma ve la voglio dire io la verità: voi non siete che una misera moglie per Vladimir Ivanovic. Adesso vi sentirete tutta rattristata per la sua lettera e piangerete al pensiero che è andato a ritrovare la sua amante... Ma io vi dirò che ben vi sta. Lui, si può dire, si è alzato dal suo letto di morte, perché per causa vostra aveva preso il veleno. E voi trovate il modo di andarvene a tutta velocità appena ha messo fuori un piede. Se lo aveste fatto per una questione di lavoro lo si potrebbe comprendere. Il servizio ha le sue esigenze. Ma voi non avete fatto che vagabondare per tutte quelle riunioni per istruire quelle stupide ragazze! Prima di educare gli altri, fareste meglio a mettere un po' d'ordine in casa vostra... C'è veramente da vergognarsi ad essere al vostro servizio. Questa non è una casa, ma una vera bettola!».

Sbattendo la porta con furore, Maria Semionovna scomparve in cucina. Ma ritornò pochi minuti dopo, di umore migliore, con una frittata ben calda e un bicchiere di cacao.

Riprendete un po' di forze Vassilissa Dementievna. Quanto ai vostri tristi pensieri, lasciateli da parte... Non si può pensare a tutto».

Maria Semionovna si sedette al fianco di Vassia, e si mise a ricordare un caso simile che era avvenuto nella famiglia della moglie del generale Gololobov. Quella signora era morta. Solo che in quel caso tutto era successo per colpa di una di quelle «governanti», di una di quelle piccole «francesi». Più tardi, il generale e sua moglie si erano riconciliati. Essi avevano anche vissuto insieme molto bene fino alla morte di lei. Ed erano stati molto felici...

Vassia seguiva appena la conversazione, ma non interrompeva Maria Semionovna. Durante la malattia di Vladimir, erano diventate amiche. Maria Semionovna aveva pietà di Vassia. Da parte sua, quest'ultima aveva creduto di scoprire in Maria Semionovna una persona «del suo ambiente». Ne aveva abbastanza di medici specialisti, di membri della direzione. Erano dei borghesi. Ma quando Maria Semionovna si gettava nella descrizione del genere di vita che conducevano i «miliardari» Pokatilov e dei gusti della defunta «moglie del generale», Vassia si annoiava molto, ma per compassione non voleva offenderla. Aveva buon cuore, anche se a prima vista sembrava bisbetica. Ma, adesso, il racconto di Maria Semionovna irritava particolarmente Vassia, che voleva restar sola per riflettere sulla situazione. Ancora una volta voleva precisare le cose, esaminarle fino al minimo dettaglio.

«Grazie per la vostra generosità, Maria Semionovna. Andrò ancora una volta ad esaminare i miei documenti».

«Non mangiate altro? Se l'avessi saputo non avrei preparato niente. Voi morirete di fame, Vassilissa De-mentievna, e veramente non ne vale la pena!... Se bisogna dirvi la verità, l'amante di Vladimir Ivanovic non vale un soldo, non vale la punta del vostro mignolo».

Ecco, Liza aveva detto la stessa cosa!

«Perché pensate questo, Maria Semionovna? Dicono che è molto bella».

«Bella? Piena di polvere di riso e truccata come un clown. Per quanto riguarda l'intelligenza, non pensa che ai vestiti e a spremere dagli uomini quanto più denaro possibile»,

«la conoscete, l'avete vista?»

«Come, se l'ho vista? Ha passato tante volte la notte qui... Piena di fronzoli e capricciosa... Per la notte, bisognava scaldarle acqua... e servirle ora questo ora quello... Vuol farsi passare per "dama" dicendo che è abituata fin dall'infanzia a condurre una vita da signori... Menzogne... Certamente non è vero. I veri signori sono educati, dicono sempre grazie alla domestica e anche per favore, mentre quella posatrice sa solo comandare: servitemi questo, fate quello, pulite quest'altro».

«Come si chiama?»

«Si chiama Nina Konstantinovna. Quanto al cognome, e cosi complicato che non riesco a ricordarlo. In ogni modo, la chiamano dappertutto Nina Konstantinovna».

«Mi piacerebbe vederla, almeno una volta» disse Vassia, meditativa, girando tra le mani la lettera di Volodia.

"Niente di più facile. Passeggia tutti i giorni nel giardino municipale, da quando incomincia a suonare l'orchestra. Andiamoci domani, la vedrete, quella "smorfiosa". Un tempo a Mosca, ce n'erano molte come lei che vagabondavano per le strade».

«Dite che va spesso ad ascoltare l'orchestra! Bene, andremo a vederla, Maria Semionovna. Mi sentirò forse meglio dopo averla vista».

Maria Semionovna scuoteva la testa. Ne dubitava, ma non voleva convincere Vassia a non andare. In fin dei conti, si sentiva incuriosita: come si sarebbero guardate le due rivali?

Vassia misurava a gran passi l'appartamento immerso nell'oscurità. Non voleva accendere la luce. L'oscurità le sembrava più propizia. Vassia non ritrovava più la calma. Quel mattino tutto le sembrava andar bene. Volodia aveva ritrovato la salute; era uscito per andare al lavoro. Anche Vassia s'era messa a lavorare. Presto sarebbe partita per la sua provincia. Non sarebbe comunque diventata veramente la «moglie di un direttore». Da quando Vladimir e lei si erano messi d'accordo sulla necessità di «dire la verità», Vassia sentiva il suo spirito più calmo. Ma ecco che di nuovo qualche cosa la tormentava... Non era la gelosia a tormentarla, la piccola vipera non osava levare la testa. Vladimir non aveva peccato contro il loro «accordo». Aveva detto a Vassia tutta la verità, come a un «amico». Ma, nonostante ciò, lei non si sentiva bene, benché si facesse dei rimproveri: che voleva esattamente? Non pensava, tuttavia, che attualmente Vladimir fosse ritornato completamente da lei. E che avesse cacciato dal suo cuore «l'altra». Ecco dov'era la disgrazia. Vassia l'aveva creduto, l'aveva sperato e desiderato.

Avevano sofferto insieme tante cose, e ora erano tornati al punto di partenza. Vladimir passava di nuovo le sue serate con «l'altra», mentre Vassia passeggiava sola in un appartamento con le luci spente... Volodia non provava alcuna compassione per lei. Non le faceva nessuna concessione. Chi amava, dunque? Impossibile a comprendersi. Amava Vassia, l'amica-compagna, oppure l'altra, la sua bellezza? Egli diceva di amare Vassia ma, in realtà;era tutt'altra cosa. Questi pensieri e questi dubbi rendevano la situazione ancora più triste. Se fosse stata sicura che egli avesse cessato di amarla, sarebbe partita. Ma se ancora una volta si ingannava, e se lui tentava di suicidarsi? Adesso, Vassia non poteva più lasciare Vladimir. Come vivere lontano da lui con un tale tormento nel cuore? Il ravvicinamento avrebbe facilitato un po' le cose. Amava Vladimir, perché, se non l'avesse amato, come avrebbe sopportato tanti tormenti, tante sofferenze e dolori? L'amava, ma al tempo stesso comprendeva Vladimir sempre meno. Si sarebbe potuto dire che essi seguivano due cammini attraverso la foresta. Due sentieri che si separavano a partire dall'ultima radura. Più si avanzava nel bosco, più i sentieri si allontanavano l'uno dall'altro... Lei amava Volodia. Ma nel suo intimo lo condannava sempre di più. Perché Volodia aveva potuto «distrarsi» con una donna del genere? Se almeno fosse stata delle «nostre», «una comunista», sarebbe stato meno grave. Ma lei era tutto ciò che si poteva immaginare di più «borghese». Volodia stesso l'aveva confessato a Vassia. Era un'estranea, una signorina, una nobile, una donna viziata. Non capiva niente dei bolscevichi, dei comunisti.

Rimpiangeva la vita di un tempo, e aveva sempre vissuto nel lusso. In quella casa non c'erano state meno di diciassette persone. Aveva un cavallo da sella, con una sella speciale per donna. Suo padre era partito con i bianchi, sua madre era morta durante la rivoluzione. Suo fratello ufficiale era scomparso senza lasciar tracce. Era rimasta sola. Allora aveva cercato un impiego. La sua conoscenza delle lingue l'aveva fatta entrare nell'ufficio della direzione per esercitare le funzioni di «corrispondente». Volodia l'aveva appunto conosciuta là. Lei se ne era incapricciata, gli aveva scritto delle lettere. Vassia era lontana; Volodia, sempre solo. Si erano allora avvicinati l’uno all'altra. In ufficio avevano presto compreso a che punto stavano le cose e avevano cominciato a guardarla di traverso, questa Nina Konstantinovna. Aveva lasciato il suo impiego e Saveliev se l'era presa come segretaria.

«Veramente come segretaria?» aveva domandato Vassia, non potendo continuare a tacere.

Voleva pungere Volodia, o semplicemente conoscere la verità sul conto dell'altra.

«Ma perché raccogli tutti i pettegolezzi», aveva detto Vladimir furioso. Era tutto rosso. «Non hai vergogna,

Vassia, di ripetere simili porcherie. Io non pensavo che tu l’avresti biasimata come le altre donne. Perché agisci così,Vassia? Di solito non sei così...».

Egli allora aveva raccontato a Vassia che Saveliev era una specie di padre e di tutore per Nina Konstantinovna. Aveva conosciuto in passato i suoi genitori, e quando Nina era restata sola al mondo, era venuto in suo aiuto, le forniva consigli e denaro, e l'aveva aiutata a rientrare all’ufficio. Saveliev era venuto ancora in suo aiuto quando aveva lasciato l'ufficio. Lei aveva perduto il suo alloggio.

Dove poteva andare? A casa di Vladimir non era possibile. Saveliev le propose di andare a casa sua. Nina Konstantinovna aveva rifiutato. Non le restava che mettersi sul marciapiede. Saveliev le trovò allora un piccolo palazzo padronale, vi fece il suo ufficio e propose a Nina di sistemarvi il suo appartamento. Saveliev era per lei un tutore. Doveva pensare ad essa e averne pietà...

«E farle la corte» aveva detto Vassia, non potendo ancora una volta trattenere la lingua. Volodia parlava di quella donna con troppo «amore»... Vassia sentì che la collera la invadeva. Era troppo fiducioso; Vassia non credeva invece nella minima parola dell'«altra». Tutti dicevano che era una donna «di facili costumi».

Vladimir si era agitato di nuovo.

«Menzogne! Pettegolezzi! Come puoi ripetere chiacchiere simili. Se vuoi sapere la verità, fammi delle domande. Nina non fa attenzione a nessun altro. Ama solo me. E anche se fosse così... Nina è molto bella. Saveliev non è il solo a farle la corte. Conosci Makletsov, dell'istituto del commercio estero? Le ha offerto diamanti e ogni sorta di lussi, ma lei lo ha messo alla porta! Io non dico che Saveliev non si senta attirato da Nina e che non l'ami solo come un padre, ma il fatto è che Nina non prova nei suoi confronti che ripugnanza... beninteso, come uomo. Non può succedere niente da questa parte, te l'assicuro. Impossibile pensarci ragionevolmente. Tuttavia, io la conosco, Nina!»

Ora sembrava inquieto, come se cercasse di persuadere non Vassia, ma se stesso. Vassia notava tutto questo. Ciò che le importava era che Saveliev fosse implicato in questa storia. Se ne sentiva offesa. Non per nulla aveva cominciato a detestarlo fin dal primo giorno, non per nulla alla commissione di controllo le avevano detto: «Vladimir Ivanovic farebbe meglio a prender le distanze da quel tipo».

«Ma, alla fine, non va bene che Saveliev sia immischiato in questa storia. E' per questo che ci sono pettegolezzi: si dice che vi dividiate le spese della signorina, che la manteniate insieme».

«Puoi sputare in faccia a tutti quelli che lo dicono. Vassia, perché non vuoi comprendere che la mia infelicità consiste in questo? Che io ho posseduto Nina vergine? Era pura...».

«Pura?»

Un ago sottile aveva punto il cuore di Vassia... Una volta, nel 1917, mentre beveva il tè, di notte, nella sua stanza, lui le aveva detto: «Io darò il mio cuore a una fanciulla pura», e più tardi, nel corso di un'altra notte, di una notte d'amore, mentre accarezzava Vassia, le aveva detto: «Non c'è nessuna al mondo più pura di te».

«Pura? Che sciocchezze mi stai raccontando, Vladimir! » come se la purezza di un essere fosse nel suo corpo. Tu cominci a pensare da borghese».

Vassia aveva sentito crescersi dentro la stizza, e anche la collera.

«Ma comprendimi, Vassia. Non sono io a pensarla così, ma lei... Per lei, il fatto che io l'abbia posseduta senza sposarmi con lei, è una catastrofe. Attualmente si considera "perduta". Non sai quanto soffre... Non la finisce di piangere. Comprendi, Vassia, lei non pensa come noi, da proletaria. Per lei, colui che l'ha posseduta per primo deve sposarla».

«Ma perché non me l'hai detto prima? Che cosa t'impedisce di sposarti? Sarei io?» Vassia, a sua volta, era andata in collera.

«Oh Vassia, tu sei intelligente, ma in tutto quel che riguarda l'amore tu sei una donna come le altre!... Come vuoi che mi sposi quando noi siamo estranei l'uno all'altra. Siamo così diversi. Io non sento per lei un vero amore, ma piuttosto compassione. Riflettici da sola».

Nient'altro che compassione, sarà vero?» Il cuore di Vassia trasaliva di gioia. Avrebbe voluto crederci. «Nient'altro che compassione».

«Se non c'è tra di voi né amore, né comprensione, perché trascini tanto a lungo questa relazione? E' solo fonte di sofferenze per te e per lei».

Vassia taceva sui suoi sentimenti.

«Ma come potrei abbandonarla, Vassia! Non è così semplice. Se me ne vado, dove andrà lei? Sul marciapiede. Le resterà solo di farsi mantenere da Saveliev o iscriversi come prostituta».

«Perché dovrebbe necessariamente farsi mantenere? Non ha che da lavorare».

«Facile a dirsi! Lavorare. Va' a cercare un lavoro adesso che riducono dappertutto il personale. E poi che lavoro fare? Nina non ha alcun motivo di andare in fabbrica».

Vassia aveva avuto voglia di gridare: «E perché non in fabbrica? E' una signora troppo grande per questo?» Ma aveva compassione di Vladimir. Era ancora malato. Il dottore aveva ordinato di «non urtarlo», di non inquietarlo. Già così, era tutto disorientato da questa conversazione.

Vassia, mentre camminava avanti e indietro nell'appartamento buio, rimpiangeva di non aver detto la verità a Vladimir, di non avergli detto quel che pensava di questa «Santa Nitusa». Non credeva a Nina Konstantinovna quando diceva di amare Vladimir. Semplicemente, lo circuiva per trarne il suo vantaggio... Vassia non la odiava perché era una donna leggera, ma perché il suo cuore non era sincero. C'erano molte «donne leggere» che erano migliori di quelle reputate oneste. Vassia si ricordava di Zinka la «riccia», che i bianchi avevano poi fucilato. Morendo aveva gridato: «Viva il potere dei soviet! Viva la rivoluzione!» Era una donna di strada, dell'ultima categoria. Come era cominciata la rivoluzione, sembrò illuminarsi. Si incaricava delle missioni più pericolose e più combattive. Lavorava con tutta l'anima nella Ceka, sì, con tutta l'anima. Se Vladimir avesse amato una donna come quella, Vassia l'avrebbe compreso. Mentre invece si trattava di una «signorina», di una borghese. Ci era estranea, e inoltre non era sincera. Menava Vladimir per il naso e lui, fiducioso, le credeva. Ecco una causa di seccature e amarezze! Vassia non glielo avrebbe mai potuto perdonare.

Come riusciva a tenerselo?... Con la compassione. «Io sono debole, nessuno mi aiuta». Era «pura». Da allora non era restata la minima traccia di purezza. Era da parecchio che l'aveva buttata via, la sua purezza, con gli uomini, in cambio di piccoli regali. Ma lui continuava a crederle. Ne aveva pietà... la collera la vinceva. Il furore contro «l'altra» la invadeva.

«Vassilissa Dementievna, camminerete ancora molto avanti e indietro?» Maria Semionovna interruppe con queste parole i pensieri di Vassia. Borbottò: «Fareste meglio a risparmiare le forze, vi saranno utili per le vostre riunioni, andiamo a dormire tutt’e due. E' inutile aspettare vostro marito. Se si diverte con un'altra, buon prò' gli faccia. Ma voi non tolleratelo. Gli sistemerò un letto nel salone».

Vassia abbracciò Maria Semionovna. La sua tristezza crebbe ancor di più. Era un'estranea ma aveva «pietà» di Vassia, mentre suo marito, il suo amico, non provava compassione che per l'altra, una donna senza cuore, una vera vipera.

«Mia piccola Vassia, dormi?» Vladimir entrò nella camera da letto e accese la luce.

Vassia era coricata, ma i suoi occhi erano spalancati. Come se potesse dormire, tormentata da un tale dolore.

«No, non dormo».

«Mia piccola Vassia, sei in collera con me? Sì?»

Si sedette sul bordo del letto e voleva baciare Vassia, ma lei si girò risolutamente.

E’ proprio così, sei adirata... Ma allora, il nostro accordo? Io ti ho detto la verità come a un amico. Sei stata tu a chiedermelo. Allora è meglio mentire!»

Vassia taceva.

«Non è bene, amor mio. Se ci rimproveriamo di nuovo, se litighiamo. Perché sei in collera? Perché ho visto Nina? Ma, Vassia, ti rendi conto che per tutti questi giorni sono stato con te, mentre lei era sola? Tu pensi che lei non abbia abbastanza sofferto per la mia malattia, che non abbia avuto abbastanza dispiaceri?»

Vassia avrebbe voluto gridare: «Che vuoi che m'importi?» Ma si limitò a serrare le labbra. Taceva. Solo il cuore le palpitava forte nel petto.

«Ma ascoltami, mia piccola Vassia, non pensare che sia successa laggiù chissà che cosa. Non ero il solo a visitarla. C'era anche Saveliev. Ed era venuto anche Ivan Ivanovic. Avresti dovuto sentirci. Tu vuoi sapere perché sono andato a trovarla... Per dirle addio... Perché mi guardi così? Non mi credi? Domandalo a Ivan Ivanovic. L'ho fatto venire perché faccia tutti i passi necessari, e aiuti Nina Konstantinovna ad andarsene di qui, a liquidare il suo appartamento e tutto il resto...».

«Ma dove va?» disse Vassia sordamente.

«A Mosca. Saveliev l'accompagnerà, ha dei parenti laggiù. Nina vivrà in casa loro. E poi, più tardi, troverà ben un impiego. Tutti quanti così si sentiranno meglio».

Vassia taceva, ma nei suoi occhi si leggeva la diffidenza.

Perché un simile cambiamento? Che era successo? Aveva cessato di amarla?

«Non parleremo d'amore. E' un altro problema. Ma è un fatto che non si può continuare così. Anche Nina lo comprende. E' lei che ha preso la decisione di partire per Mosca. Accarezzava da tempo questa decisione... Il mattino in cui tu te ne sei andata, in cui avevi rinnegato il tuo piccolo Volodia, Nina mi telefonò per dirmi che non avrebbe continuato a vivere così. Bisognava scegliere. Altrimenti sarebbe partita per Mosca...».

«Ah, ecco la ragione, la causa del tuo avvelenamento. L'una se n'era già andata, e l'altra minacciava di farlo. O mi sposi, o addio... Adesso capisco. Hai avuto paura di perderla. Che imbecille sono stata. Imbecille fino alla stupidità. E dire che avevo pensato che avevi voluto lasciare la vita perché mi rimpiangevi...».

Vassia rideva d'un riso isterico e cattivo.

«Vassia, adesso deformi tutto! Come sei diventata cattiva. Tu non sei più la Vassia di una volta...».

Vladimir lasciò il letto mentre diceva questo. «Veramente, in questo modo, non riusciremo mai a metterci d’accordo... Io volevo raccontarti tutto, perché non ci fosse più niente tra noi che restasse nascosto. Ma ora vedo che la verità fa danno. Tu sei come estranea, e anche senza bontà».

«No, no, fermati, Volodia, non andartene...». La voce di Vassia si spezzò come cristallo. Era il suo cuore pieno di dolore e di disperazione che risuonava così. Bisognava finire per stabilire un accordo. «Bene. Ma perché la mandi a Mosca? Non è me che tu ami, ma lei... Se tu mi avessi amato, saresti rimasto con me, oggi. Non ti preoccupi che per lei, non hai pietà che per lei!...»

«Vassia, Vassia, sei ingiusta. Se sapessi come ha sofferto Nina, durante questo periodo... E' così giovane, ancora una bambina. Non ha nessuno vicino. La trascinano nel fango, e perché,Vassia? Perché ha avuto la disgrazia di amarmi. Tu, tu hai il partito, gli amici... lei non ha che me. Io sono il solo che la difenda, il suo solo punto d'appoggio».

Vladimir camminava su e giù per la stanza, con le mani strette dietro il dorso. Raccontò a Vassia che Nina aveva atteso un figlio da lui. Il suo sogno di sempre. Quale gioia e quale amarezza!

«Ma dov'è questo bambino?» disse Vassia trasalendo.

«Proprio non t'immagini che Nina avrebbe voluto lasciarlo vivere? Ne sarebbe venuto uno scandalo e poi ci sarebbe stato il tuo dispiacere. E' per te che abbiamo avuto riguardo... Nina ha pianto, ha singhiozzato da morirne, ma abbiamo deciso insieme, Nina e io, che ci saremmo sacrificati per te, Vassia».

Allora era per me. Lui si intendeva con un'estranea per preservarla. Come se lei non fosse un amico e un compagno, ma un nemico. Volodia non era andato da lei, con il suo «dispiacere», ma dall'altra, da Nina... Nina era più vicina a Vladimir di lei. Di conseguenza, non Vassia, ma l'altra era sua, era dello stesso clan.

«Avevo saputo che Nina era incinta il giorno stesso del tuo arrivo. Tu comprendi ora la mia inquietudine Vassia!».

Vassia, in silenzio, mosse affermativamente la testa. Vladimir le fece il racconto completo. Perché non se ne parlasse, Nina era dovuta partire per un'altra città. Saveliev era riuscito a sistemarla. Laggiù aveva avuto luogo l'aborto. Ma l'operazione non era riuscita del tutto bene, c'era stata una complicazione. Vladimir le andava a far visita di tanto in tanto.

«Era all'epoca dello sciopero degli scaricatori?»

«Sì, all'incirca».

Ecco perché aveva pianto, nella sala da pranzo. Era a causa di Nina, naturalmente, non era per gli scaricatori.

«Era tornata insieme a Saveliev?»

Vassia si metteva a far domande.

«Sì».

Entrambi tacevano come nell'attesa di qualcosa. Sarebbero state dette parole cattive e crudeli. Più tardi, se ne sarebbero pentiti, ma sarebbe stato troppo tardi. Il loro amore sarebbe stato crivellato, mutilato come un viso colpito dal vaiolo. In questo amore non c'era più bellezza né calore...

«Vassia». Vladimir interruppe il silenzio pesante. «Perché tormentarsi in questo modo? Chi era colpevole? Io ti giuro che ho fatto del tutto per risparmiarti, con tutte le mie forze».

«Non avresti dovuto risparmiarmi, Volodia, ma credere che io ero tua amica...».

Vladimir si sedette di nuovo vicino a Vassia e le prese la mano.

«Vassia, io so che sei mia amica... Ecco perché tutto questo mi è così penoso».

Seguendo la sua vecchia abitudine mise la testa sulla spalla di Vassia. Vassia accarezzava questa testa che conosceva bene. Il dolore si mescolava a una dolce gioia.

Malgrado tutto, egli era con lei. E, a modo suo, l'amava.

«Volodia, non sarebbe meglio che fossi io a partire e non lei?» domandò prudentemente Vassia.

« Vassia, non ricominciare. Non straziarmi. Invece di sostenermi, mi spingi per una via falsa... Io ti ho detto tutto, come a un amico, non ho più segreti per te, e tu mi vieni a dire che parti».

«Ma è per te, Volodia, se tu l'ami».

«Che c'entra l'amore, Vassia? L'amore è l'amore, ma tuttavia io sono abbastanza grande per comprendere che non abbiamo molto a che vedere con Nina! Non è una compagna. Non può essermi amica come te. Ho pietà di lei, ho paura per lei... Che diventerà se l'abbandono, se ci separiamo completamente? Ho il sentimento di essere responsabile di lei... Tu mi capisci, l'ho presa vergine...».

«Andiamo Volodia, è una stupidaggine. Pensa un po' alla responsabilità di cui parli. Lei non era una bambina, comprendeva che cosa l'aspettava. Chi ci fa caso, a questo, attualmente!».

«Tu ragioni da proletaria, ma Nina è del tutto diversa. Per lei, è come se le avessero attaccato una pietra al collo».

Vedi bene, è per questo che ho detto che voglio partire, e tu sposati!...».

«Ricominci, Vassia. Ti ho pur chiesto di non mettermi alla prova. D'altronde, adesso, è troppo tardi. Oggi abbiamo deciso tutto. Nina Konstantinovna partirà per Mosca giovedì. Ed è tutto. Punto».

Vladimir parlava con tanta calma e decisione che Vassia dovette credergli.

«Ora tu, mia amata, pazienza ancora pochi giorni. Non sfinirti e non sfinire nemmeno me... Lei partirà e noi vivremo di nuovo come in passato, anche meglio che in passato. Abbiamo conosciuto insieme il dolore, e proprio per questo saremo più vicini».

Volodia strinse Vassia e le coprì gli occhi di baci.

«Mia piccola Vassia, oggi voglio coricarmi con te. Me lo permetterai. Sono stanco, mi gira la testa. Non so perché».

Vladimir si mise a letto. Appoggiò la testa sulla spalla di Vassia e si addormentò immediatamente. Ma Vassia non riusciva a dormire. Se l'avesse amata, l'avrebbe accarezzata, se l'avesse amata, avrebbe intuito la tristezza di Vassia... Contemplava la testa di Volodia. La conosceva, questa testa, ma i pensieri che c'erano dentro le erano estranei, impenetrabili. Le ciglia di Volodia erano come dei raggi, ma velavano uno sguardo tenero che non era rivolto a lei. Le labbra ardenti di Volodia facevano soffrire di languore un'altra, accendevano il desiderio in un'altra donna. La piccola vipera trafiggeva il cuore di Vassia col suo dardo affilato. Lo mordeva, lo lacerava. Vassia aveva respinto la testa di Volodia.

«Perché cacci il tuo Volia, l'illuminato?» sussurrava Vladimir nel dormiveglia.

«Volia l'illuminato». Ma chi lo chiamava così? Vassia non l'aveva mai fatto. Anche nel sonno pensava all'altra. Vassia guardava suo marito addormentato, con furore. Era veramente suo marito? Era soprattutto un vecchio amico-compagno. Era lo stesso che lei aveva amato nel corso delle giornate in cui lottavano per i soviet?

Vassia sentiva che la sopraffacevano il freddo e la solitudine. La piccola vipera aveva chiuso il suo cuore strettamente e lo pungeva, ridendo di lei.

Il giardino municipale era pieno di polvere, privo di frescura. Vi regnava un'estate canicolare e spossante. Nel cielo, nemmeno la minima traccia d'acqua. Niente pioggia. Gli alberi, altrimenti, sarebbero stati lavati della polvere della città e l'erba assetata avrebbe potuto abbeverarsi...

Cominciò a suonare la musica. Il pubblico era scarso. Alcuni bambini si divertivano. Dei soldati dell'Armata rossa stavano seduti in gruppi. A volte passavano davanti ai suonatori con delle «signorine» a braccetto. Su una panchina, all'ombra, era seduto un prete in sottana. Si appoggiava a un bastone, pensoso. Accanto a lui, una balia sorvegliava un bambino.

Vassia e Maria Semionovna si sedettero su quella panchina, mettendosi di fianco per vedere meglio.

Attendevano la venuta di Nina Konstantinovna.

«Ecco, oggi, non la si vede venire, la nostra "regina". Gli altri giorni la signorina appariva fin dai primi accordi dell'orchestra. Doveva esibire la sua eleganza. Le grandi dame ora vengono qui apposta, per cercar di capire a che punto è la moda attuale... Prendono lezioni da Nina Konstantinovna perché lei è sempre vestita all'ultima moda»,

Vassia l'ascoltava distratta. Era tutta presa dalla curiosità di scorgere Nina. Che andatura aveva? Allo stesso tempo, le si serrava il cuore di spavento. Le sembrava che si sarebbe straziata di dolore, appena l'avesse vista.

«Non è quella? Guardate, Maria Semionovna, accanto all'orchestra a destra. Si è appena seduta. E' tutta in rosa».

«Andiamo, non pensateci nemmeno. Nina Konstantinovna è ben diversa. La si distingue tra tutte. E' una vera eleganza, conosce la moda».

Stavano sedute ad aspettare. Ma Nina non veniva. Forse era meglio rientrare e tornare un altro giorno. Proprio in quel momento apparve Nina Konstantinovna. Era venuta dall'altra parte del parco, e s'era fermata vicinissima all'orchestra. Parlava con Saveliev e con due graduati dell'Armata rossa, facendo finta di non notare che il pubblico la divorava con gli occhi.

Eccola, infine! Un vestito bianco, vaporoso. Tutto il corpo era avvolto in pieghe elastiche. La rotondità dei suoi seni si disegnava sotto il vestito. Alle mani aveva guanti lunghi. Un cappello intonato ai guanti, dello stesso giallo sabbia, abbassato sugli occhi... Vassia non riusciva a vederle il viso. Non distingueva che le labbra: brillanti, come spalmate di sangue.

«Guardatele le labbra, sono sanguinanti».

«Ma è rossetto» spiegò Maria Semionovna, «e se fate attenzione agli occhi, noterete che sono cerchiati di nero. Mi vien voglia di prender della stoppa per lavarle tutto quello che le copre il viso. Allora si potrebbe vedere com'è veramente. Anch'io sarei una bellezza, se mi mettessi tanto belletto e colore».

Nina Konstantinovna si appoggiava al suo ombrellino di merletto bianco. Giocava con la punta della scarpetta bianca. Rideva rovesciando un po' la testolina. Anche i due graduati dell'Armata rossa ridevano. Saveliev si teneva da un lato, come annoiato. Tracciava linee sulla sabbia con la sua canna.

«Ha un cappello tanto grande che non le si vede il viso» disse Vassia con stizza.

«Sapete? Passiamole davanti. Così potrete esaminare meglio la nostra "regina". Ma, per me, io non vi consiglierei di esaminarla. Non è poi tanto bella. Quando ero a casa della moglie del generale Gololobov, ne ho visti parecchi di veri signori e di vere bellezze, mentre questa non vale proprio niente».

La curiosità divorava Vassia. Aveva bisogno di capire perché Volodia l'amasse tanto.

Appena Vassia e Maria Semionovna si furono alzate per dirigersi verso Nina, quest'ultima strinse la mano ai graduati e ad alta voce si accomiatò da essi. Le parole arrivarono fino alle orecchie di Vassia: «Ora ci vedremo a Mosca». Si girò e andò verso l'uscita, seguita da Saveliev.

«E allora? Le andiamo appresso? Non sta bene, Vassilissa Dementievna. Che se ne vada al diavolo, quella donna preziosa. Qui vi conoscono. Ci saranno già abbastanza pettegolezzi».

Vassia rallentò il passo, senza perdere di vista Nina.

Era alta, svelta. Muoveva le spalle, camminando. Dopo che ebbe lasciato l'orchestra, abbassò la testa, e a Vassia sembrò che Nina piangesse. Saveliev si piegava verso di lei e cercava di persuaderla di qualcosa. Ma Nina scuoteva la testa. Diceva certamente di no. Aveva portato una mano inguantata fino al viso, come per asciugare una lacrima. Piangeva veramente. Era venuta a dire addio all'orchestra. Dunque amava Volodia. Non voleva semplicemente «estorcergli» denaro. L'inquietudine stringeva il cuore di Vassia. Ora che aveva visto Nina Konstantinovna, non si sentiva meglio. Non era la gelosia a farla soffrire, ma un altro sentimento, un sentimento nuovo, una specie di pietà che andava verso «l'altra»? Perché era venuta ad ascoltare l'orchestra? Nina diceva addio alla sua felicità.

Una nuova sofferenza martirizzava Vassia. E, allo stesso tempo, era adirata contro se stessa. Non le mancava che di soffrire per «l'altra», per quella che li aveva separati. Ecco una bella novità!

Nina Konstantinovna partì per Mosca. Erano passate due settimane da quando Saveliev e lei avevano lasciato la città. A Vassia sembrava di avere davanti a sé una vita felice, e che potesse approfittarne. Quella che li aveva separati era partita. Vladimir era restato con Vassia. Vassia gli era dunque più preziosa. Ne aveva più bisogno. Con «l'altra» era stato qualcosa di provvisorio, di passeggero.

Vassia sorrideva, Vassia rideva. Tossiva di meno. Andava puntualmente al comitato di partito. Anche Vladimir era occupato. Riorganizzava gli affari applicando il piano dei membri del cartello. Quando avesse finito, sarebbe partito per Mosca con Vassia, e di là sarebbe stato trasferito a un nuovo distretto. Vladimir era contento. Si dava completamente al suo lavoro. Tutto progrediva, a quel che sembrava. Ma la gioia che c'era stata prima non c’era più. Per niente. Nemmeno il minimo segno. Non si poteva dire che Vladimir mancasse di affetto ma, per una cosa o per l'altra era infastidito, si irritava con Vassia.

Perché era tornata in ritardo dal comitato di partito? Lei obbligava gli invitati a far tardi. Non ci si poteva mettere a tavola senza la padrona di casa. Un'altra volta si adirò per una storia di colletti. Gli era impossibile averne puliti. Vassia non potè contenersi. «Forse questo riguardava solo Vassia? Avrebbe potuto dar disposizioni lui stesso. Non aveva che da rivolgersi a Maria Semionovna. Vassia non voleva fargli da lavandaia...» Si lasciarono adirati l'uno contro l'altra. E tutto questo a causa di un maledetto colletto! Vassia, una volta, tornò a casa sotto una pioggia dirotta, senza cappello. L'aveva lasciato al comitato di partito, perché non voleva sciuparlo. S'era appunto messa un fazzoletto sulla testa. Vladimir se ne accorse e fece una faccia cupa. Come si permetteva di uscire così? le disse in tono di rimprovero. «Stivali scalcagnati, una gonna piena di fango, un fazzoletto in testa, come una contadina. Che trascuratezza!» Di nuovo Vassia non riuscì a contenersi.

«Non possiamo essere tutti eleganti... Ma in cambio, io so resistere ai Saveliev!».

Vladimir guardò Vassia con aria cattiva. Vassia pensò che l'avrebbe colpita. Ma lui si trattenne in tempo.

Andava male. Vassia e Vladimir volevano essere amici ma, in realtà, come si presentava qualche problema, si rivoltavano l'uno contro l'altra, e la collera cresceva. Vladimir passava il tempo a sognare il lavoro che avrebbe avuto in un altro distretto, come avrebbe organizzato la casa, la sua vita... Tutto ciò annoiava Vassia. Perché organizzarsi la vita, solo per sé? Che gioia poteva trovarci? Fosse ancora per un «collettivo»! Vladimir non era d'accordo e rimproverava a Vassia il suo spirito «arretrato». Capitava a Vassia di parlare delle discussioni che avevano luogo nel circolo marxista. «Solo l'economia guida la storia oppure le idee vi sostengono anch'esse un ruolo non trascurabile?» Vassia allora si animava. Voleva condividere con Vladimir tutto quello che aveva sentito. Ora, questo lo annoiava. Era poco serio. Al contrario, rialzare la redditività di un'impresa, rappresentava realmente qualcosa per lui. E di nuovo ricominciava la discussione. Quando restavano insieme, non sapevano più di che parlare. Che fare, allora? Chiamavano subito per telefono Ivan Ivanovic. Quando c'era lui, si sentivano più liberi.

Vassia aspettava delle lettere dalla provincia. Ma non le scrivevano nemmeno loro, né Grusa, né Stepan Alexievic. Nemmeno una parola. Certamente era successo loro qualcosa.

Vassia, senza confessarselo, attendeva che la convocassero per lavorare in provincia. Sarebbe partita, sì o no.

Infine arrivò una lettera dalla provincia, una lettera raccomandata di Stepan Alexievic. Era breve, ma seria. Proponeva a Vassia di incaricarsi dell'animazione di un gruppo in una fabbrica tessile. Bisognava lanciare l'attività militante «in un modo nuovo», seguendo le indicazioni del centro. Vassia avrebbe potuto vivere laggiù, fuori città. Chiedeva di mandargli una risposta.

Il cuore di Vassia si mise a battere. Si sentiva spinta irresistibilmente verso i «suoi». Altrimenti, non era una vita. Non faceva niente e si annoiava. La sua sola occupazione consisteva nel domandarsi se non sarebbe successa ancora qualche storia. Si sentiva incatenata. Vassia si ricordò che suo fratello Kolka aveva una cornacchia.

L’aveva catturata in un bosco. Perché non potesse volar via, le aveva legato le ali col filo. L'uccello passeggiava sul pavimento aprendo il largo becco, e guardando dalla finestra con i piccoli occhi neri e intelligenti. Agitava le ali legate, facendole battere, gracchiava di dispetto una o due volte, poi di nuovo se ne andava con un'aria dignitosa sempre sul pavimento, come se non avesse fatto il minimo tentativo di fuga. Era lo stesso per Vassia adesso. Aveva le ali legate. Impossibile volarsene via. Da che cosa

Era legata? Dalla gioia? Dall'amore? No, dall'inquietudine, dal timore che di nuovo qualche cosa succedesse con Vladimir. Solo la gratitudine li univa. Lui non l'aveva abbandonata, e aveva allontanato la «»regina» dalla sua strada. Questi fili erano sottili, ma ostacolavano fortemente Vassia. Si sarebbe detto che Vassia fosse ricoperta di una stoffa abilmente intrecciata. Liza diceva: «Io non ti riconosco più, Vassilissa, te l'avevo ben detto che avresti finito per diventare una moglie di direttore. Ed è successo». Come sbarazzarsi di quel filo, come farla finita con quella rete intricata? Vassia teneva in mano la lettera di Stepan Alexievic. Non la lasciava più. La lettera, come un talismano, le avrebbe permesso di trovare la vera strada.

«Vassilissa Dementievna, non abbiamo più birra, bisognerà avvertire Vladimir Ivanovic perché faccia i passi necessari affinché la fabbrica ne invii. Altrimenti i nostri invitati verranno a cena e si potrà pur mettere sottosopra terra e cielo, allora, ma sarà impossibile trovarne». Maria Semionovna guardava Vassia. Evidentemente lei non l'approvava.

«Vassilissa Dementievna, perché tenete sempre il broncio... Io me lo domando veramente, permettetemi di domandarlo a voi. Per fortuna hanno spedito a Mosca "la preziosa". Vladimir Ivanovic adesso resta sempre con voi. Non fa un passo fuori... Ma allora, perché siete di cattivo umore? Ai mariti questo non piace. Apprezzano una sposa allegra, perché ci sia gioia nella casa. Dopo le preoccupazioni del lavoro, bisogna che trovino dell'allegria».

Vassia ascoltava Maria Semionovna; sorrideva e pensava: «Forse ha ragione. Bisogna scuotersi ed essere di nuovo la tempesta. Essere come ero nel 1918. Lavoro fin sopra la testa, ma altrettanta gioia di vivere. Sarebbe bene, forse, andare a trovare Volodia alla direzione all'improvviso, come una "visitatrice". Gli avrebbe parlato della lettera e gli avrebbe detto ridendo che avrebbe rifiutato quella proposta. Non poteva lasciare Volodia. Era necessario che si rendesse conto dell'immensità del suo amore, del desiderio che sentiva per lui. Se ne sarebbe rallegrato, l'avrebbe stretta con gioia, e le avrebbe ricoperto di baci gli occhi bruni e le braccia. Di nuovo l'avrebbe chiamata "Vassia la tempesta"».

Vassia scelse una piccola blusa bianca. Si mise una cravatta azzurra. Si sistemò il cappello davanti allo specchio. Si aggiustò i ricci. Oggi voleva piacere a Volodia. Gli portava un «regalo». Che regalo! Il suo rifiuto di andare a lavorare in provincia con Stepan Alexievic. Sarebbe partita per il distretto con Volodia e vi avrebbe scelto un lavoro.

Vassia uscì con questo stato d'animo per andare alla direzione. Entrò direttamente nell'ufficio del direttore. L’ufficio era vuoto. Il direttore era a una riunione, che sarebbe finita presto. Sarebbe venuto tra circa dieci minuti.

Vassia aspettava sfogliando i giornali di Mosca. Sorrideva Aveva trovato il modo per ricompensare Volodia del fatto che aveva lasciato l'altra e apprezzava Vassia più di tutto. Portarono la posta. La misero sul tavolo del direttore. forse c'era una lettera per Vassia. Mosse le buste e improvvisamente il cuore le si mise a battere in modo irregolare. Una busta colorata, stretta, con una scrittura fine e curata. Era certamente dell'«altra», di Nina Konstantinovna. Dunque non era tutto finito. C'era di nuovo la menzogna. A Vassia sembrava di star sospesa per aria, una sensazione interminabile, eterna.

Non si reggeva più sulle gambe, senza dubbio, perché toccò il portacenere che stava sul tavolo e lo fece cadere.

Le dita di Vassia sfioravano la busta stretta e colorata. Le sembrava che il suo destino fosse chiuso in quel messaggio. Una rapida decisione. E la busta scese nella tasca di Vassia. Ora nessuno potrà nasconderle la verità. Si avvicinava la fine della menzogna.

Entrò Vladimir, seguito da alcuni membri della direzione.

«Vassia, ci sei anche tu. Hai qualcosa di particolare da dirmi, oppure sei venuta solo per visitarci?»

«Non abbiamo più birra a casa. Bisogna ordinarne alla fabbrica».

«Sei diventata una dannata amministratrice. Non si riconosce più Vassia la tempesta» disse Vladimir ridendo come se gli facesse piacere.

Tu puoi ridere, e ridi, dunque. Io lo spezzerò, questo maledetto filo che mi trattiene vicino a te. Le smaschererò io le tue menzogne, fino alla fine.

« Vassia, non resti un altro po', te ne vai già?»

Vassia scosse la testa, in silenzio. Tutto in lei tremava, ribolliva, pronto a esplodere.

Vassia non ebbe abbastanza 'pazienza per attendere di leggere a casa la lettera. Andò nel parco municipale, si sedette su una panchina e strappò la busta. Non poteva contenersi più a lungo.

«Mio caro Volodia, "illuminato", mio sovrano, mio amato torturatore. Di nuovo resti muto. Da tre giorni non ricevo niente. Avrai dimenticato, avrai cessato di amare la tua "Ninka la capricciosa", "la tua scimmietta d'Egitto"? Non posso crederlo. Ma nondimeno, ho paura. Tu almeno sei con lei, io invece sono sola... Quell'autoritaria di tua moglie sa esercitare bene la sua influenza. Cerca di convincerti che il nostro amore è "un peccato contro il comunismo", che, secondo il vostro sistema, alla comunista, bisogna "digiunare", rinnegare tutto ciò che dà gioia, vivere solo per andare al sabato "comunista". Io la temo. Io so il potere che ha su di te... Mio Dio, mio Dio, io non cerco di togliertela... Io voglio così poco. Lei è tua moglie, davanti a tutti, tu sei con lei, sempre, sempre... Quanto a me, io ti chiedo solo una piccola ora per il nostro amore e un po' di pietà per me. Oltre a te, io non ho nessuno al mondo, dico proprio nessuno... La notte mi sveglio spaventata... "se improvvisamente cessasse di amarmi, se mi abbandonasse. Che diventerei, io?". Ho paura a pensarci. Nikanor Platonovic mi fa la posta come un ragno, tu lo sai bene. Poco importa il suo ruolo di padre. Sappiamo bene ciò che attende in realtà... Vorrebbe che tu mi abbandonassi perché io resti sola, tutta sola, senza difesa e aiuto... Allora comincerebbe la festa per lui. Ci sono dei giorni in cui lo odio, con una tale violenza che sono pronta a darmi al marciapiede per non sentire più ciò che gli "devo"...

«Volia, oh, mio amato Volia, mio amato fino alla follia, pensi veramente che non ci sarà un termine per questa situazione, che tu non finirai per salvare la tua piccola Nina, che tu non avrai pietà di lei, che tu non verrai per difenderla. Io piango, Volia. Tu non hai pietà della tua "scimmietta". Tu non pensi a lei. Tu sei cattivo, sei cattivo. In questo momento dai le tue carezze ad un'altra... Tu l'ami, io lo so. Oh, questo mi fa male... sì, male...

Io brucio di desiderio per te, l'appassionato, l'insaziabile... Davvero non hai nostalgia delle mie labbra... dei nostri abracci folli fino a soffocare. Le mie braccia, rivestite di sete dell'Atlante vorrebbero allacciarti. I miei seni, "coppe di voluttà", rimpiangono le tue carezze.

«Volia, io non posso continuare a soffrire, non posso più vivere separata da te. Perché mi hai spedita a Mosca, per quali ragioni? Che sia l'ultima volta. Quando tu sarai nel tuo nuovo distretto, trovami una casetta fuori città. Nessuno deve sapere che io sono là... "la casetta misteriosa". Tu verrai a raggiungermi al calar della notte... Là io apprenderò che un amore come il nostro è superiore a tutto, mille volte più importante che tutto al mondo. Quando verrai a Mosca? Non è che, per caso, anche lei verrà a Mosca con te? Ah, se potessimo riposarci insieme, non fosse che per una settimana, una sola settimana, ma che fosse "nostra".

«Nikanor Platonovic dice che "nel nuovo distretto tu avrai un'incantevole casa padronale". La sala da pranzo sarà in stile gotico, ma ci manca un lampadario. Io ho già scovato un lampadario che è una bellezza, un po' caro, ma veramente di grande qualità artistica. So che ti piacerà.

«Bene, adesso basta. Ho chiacchierato troppo. Questa lettera sta diventando tanto lunga che non saprai dove nasconderla... Io scherzo, mentre vorrei piangere. Tu non ti rendi conto di quanto soffro... Perché la vita non ci dà la felicità?

«Non temer niente, mio sovrano, non ti farò più rimproveri. Con tutto quello che ho sofferto, son diventata "saggia". Fà come ti sembra bene. Accetterò tutto. C'è una sola cosa che mi devi lasciare, la tua carezza ardente e il tuo amore.

«Pietà per la tua povera, nostalgica, capricciosa Ninka. Mosca Ostogenka, 18, appartamento 7, e non 17 come tu avevi scritto l'ultima volta. La lettera ha rischiato di perdersi. Tua interamente, dai piedini fino alle labbra ardenti. La tua dolce "bambina" Nina».

C'era in margine una scritta: «Ho avuto la gioia di trovare a Mosca la polvere di riso Lorigan Coty».

Vassia lesse a lungo la lettera di Nina, con attenzione, un foglio dopo l'altro. Non la lesse semplicemente con gli occhi, ma con tutto il cuore. Finì di leggerla. Si mise la lettera sulle ginocchia, e contemplò l'erba secca, piena di polvere. Una piccola ape attirò la sua attenzione. Ronzava come se fosse adirata, come se cercasse invano, con applicazione, fra i ramoscelli, e di nuovo se ne andò nell'erba.

... In primavera, quando i lillà fiorivano, c'erano anche le api. Ma erano differenti, erano allegre. Questa, invece, era cattiva, come se l'avessero ingannata.

Vassia sembrava pensare alla piccola ape, e non alla lettera. Il suo cuore diventava cieco. Niente poteva più toccarlo. Era indifferente. Ma la piccola vipera si rimise in marcia, pronta ad agire... Lei aveva parlato «di braccia rivestite di sete dell'Atlante», e, un po' dopo, di «labbra ardenti». La coda di quel maledetto rettile frustava il cuore di Vassia, e le faceva molto male. «Fermati, maledetta, non mi lacerare il cuore così. C'è ancora un angolo dove non sia penetrato il tuo veleno?» Vassia piegò la lettera lentamente e con attenzione. La rimise nella busta.

Si alzò, andò verso l'uscita, passò davanti al padiglione dell'orchestra. Oggi tutto era silenzioso. Vassia ora sapeva chi Vladimir amasse. Sapeva che era l'altra ad esser «sua», non Vassia.

Vassia uscì nell'agitazione della strada per il cancello del parco municipale dove la polvere turbinava, e le sembrava che una tomba fosse restata nel parco.

Vassia rientrò in casa come se venisse da un funerale, dal funerale della sua felicità defunta.

Vladimir era tornato a casa più presto del solito, sorridente e allegro. Portava una buona notizia. L'ordine tanto atteso era arrivato dal centro, con la nomina per un nuovo distretto. Bisognava andare a tutta velocità a Mosca.

«A Mosca. Bene. Anch'io devo andare, ma non a Mosca. Andrò a casa mia, in provincia».

Vassia sembrava parlare con calma. Ma in lei tutto ribolliva. In tasca aveva la piccola busta colorata di formato stretto: la lettera di Nina Konstantinovna.

Vladimir non fece caso al viso scavato di Vassia. Non vedeva le scintille di collera che accendevano i suoi occhi bruni. Non riusciva a comprendere perché Vassia esaminasse i suoi effetti personali nella camera da letto, perché imballasse le sue cose.

«Allora, ti sei decisa ad andare a trovare i tuoi. E' magnifico. Ci ritroveremo a Mosca, o andrai direttamente al nuovo distretto?»

Un'ultima speranza bruciava il cuore di Vassia. Era davvero l'ultima. Forse avrebbe protestato. Non l'avrebbe lasciata partire. Anche questa speranza scomparve...

«Non andrò nel tuo distretto. Ho ricevuto una convocazione, ma non per qualche tempo, per sempre. Ne ho abbastanza di soffocare in questa gabbia. Di giocare alla moglie del direttore. Prenditi per moglie una donna che apprezzi una vita del genere».

Una diga s'era rotta dentro Vassia. Versava onde di parole, si affrettava, s'interrompeva, mai più avrebbe permesso d'essere ingannata, ed era felice che il suo amore fosse finito... Si era davvero annoiata di non lavorare, tra quei borghesi, membri del cartello. Li aveva sopportati solo per Vladimir, e se soffriva di qualcosa era del fatto che Vladimir non aveva più bisogno di lei... Non c'era più cameratismo, più amore tra loro... Avere una donna in casa come casalinga, per servirsene di copertura: vedete io vivo in matrimonio con una comunista, l'altra è per divertirsi, è per l'amore in una «casetta misteriosa». Una bella trovata, davvero! C'era una sola cosa a cui Vladimir e Nina non avevano pensato: avrebbe permesso, Vassia, di far questa vita?

Gli occhi di Vassia erano diventati cattivi e verdi. Parlò fino a sentirsi soffocare.

Vladimir scuoteva la testa di dispetto.

«Vassia, sei proprio tu? Non ti riconosco. Se ti nascondo qualcosa, è semplicemente per un riguardo».

«Tante grazie, non ho bisogno della tua pietà. Io sono ferma su questo punto. Pensi che ci sia solo il tuo amore al mondo, come la luce del giorno? Ma tu lo sai che cos'è il tuo amore: una fonte di tormenti per me. E io voglio lasciarti al più presto, strapparmi a te. Non voglio sapere quello che fai. Ama chi vuoi... Menti, inganna, diventa un superdirettore... tradisci il comunismo... mi è tutto ugualmente indifferente...».

Vassia, nel fondo del suo cuore, era straziata dal dolore.

«Vassia, Vassia, e la nostra amicizia, la tua promessa di comprendere tutto?»

«Io non ti credo più, Vladimir. Hai ucciso la mia fiducia. Tu saresti dovuto venire e avresti dovuto dirmi: Vassia, ci è capitata una disgrazia, una grande amarezza. Amo un'altra. Tu t'immagini che io ti avrei trattenuto, che ti avrei rimproverato qualcosa, che mi sarei messa contro la tua felicità. Questo vuol dire dimenticare, Vladimir, che io non sono semplicemente una moglie, ma anche un amico, un compagno. Ecco dov'è l'offesa. Ecco perché non potrò mai perdonarti».

Le lacrime scendevano a rivoli sulle guance smagrite. Le asciugava con la manica, voltandosi dall'altra parte.

«Io ho avuto fiducia in te come in un compagno. Tu hai calpestato questa fiducia, Vladimir. Non ne hai avuto pietà. Se non si ha più fiducia l'uno nell'altra, come fare per vivere?... Evidentemente è la fine della nostra vita in comune e della nostra felicità...».

Vassia era piena di nostalgia. Le sue magre spalle sussultavano. Si voltava per non vedere Vladimir.

Si era seduta sul bordo del letto. Le sue mani gualcivano la coperta di seta. Gli occhi erano pieni d'angoscia e di lacrime. Vladimir le si sedette accanto e la prese per le spalle.

«Tu dici che mi sei estranea, che non mi ami più. No, Vassia, se avessi cessato di amarmi, forse ti tormenteresti in questo modo? E io, ho cessato forse di amarti? Comprendimi. Sì, è vero, io amo Nina, ma in un modo completamente diverso... Se non ci fossi più tu, Vassia, io non troverei più la mia vita. Qualsiasi cosa faccia, penso sempre: "E lei, che mi consiglierebbe, che mi direbbe?" Tu mi hai guidato come una stella... Ho bisogno di te. Ecco tutto».

«Tu parli solo di te» rispose Vassia, tristissima. «E dimentichi me. Io, Vladimir, soffoco, in una vita del genere. Io non mi sento triste per il fatto che tu ti sei creato una "regina", ma perché noi non siamo più dei compagni...».

«Credi che non lo veda... Ma in che consiste il motivo di tutto questo? Io non riesco a capirlo. Quando siamo separati, ci prende la nostalgia, quando stiamo insieme, ci diamo fastidio l'uno all'altra... Tu dici che prima non era così. Ma forse che prima abbiamo vissuto molto insieme? A dire il vero, la vita di famiglia non l'abbiamo conosciuta molto... sempre sulla breccia, sempre per episodi. Vuoi che ce ne andiamo ciascuno per conto suo? Quando ci saremo annoiati, ci ritroveremo. Sì che lo vuoi. Vassia sarà di nuovo Vassia la tempesta. Amor mio, non ci saranno più menzogne. Però non bisogna rompere, Vassia. Non ci dobbiamo separare... Tu vedi come mi fai male. Abbi pietà di me, Vassia».

Vladimir, come al solito, nascose la testa nelle ginocchia di Vassia, affondò il viso nelle sue palme ardenti.

Silenzio. Entrambi tacevano.

Un’onda tiepida passava dall'uno all'altra, un languore dimenticato. La passione, sepolta sotto la cenere delle offese e della diffidenza, si riaccendeva.

«Vassia, mia adorata».

Le mani di Vladimir stringevano Vassia. La tirava sulle sue ginocchia. Le sue labbra ardenti tormentavano quelle di Vassia. Le carezze incendiavano il corpo di Vassia. Lei non resisteva e si lasciava andare al dolce languore già dimenticato.

«D'accordo, che sia così!» Vladimir amava Vassia, in questo momento, come in passato, completamente. Ora Volodia apparteneva davvero a Vassia, Nina era dimenticata. Volodia tradiva adesso Nina non solo con il corpo, ma anche con il cuore e l'anima.

Vassia non si sentiva come al solito. Sogghignava in un modo insieme doloroso e gioioso... Tanto peggio per il «tradimento»...

Vennero giorni bizzarri, giorni di soffocamento. La passione se ne stava nascosta sotto le ceneri delle offese e della lontananza, come un fuoco di legna che terminasse di bruciare. E, come se un vento d'autunno l'avesse rianimato, si rimetteva a fiammeggiare e si allargava. Le fiamme lambivano le ferite carbonizzate cercando nel cuore nuovi terreni da devastare.

Vladimir era diventato tenero, Vassia sottomessa e affettuosa. Sembravano amarsi di nuovo e non potevano più vivere l'uno senza l'altra. Di notte si stringevano forte l'uno contro l'altra, come se avessero paura di perdersi. Vladimir baciava gli occhi bruni di Vassia... Lei stringeva sul suo cuore quella testa che conosceva così bene... Non avevano mai ancora conosciuto una tale passione, non si erano mai accarezzati in quel modo... con una nostalgia mescolata a una gioia amara. Si sarebbe detto che si erano ritrovati oppure, al contrario, forse dicevano addio all'amore... alla felicità che se ne era irrimediabilmente andata.

Vassia sorrideva, scherzava, ma, nel proprio intimo, le sembrava di dover da un momento all'altro scoppiare in singhiozzi. Vladimir accarezzava Vassia, la guardava fino al fondo degli occhi bruni, ma negli occhi di lui lei leggeva un'angoscia insuperabile. Non vi vedeva più danzare il piccolo fuoco fatuo della felicità, non riflettevano più l'amore di Vassia, come se Volodia, senza il tramite delle parole, le dicesse «addio».

Per non vedere gli occhi di Volodia, per non leggervi le lacrime, per uccidere la tristezza dell'irrimediabile, Vassia stringeva il collo di Volodia con le sue braccia smagrite. Cercava le sue labbra... Volodia stringeva Vassia al cuore. La faceva soffrire, la copriva delle sue carezze ardenti. Cercava il corpo di Vassia insaziabilmente, finché non cadeva in una stanchezza insonnolita...

Giorni bizzarri, soffocanti, cupi, asfissianti. Non erano felici, non erano ebbri di quella gioia dalle ali leggere che l'amore fa nascere.

Si erano accordati su un punto. Vassia, «aspettando» sarebbe andata in provincia per il suo lavoro. Quando Vladimir si fosse stabilito nel suo distretto si sarebbero messi d'accordo per lettera. Dove si sarebbero rivisti? Tacevano, nemmeno una parola sulla rottura. Tutto appariva semplice e comprensibile, assolutamente chiaro. Sembrava che «fosse tutta la verità». Solo una cosa non fu detta, che lei aveva nascosto la lettera di Nina, che la conservava, come se le potesse ancora servire. Ma aveva molto insistito con Vladimir perché inviasse un telegramma a Nina per farle sapere che sarebbe arrivato solo. Perché Vassia aveva bisogno di questo? Ne soffriva e, allo stesso tempo, non arrivava a decidersi «a farlo». Vladimir cercava di tirare le cose per le lunghe, di quando in quando guardava Vassia con sospetto. Aveva paura di qualcosa e inviava sempre dei messaggi. Il suo affetto per Vassia era cresciuto.

Bene, doveva andare così. Lei beveva le ultime gocce di felicità che restavano in fondo alla coppa della loro vita in comune... E in quelle gocce c'era l'ebbrezza della passione e l'amarezza dolce dell'addio...

Vassia era allegra, coraggiosa, vivace. Da tempo Volodia non l'aveva vista così.

«Sono riuscita a disfarmi di quella pelle esterna che mi copriva... In fin dei conti, non sono affatto una "moglie di direttore". Tu hai bisogno di una moglie diversa, non sono ben assortita con te! Finché durerà la Nep, non sarò buona a niente», diceva scherzando e punzecchiando Vladimir.

«Io non so chi sei tu, so solo una cosa, so che sei di nuovo "Vassia la tempesta". Ora, questa "tempesta", io non la darò, non la lascerò partire, nemmeno se venissero a convocarla cinque comitati di partito. Per un certo tempo, forse sì, ma per sempre, mai».

Vassia rideva. D'accordo! Si sarebbero incontrati di tanto in tanto, come compagni liberi, ma non come marito e moglie.

Vladimir era d'accordo. Sarebbe stato meglio, davvero, ma non avrebbe potuto vivere senza avere al suo fianco la testolina intelligente e ricciuta di Vassia.

«Sì, Vassia, in questo mondo ci sono pochi amici veri... Soprattutto ora che tutti sono dispersi. Ognuno pensa solo a se stesso. Vassia, noi siamo amici, siamo passati per tante prove, non è vero?»

Si parlavano. Il muro non esisteva più. Era stato sfondato. La piccola vipera taceva, non si muoveva più nel cuore di Vassia. La gelosia sembrava esser scomparsa. Ma, a un tratto, nel momento in cui meno se lo aspettava, il dardo affilato la punse. Vladimir, senza nemmeno saper troppo perché, stava parlando di Nina. Evidentemente pensava molto a lei.

«Tu non immagini quanto è "dotta". Con un francese, cinguetta in francese. La sua parlata fa pensare a un fiume di perle. Con un tedesco, parla in tedesco. E' stata educata all'istituto delle ragazze nobili».

«Se è tanto "dotta", com'è possibile che non possa trovare un impiego? Oppure si è abituata a vivere da parassita... E' più comodo vivere come amante, evidentemente!»

Vassia sapeva che non doveva parlare così, ma non potè impedirselo. La piccola vipera la pungeva, e allora lei cercava di colpire Volodia. Che fosse infelice anche lui! Volodia faceva il broncio. Il suo sguardo era carico di rimproveri per Vassia.

«Perché parli così, Vassia? Non è bello. Non è "Vassia la tempesta" che parla... E' un'estranea "Vassilissa Dementievna"».

Vassia si sentiva mortificata di dolore e vergogna. Ma non capitolava. Cercava, sempre più, di colpire Volodia, finché non diventava furioso. E allora si riprendeva.

«Non arrabbiarti, amor mio, perdona questa cattiva. Io ti amo. Se non ti amassi, non ti farei soffrire».

Si cercavano l'un l'altra nei baci soffocanti, nell'ebbrezza del corpo, per non pensare più, per non soffrire più, per dimenticare, per ingannare l'irrimediabile verità...

Vassia aveva cessato di lavorare al comitato di partito. S'era messa a pulire la casa. Tutto, adesso, le creava preoccupazioni, le casse d'imballaggio, la paglia... Vassia discuteva con Maria Semionovna. Voleva esser consigliata. Che bisognava imballare, e come, perché niente si spezzasse, si rovinasse... Tutto doveva arrivare intatto nel nuovo appartamento del direttore...

«Ma perché vi date tanta pena?» domandò Maria Semionovna, scontenta, «dato che avete deciso di andarvene nella vostra provincia? Perché tante storie? Vi ricorderete di quello che vi ho detto: appena avrete passato la soglia della porta di casa, la signorina salterà dentro e prenderà il vostro posto. Voi, dunque, fate tutto al suo posto e vi prodigate per lei».

«Bene, e allora? Anche se fosse così. Se l'aiuto non lo faccio come moglie. Come moglie, non l'avrei fatto. Come moglie, avrei condannato Vladimir perché è diventato un borghese. Mentre adesso tutto questo mi è indifferente. Che agisca a modo suo, e lei pure». Ognuno segue la sua strada. Erano stati compagni, perché non aiutarsi, allora? Non aiutava suo marito perché lui lo esigeva, se lo aspettava o lo ordinava. Lei lo faceva volontariamente, come per un compagno, un amico, e per altro non ne provava alcun dispetto. Se gli piaceva di trascinarsi appresso tutte quelle cianfrusaglie, di invadere i trasporti del popolo con casse di vasellame e bauli pieni di coperte di seta, era affar suo! Evidentemente, non si poteva andare per la stessa strada. Lei non avrebbe più passato la vita con la mano nella mano di lui. Quanto ad aiutarlo ad imballare, perché non aiutarlo...?

Volodia passava di sorpresa in sorpresa. Come era possibile che fosse diventata una donna di casa? Se ne vantava con Ivan Ivanovic e con i membri della direzione. Lui stesso chiedeva a Vassia: chi, nel nuovo distretto, nella sua nuova dimora, avrebbe potuto mettere in ordine, se Vassia non fosse venuta immediatamente da lui?

«Chi? Ma a che serve Nina Konstantinovna? Forse non si vorrà sporcare le manine bianche? E' una gran dama. Bisogna che tutto sia pronto per lei, che le si presenti tutto su piatti d'argento... Lei vive sulle spalle degli altri e con il pane degli altri».

Pungeva Volodia nella parte più sensibile. Vladimir la guardava. I suoi sguardi le lanciavano rimproveri eloquenti, e sembravano domandarle perché meritasse un tale trattamento.

«Mio caro, amore mio, io sono cattiva, veramente cattiva. Lo so bene. E' per colpa dell'amore. Non ti arrabbiare, mio caro, ho solo scherzato».

Nascondeva il viso nel petto di Volodia e inghiottiva le lacrime. Vassia amava Volodia, qualsiasi cosa accadesse. Lo amava, ne soffriva, e allo stesso tempo aveva paura di perderlo. Lo temeva. Era meglio allora non vivere più.

«Com'è infelice, il mio piccolo cuore... Mia piccola gentile Vassia, io ti conosco, ed è proprio per questo che ti amo. E' proprio per questo che non ti posso strappare dal mio cuore... In tutto il mondo non c'è un'altra Vassia come te. Non avrò mai un'amica come te».

E di nuovo un'ebbrezza soffocante ed amara le faceva girare la testa. Di nuovo, nelle carezze, essi cercavano di dimenticare il proprio dolore.

«Lascerai un angolino nel tuo cuore per il tuo "anarchico" ribelle?

«E tu ti ricorderai di "Vassia la tempesta"?» Giorni strani, asfissianti, soffocanti, pieni di tenebre.

Vassia stava davanti alla porta chiusa della sua vecchia mansarda dove ora abitava Grusa. Bussava alla porta. Giù le avevano detto che Grusa era tornata dal lavoro. Ma la porta era chiusa. Dov'era?

Toc, toc.

Grusa non doveva dormire. Girandosi, vide Grusa che, nel corridoio, si affrettava con una pentola piena d'acqua bollente in mano.

«Grusa!»

« Vassilissa! Amica mia. Ma quando sei arrivata? Ah, veramente non pensavo di trovarti qui!»

Grusa mise la pentola sul pavimento. Si abbracciarono.

«Te ne prego, entra. E' la tua mansarda, ed è grazie a te che ci abito. Fammi aprire. Ci sono tanti ladri qui da noi che è uno spavento. Adesso chiudo la porta a chiave anche quando vado a prendere l'acqua... Di recente hanno rubato a casa di Furazkin il cappotto autunnale che stava appeso a un chiodo. Era un cappotto nuovissimo. Ha messo sottosopra la casa, ha chiamato la milizia. Non hanno trovato niente. Bene, Vassilissa, eccoti a casa tua, spogliati, lavati, ne avrai bisogno dopo tutta questa strada. Stavo appunto per bere il tè. Avrai fame. Ci sono delle uova, pane e delle mele eccellenti...».

Grusa aveva detto «a casa tua», come se persone come Vassia avessero una casa.

Gettò uno sguardo intorno. Le sembrava davvero di conoscerla, quella mansarda. Eppure, non rassomigliava più a Vassia. C'era una macchina da cucire e, in un angolo, la carcassa di un manichino... Pezzi di stoffa sul pavimento, scampoli, pezzi di filo... Le pareti erano vuote Né Marx, né Lenin, né il gruppo dei «comunardi» fotografati quando avevano festeggiato l'anniversario di quella casa. Al loro posto, un ventaglio sbiadito di carta rossa era fissato al muro. Vicino, una cartolina tutta coperta di zampe di mosche, rappresentante un uovo e un'iscrizione in lettere d'oro: il Cristo è resuscitato. Nell'angolo, era attaccata un'icona. Grusa non era iscritta al partito. Credeva in Dio. Osservava i digiuni, benché fosse favorevole al regime sovietico e avesse amici comunisti. Aveva un fidanzato che era partito con i «bianchi». Forse era morto. Se è morto, è stato ucciso dai soldati dell'Armata rossa. Per questo Grusa non voleva diventare comunista. Conservava il ricordo del suo fidanzato.

«Se vi seguissi», diceva, «lui mi maledirebbe nell'altro mondo».

Prima, Vassia non comprendeva Grusa. Come si poteva amare un «bianco»? Attualmente, Vassia sapeva che non si poteva comandare al cuore. Si era separata da Vladimir seguendo una strada diversa. Ma il suo amore era ancora vivo e non si calmava...

Grusa era felice di vedere Vassilissa. Non sapeva dove invitarla a sedersi. Aveva da darle un mucchio di notizie. Si stupiva che Vassia non avesse approfittato di più del nutrimento che il marito le dava... Era tornata quale era partita, magra, e anche di più, forse. Vassia si rifugiava nel silenzio. Aveva pensato che, appena visto Grusa, avrebbe potuto raccontare alla sua amica tutta la sua infelicità, attraverso i baci e le lacrime. Ma, appena l'aveva vista, si era ritrovata muta. Impossibile trovare le parole giuste. Come raccontare a un altro una infelicità così grande?

Nella casa corse la voce che Vassia era ritornata. I vecchi inquilini ne furono felici. I nuovi si presentarono con curiosità. Volevano vedere come era. Uno dei membri del comitato degli inquilini le fece una cattiva accoglienza. Senza dubbio lei avrebbe avuto la pretesa di dirigere l'amministrazione della casa! I bambini che erano stati amici di Vassia e che facevano parte del club «dei piccoli» accorsero per primi a casa di Grusa.

I più anziani si lamentarono subito con Vassia: a causa della Nep, avevano chiuso il club dei bambini. Dicevano che non era redditizio. Avevano bisogno del locale per un'altra cosa. Ma dove potevano andare gli scolari a preparare le lezioni? Avevano buttato via tutte le collezioni, avevano distribuito la biblioteca a quelli che volevano. Avevano perfino venduto qualche cosa.

Vassia ascoltava. Era possibile? E subito si sentì invadere dalla collera. Non avrebbe lasciato che le cose andassero così. Oggi stesso sarebbe andata al comitato di partito, alla sezione dell'educazione popolare, e anche alla sezione alloggi. La Nep, sia pure, la Nep! Ma quello che gli operai avevano fatto con le loro mani, con il sudore della fronte, non si poteva permettere che si toccasse.

«Vado a fare una guerra, e non gli permetterò di farlo. Non abbiate paura, ragazzi miei, difenderò le vostre rivendicazioni, anche se per questo dovessi andare fino a Mosca».

I ragazzi più grandi risero. Credevano a Vassilissa. Era ben capace, lei, di difenderli. Adesso, lei andava a fare una guerra. Anche in questa casa la chiamavano la «guerriera». Era così che si doveva essere. I ragazzi approvavano Vassilissa.

Dopo i ragazzi, vennero a salutare Vassilissa i vecchi inquilini. Non ebbero il tempo di darle il benvenuto che già ognuno si affrettava a parlare a Vassilissa, a raccontarle le sue preoccupazioni e le sue disgrazie. Ognuno aveva le sue. Vassia ascoltava e, secondo la sua abitudine, esaminava ogni problema e dava dei consigli. Sapeva consolare.

Le persone si pressavano nella mansarda. Non avrebbe potuto entrarci una mosca.

«Compagni, dovreste aspettare un po'», supplicava Grusa. «Non le lasciate nemmeno il tempo di mangiare, dopo aver fatto tutta quella strada... E' certamente stanca. Ha passato tante notti in quel viaggio, mentre adesso voi le rompete la testa con tutte le vostre sciocchezze».

«No, Grusa, non impedirgli di parlare. Non sono affatto stanca. Allora, Timofei Timofeevic, che mi stavate dicendo? Ah, sì, mi parlavate delle vostre "imposte". Dite che vi hanno obbligato a pagarle? E come? Non siete né padrone, né sfruttatore, né direttore...»

Dopo aver pronunciato la parola «direttore», si ricordò di Volodia. Il dolore le diede un colpo, ma non poteva più fermarsi, in mezzo alle preoccupazioni altrui.

Poco a poco, i vecchi conoscenti se ne andarono, Vassia si preparò per andare al comitato di partito. Voleva sistemare subito le cose e dimenticò la stanchezza...

Si abbottonò il vestito ascoltando le notizie che Grusa le raccontava. Il tale si era sposato, il tal altro aveva lasciato il partito, la tale era stata eletta al soviet. A un tratto risuonò la voce della Fedossiev. La si sentiva per tutto il corridoio.

«Dov'è dunque il nostro tesoro, la nostra protettrice di sempre,la nostra cara Vassilissa Dementievna...». Abbracciò subito Vassia. La strinse, la coprì di baci. Intanto piangeva, e bagnava di lacrime tutto il viso di Vassia.

«Io ti ho aspettata, mia carissima, ed ero triste di non vederti. Solo in voi c'è la luce. Vassilissa Dementievna. Io mi dicevo: come tornerà, la nostra protettrice, capirà subito di che si tratta. E lui, il maledetto, non oserà coprire di vergogna la sua sposa legittima. Avrà vergogna di diffamarmi con la sua donnaccia per tutta la casa. Finirà per avere pietà di me, di me che sono costretta a errare sola con i bambini, di me che sono sola... Lei lo porterà davanti ai tribunali, e bisognerà bene che ubbidisca al partito. Tutta la mia speranza è in te. Tu sei il tesoro di tutti noi».

Vassia aveva l'abitudine di capire quello che succedeva fin dalle prime parole. Ma questa volta non riusciva ad afferrare. Che cosa faceva soffrire la signora Fedossiev, di che si lamentava? Vassilissa vedeva che quella donna era cambiata. Non la si riconosceva più. Era stata una donna grossa,forte, giovane, con un bel petto. Ed eccola diventata gialla, magra... Era invecchiata. Che le era accaduto?

Fedossiev si era lanciato in un'avventura amorosa con un'ebrea non battezzata, e non voleva più vedere sua moglie. La svergognava davanti a tutto il quartiere, e non provava alcun imbarazzo davanti alle persone. Trascurava i figli legittimi, e portava via tutto per darlo alla sua amante. Ecco qui per te! Gli importava poco che tutta la famiiglia crepasse nella palizzata del giardino, purché quella signorina non lo cacciasse, col suo viso butterato...

«Che ci ha potuto trovare Dora in quell'imbecille» urlava la signora Fedossiev. «Se ancora fosse un vero uomo, ma vien voglia di sputare a guardarlo. E' un vero insetto... Io sono stata la sola a sopportarlo per otto anni. Ho baciato il suo viso storto. Tutto questo per i bambini, io pensavo: benché non sia bello, Vassilievic, bisogna che sopporti la tua disgrazia. Il destino ci ha riuniti, la chiesa ci ha sposati. Eppure, mi ripugnava quando veniva ad accarezzarmi. Io pazientavo. Io non guardavo gli altri, pensavo che avrei finito per guadagnarmi la sua riconoscenza. Gli avevo dato la mia giovinezza, a lui, a quell'infame pidocchio. E come la mia bellezza fu passata, ecco che è successo. Si è messo appresso a una ragazza, per di più una giudea. La vergogna è su tutto il quartiere adesso...»

La signora Fedossiev piangeva, singhiozzava. Vassia l’ascoltava. Le sembrava che un'onda scura le si avvicinasse al cuore. Vedeva nella signora Fedossiev la sua stessa disgrazia. Riconosceva la sua stessa offesa e sofferenza. Tutto il suo coraggio scomparve. Non aveva nemmeno più voglia di andare al comitato di partito, e voleva mettere il viso nel cuscino, non veder più la luce del giorno.

Nel frattempo, la signora Fedossiev piangeva. Copriva di baci le spalle di Vassilissa, e le domandava di insegnare

A suo marito «l'intelligenza e la ragione», di difendere i suoi bambini, di minacciarlo col giudizio del tribunale del partito.

Quando lasciò il comitato di partito, Vassia fu riaccompagnata dagli amici. Non riuscivano a raccontarsi tutto, e Vassia era in piena forma. Appena varcata la soglia del comitato aveva dimenticato tutto, come se avesse vissuto solo per questo, come se al di fuori del partito Vassia non avesse avuto altra preoccupazione. Era commossa .discuteva, insisteva. Insisteva, apprendeva e «si informava». Tutto la interessava, la riempiva. La sua testa lavorava, mentre la sua anima aveva le ali. Entrò correndo nella mansarda, senza rendersi conto di come saliva la scalinata. Solamente lassù sentì la stanchezza. Grusa si dava da fare con la cena. Vassia, nel frattempo, si sdraiò un poco sul letto e, di colpo, si addormentò di un sonno profondo. Grusa guardava l'amica. Si domandò se dovesse o no svegliarla e ne ebbe compassione. Vassia era sfinita. Che si riprenda un po'!

Spogliò Vassia come una bambina, le tolse gli stivali. La coprì con la sua coperta e coprì la lampada con un fazzoletto... Si mise al lavoro, delle asole da sistemare. Toc, toc.

«Chi diavolo può ancora venire?» Grusa era furibonda. Impossibile avere un po' di calma.

Aprì.

Nel vano della porta apparve Fedossiev, il marito.

«Che volete?»

«Vorrei vedere Vassilissa Dementievna... E' qui?»

«Ma che? Siete diventati matti? E' appena arrivata, sfinita, senza aver dormito, e voi vi gettate su di lei come cani affamati su un osso. Vassilissa Dementievna dorme».

Il tono si alzò, tra GruSa e Fedossiev. Fedossiev insisteva, Grusa non lo lasciò entrare.

Si misero d'accordo per il giorno dopo. E Grusa gli chiuse la porta sul naso. L'odioso insetto! Tutto contro la moglie legittima, i suoi tre figli, e ora Dora, la sua nuova signora, già va a spasso con la pancia grossa. Chi ci si raccapezza!

Grusa disapprovava Fedossiev, ma disapprovava anche Dora. Perché si era legata a un uomo sposato? Non c'erano abbastanza scapoli?

Grusa era severa in materia di costumi. Si controllava, e continuava a non dimenticare il suo «fidanzato».

Vassia si era infine svegliata, tranquilla.

Un sole autunnale scherzava attraverso l'abbaino, copriva d'oro la macchina da cucire. Grusa faceva riscaldare il ferro da stiro sul fornello a petrolio. Si preparava a stirare un vestito.

«Per chi è quel vestito?»

«Per la moglie del presidente del comitato esecutivo, per la sua festa».

«Come, si celebrano di nuovo le feste?»

«Certamente. Dovresti vederlo. Meglio che nelle case dei vecchi signori. C'è un tavolo pieno unicamente di antipasti, di alcool, e di vodka».

Il ferro da stiro di Grusa fischiava. Non era il momento di mettersi a conversare. Vassia si sentiva bene sul suo letto. Lo riconosceva, duro e stretto. Aveva dormito con Volodia, su quel letto. Come avevano potuto entrarci? Adesso, anche in un letto a due piazze, si disturbavano, si impedivano di dormire.

Era il passato! Ora Vassia sentiva che le saliva nel cuore la nostalgia e il rammarico. La calma era rotta, ma la sua anima restava tranquilla, con rassegnazione, come un frutteto dopo la tempesta.

Grusa si ricordò dell'appuntamento con Fedossiev. Ne informò Vassia.

«E sia, che venga pure». Ma non aveva voglia di discutere di quella faccenda con Fedossiev. Si sentiva vagamente offesa per il fatto che in casa dei Fedossiev, di quei mestatori, fosse capitata una situazione analoga alla sua. Si informò sul conto di Dora. Che tipo era?

«Non ti ricordi di lei?» si stupì Grusa. Una brunetta abbastanza graziosa, che il giorno della festa della gioventù comunista aveva danzato suonando i cembali. Vassia si ricordò di Dora. Le era piaciuta. Nella commissione culturale lavorava con gli operai del cuoio. Era veramente intelligente. Cantava bene. Come poteva paragonarsi a lei la signora Fedossiev?

Grusa non era d'accordo con Vassia. Condannava Dora. Si doveva rispettare la legge. Se i comunisti avessero tollerato una tale condotta nei mariti, tutti gli sposi le cui mogli avessero dei bambini piccoli se ne sarebbero andati per prendersi delle ragazze. Si diceva che nel partito avevano cominciato un'inchiesta sul conto di Dora.

«Come un'inchiesta? Certamente la signora Fedossiev l'aveva avuta vinta. E' una donna spregevole», disse Vassia difendendo Dora. «Non c'è nessuna legge che possa obbligare qualcuno a vivere con una donna che non ama... Faranno forse un decreto per ordinare che Fedossiev faccia finta di capirsi con sua moglie? Che fare se la moglie diventa ripugnante, che fare se la moglie è una megera che si sente a suo agio solo nelle beghe?»

Vassia era agitata. La sua rabbia contro la moglie di Fedossiev la sopraffaceva. Perché? Non ne sapeva niente lei stessa. La discussione girava intorno ai Fedossiev, ma lei pensava a Vladimir. Difendeva Dora, ma nella sua immaginazione era sorto l'ombrello bianco di merletto e le labbra rosse di Nina...

Grusa era tutta stupita del fatto che Vassilissa difendesse Fedossiev.

«Sono dei veri amici, per te, pare. Eppure sei tu che li hai denigrati ai miei occhi. Ti hanno dato parecchi dispiaceri. Tu farai quello che vorrai. Ma io ti consiglio di non immischiarti in questo imbroglio. Che i cani si mordano tra di loro, che se la sbroglino da soli!»

Ma Vassia si ostinava. Se si fosse fatta un'inchiesta contro Dora, se ne sarebbe interessata. Dato che era la moglie legittima, la moglie di Fedossiev doveva immaginarsi di avere tutti i diritti. Si ingannava. C'erano diritti diversi da quelli che gli uomini avevano scritto, i diritti del cuore. L'uomo non aveva alcuna forza, alcun potere su di essi, a costo di morirne, il cuore esigeva sempre il dovuto.

Grusa ripassava il bordo del vestito destinato alla moglie del presidente del comitato esecutivo. Gettava delle occhiate a Vassia, delle occhiate incisive. Leggeva nell'anima della sua amica.

Vassia si accigliava. Non le piaceva che Grusa la fissasse così. Aveva torto? C'erano delle leggi che superassero quelle del cuore?

«Niente da dire su questo, certo il cuore è la cosa più importante. Senza il cuore, l'uomo non vale niente. Ma io vorrei vedertici a te. Adesso comprendo che il tuo cuore è pieno di amarezza, tu sei stata straziata dalle offese, Vassilissa. Per questo intervieni a favore di Fedossiev. Tu pensi senza dubbio a tuo marito, e vorresti giustificarlo ai tuoi occhi... E' certamente così».

Vassia taceva, teneva la testa bassa.

Grusa aveva finito di farle domande. Aveva tolto il vestito dalla tavola da stiro, lo scuoteva, toglieva i fili. Aveva finito.

«E' terminato?» domandò Vassia, mentre pensava a tutt'altra cosa.

«Sì, è finito».

«Bene. Grusa, vado al comitato di partito. Dirai a Fedossiev di aspettarmi qui».

«D'accordo».

Cominciò per Vassilissa un periodo duro. Faceva i suoi preparativi per le fabbriche tessili. Discuteva con Stepan Alexievic, studiava le direttive, passava delle intere serate in riunioni speciali per i militanti responsabili. Non aveva il tempo di ascoltare il suo cuore che già sorgeva una nuova preoccupazione. E oltre a tutto ciò, i coniugi Fedossiev e Dora che insistevano nella loro infelicità... Non lasciavano passar Vassia senza parlarle.

Fedossiev era venuto a trovare Vassia. Le aveva detto tutto, come in confessione. Aveva fatto la conoscenza di Dora Abramovna alla commissione culturale. Lui cantava nel coro. La sua voce di basso piacque molto a Dora Abramovna. Lo aveva presentato agli insegnanti del coro, perché lei stessa era «musicista». Lo aveva proposto come membro della commissione culturale. Era cominciato tutto in quel momento. La moglie ne aveva avuto sentore, e la faccenda si era complicata.

Fedossiev si sentiva offeso dalla moglie. Aveva divulgato delle chiacchiere, incitava i compagni contro Dora Abramovna. Metteva in circolazione delle lamentele dicendo che Dora Abramovna «distruggeva» la «famiglia». Sosteneva che Dora viveva grazie a Fedossiev. Ora, questo non era vero. Non solo Dora non prendeva un soldo da lui, ma si preoccupava della sua famiglia. Divideva con lui quello che aveva, e non si dimenticava dei bambini. Si era data da fare perché prendessero i bambini al giardino d'infanzia. Si era procurata dei quaderni e dei libri per il maggiore, quello che andava a scuola. Sua moglie non doveva saperlo. Aveva dato a Fedossiev stesso una cravatta e una giacca per i concerti... Ma i vicini, per rabbia, presentavano le cose in modo del tutto diverso...

Fedossiev soffriva per Dora. A lui, tutto questo importava poco. Ma pensava a lei. Purché non avesse da subire dei dispiaceri nel partito per causa sua. Sarebbe stata colpa di sua moglie che cercava sempre di metter loro i bastoni tra le ruote.

Vassia ascoltava Fedossiev, ma pensava a Vladimir e a Nina. Anche loro avevano sofferto nello stesso modo. Avevano cercato una via d'uscita. Ce l'avevano avuta con Vassia. Perché stava in mezzo alla strada che li portava alla felicità? Vassia aveva consigliato alla signora Fedossiev di far volontariamente macchina indietro. In ogni modo, non si poteva impedire la felicità altrui. Si poteva intervenire quanto si voleva. La felicità vi sarebbe passata sopra la testa. D'altronde, lei, che aveva fatto e ancora adesso che faceva, se non mettersi attraverso una strada, spiare la felicità altrui?

Fedossiev amava Dora. E parlando di lei diventava più bello. Era lo stesso per Vladimir quando si ricordava di Nina.

«Dora Abramovna ha un cuore d'oro. Al sindacato la rispettano tutti. I senza partito non vogliono credere che nel partito vogliono avviare un'inchiesta sul suo conto. Molti se ne rallegrano: "Deve solo unirsi a noi, i senza partito. Noi difenderemo sempre Dora Abramovna"».

Fedossiev non ebbe il tempo di andarsene che già sua moglie chiamava Vassia. Coprì Vassia di baci, e la pregò di «difenderla»...

Vassia non l'amava. Adirata, si scostò dalla signora Fedossiev che se ne andò ad urlare per tutta la casa maledizioni contro Dora, suo marito e Vassia.

Passando per il comitato di partito, Vassia incontrò Dora. Si appartarono un po' nell'angolo di una stanza, dove delle dattilografe scrivevano a macchina. Era pratico per parlare, perché quando le macchine erano in funzione gli altri non potevano sentire. Dora era abbastanza carina, il suo sguardo era intelligente. Piacque a Vassia. Dora si nascondeva sotto una sciarpa per dissimulare il suo stato. Si mise a parlare di Fedossiev e non di se stessa. Si preoccupava di lui. Dora lo apprezzava, e amava soprattutto il suo talento. Aveva una voce notevole, che valeva quella di Saliapin. Ma doveva imparare a servirsene. Era per questo che Dora stava facendo i suoi passi per sposarlo, per strapparlo alla famiglia, per obbligarlo a lasciare la professione di ciabattino, e dedicarsi completamente al canto.

Benché cantasse le lodi di Fedossiev, si lamentava della sua indecisione. In presenza di Dora, egli era pronto a tutto: era deciso, firmato: lasciava sua moglie, chiedeva il divorzio. Ma appena rientrava a casa, era tutto finito. Diventava molle e bisognava ricominciare tutto da zero. I )a mesi Dora faceva tutti gli sforzi in questo senso. Le cose non cambiavano.

Vassia la ascoltava. Si sentiva a disagio, inquieta, tormentata. Chi sa? Forse anche Nina aveva detto la stessa cosa riguardo Vladimir. Dora non aveva bisogno di tutte le formalità del divorzio e del matrimonio. Non erano nulla per lei. Era per «l'unione libera». Ma la signora Fedossiev non avrebbe lasciato tranquillo suo marito finché non avesse fatto registrare la sua unione ufficialmente in un commissariato. Dora utilizzava il suo «stato interessante» per far cedere Fedossiev e forzarlo ad accettare il divorzio. Quanto a lei, non aveva paura della maternità, e si sarebbe ben saputa difendere senza marito.

Per «far cedere», «per forzare il divorzio», Nina aveva probabilmente agito allo stesso modo!

Dora, la bocca piena di lodi per Fedossiev, chiedeva a Vassia di dare un parere favorevole.

Vassia continuava a riflettere. Dora non vedeva che il bene in Fedossiev; Nina vedeva Vladimir probabilmente nello stesso modo. Vassia, invece, non poteva agire così. Conosceva anche i lati cattivi di Vladimir. Lo amava, ma soffriva per i suoi piccoli difetti. Si tormentava, avrebbe voluto correggerlo. Forse lo aveva ferito con questo atteggiamento.

«Perché quella donna gli si aggrappa addosso?» disse con dispetto Dora. «Un tempo, si sono amati, ma, infine, si tratta del passato. Adesso, non c'è niente in comune tra loro. Lo conosceva, lei, lo apprezzava? Lei non poteva comprendere ciò che lui realmente voleva».

«Sì, è così», pensava Vassia. Era lo stesso con Vladimir. Lui non sa ciò che io voglio, e io non so quello che pensa lui. I sentieri della vita si sono separati, hanno seguito direzioni diverse.

Per la signora Fedossiev, è un estraneo. Sono diversi in tutto. Gusti e caratteri diversi. Lei ci tiene in quanto è il marito, ma come uomo non ne ha bisogno. Non ne ha bisogno per vivere.

Per quanto riguarda Vassia, Vladimir le era forse indispensabile per vivere? Si era posta la domanda e il suo cuore aveva risposto nettamente: no, non aveva bisogno di lui quale era diventato.

«Strana maniera d'amare», diceva Dora, che non riusciva a fermarsi. «Non sono d'accordo in niente: discussioni e liti di continuo. Ciascuno per suo conto. Non c'è amicizia né fiducia».

«Sì», pensava Vassia «né amicizia, né fiducia».

«Noi, invece, ci comprendiamo, con il compagno Fedossiev. Senza parlare, come se avessimo un solo cuore, una sola anima».

«Era così che dovevano amarsi Nina e Vladimir». Vassia ne prendeva coscienza proprio adesso. Era tutta pensierosa.

Vassia doveva seguire tante faccende! Si preparava in fretta alla partenza. Ma non dimenticava i Fedossiev e faceva domande per accelerare il divorzio. Faceva del tutto perché i compagni si riconciliassero con Fedossiev. Cercava delle giustificazioni per Dora. Era importante, questo, per Vassia. Molto importante. Non sapeva esprimerlo a parole.

Vassia aveva lasciato il comitato di partito. Si affrettava a rientrare in casa. L'indomani sarebbe partita per le fabbriche tessili. La testa le ribolliva al pensiero di riorganizzare le attività. Bisognava seguire le istruzioni, ma anche fare in modo che la cosa andasse bene alle masse dei senza partito. I senza partito, adesso, valevano quanto i comunisti... Cercavano di saperne di più. Analizzavano tutto da soli, non si contentavano di quello che gli si diceva. Bisognava mostrar loro delle cose reali, ed era meglio non presentarsi senza qualcosa di concreto.

La testa di Vassia lavorava, le pareva di aver dimenticato il suo problema di donna, come se non avesse perso il cuore del suo marito-amico e come se non fosse stata «moglie di direttore» per lo spazio di un'estate.

Vassia si affrettava. Non aveva mangiato niente fin dal mattino ma, appena pensava al cibo, aveva voglia di vomitare. Si sentiva turbata, le girava la testa. Da quanto tempo? Era malata, o... Cominciava a intuire qualcosa. Da circa tre mesi non le erano venute le regole. Doveva andare dalla dottoressa Maria Andrievna che abitava in quel vicolo. Avevano in passato militato insieme, per fare nidi d'infanzia nelle comuni. Bisognava che l'esaminasse. Le avrebbe detto la verità. Non voleva partire malata per la sua missione.

Vassia fece un giro per andare nel vicolo. Suonò a una piccola casa bianca.

Maria Andrievna aprì di persona. Fu contenta di vedere Vassia.

«Perché siete venuta qui da me? E' per una visita o per un consiglio?» Vassia era a disagio. Non sapeva perché. Le guance le si arrossarono. Maria Andrievna la guardò per qualche minuto con attenzione. La prese per le spalle.

«Seguitemi nel mio studio, vi esaminerò».

Maria Andrievna fece a Vassia delle domande sull'appetito, le regole, le vertigini. Sapeva tutto in anticipo. Esaminò Vassia con serietà. Era molto spiacevole per lei. Si sentiva a disagio, perché non era mai stata da un ginecologo. Era davvero terribile doversi esibire in quel tipo di visita.

Vassia si stava vestendo. Le tremavano le mani. Non riusciva più ad agganciarsi i vestiti. Maria Andrievna, in camice bianco, si lavava accuratamente le mani strofinandole con uno spazzolino. Entrambe tacevano.

«Compagna Vassilissa, non so veramente se sto per darvi una gioia o un dispiacere. Non c'è nessun dubbio, siete incinta. E' la gravidanza».

«La gravidanza?»

Vassia si stupì e immediatamente nel suo spirito passò qualcosa come un sorriso. «Un bambino? Va bene».

«Ritornerete da vostro marito?» domandò la dottoressa in camice bianco, mentre si asciugava le mani con un asciugamano ricamato.

«Da mio marito, no». Vassia scosse la testa. «Non andrò più da lui. Ci siamo separati».

«Vi siete separati, ma non è questo il momento. Come farete, forse c'è ancora tempo per sistemare la cosa. Sola con un bambino, che farete? Siete fragile».

«Non sono sola. Domani vado nelle fabbriche tessili. Laggiù c'è una cellula che marcia bene. Donne, operaie tessili... Faremo insieme un nido d'infanzia. Volevo domandarvi: siete riuscita a rendere redditizio un nido d'infanzia? Mi piacerebbe che mi spiegaste come, e che mi deste dei consigli».

Si misero a parlare di nidi, sovvenzioni, investimenti, sudari per gli specialisti. Vassia si dimenticò del suo «nuovo stato», che tuttavia la riguardava direttamente... Proprio al momento di lasciarsi, Maria Andrievna la richiamò.

«Non lavorate troppo. Ricordatevi che la vostra salute non è solida. Ho un po' paura per voi, mia cara».

Le diede ogni sorta di consigli. «Questo era proibito», «questo invece era utile». Vassia ascoltava attentamente per ricordarsene in seguito. Tutte quelle precauzioni erano per il bambino, perché fosse sano. Era piccolissimo, talmente impotente...

Vassia uscì nella strada. Sorrideva, camminando. Un bambino, questo capitava a proposito. Avrebbe dato l'esempio alle altre «donne», avrebbe mostrato loro come si educava un bambino «da comunista». Era inutile fondare una famiglia, attrezzare una cucina, procurarsi ogni sorta di sciocchezze. Mettere in piedi un nido d'infanzia, un alloggio in comune, che fossero redditizi!... Era talmente più chiaro quando c'era un esempio sotto gli occhi!

Vassia pensava alla redditività e si dimenticava di pensare al bambino. Ma a Vladimir non ci pensò nemmeno un secondo. Era come se non fosse il padre.

Vassia faceva i bagagli. Le cadde sotto mano una scatola, quella in cui aveva chiuso le lettere di Volodia... Il suo ritratto. Una busta stretta colorata: la lettera di Nina Konstantinovna.

Vassia gettò un'occhiata alla lettera. La girava e rigirava tra le mani. La conosceva a memoria, ma voleva rileggerla ancora. Ravvivava la piaga, ma non poteva impedirselo. Alle prime parole, la nostalgia le avrebbe scavato il cuore con il suo dardo acuto. Poi sarebbe stato il gran freddo, la collera contro Vladimir. Perché le aveva mentito, l'aveva ingannata?

Vassia prese in mano la lettera. Si sedette vicino all'abbaino. Scendeva la sera.

Aprì il foglietto ben noto. Leggeva con attenzione, parola per parola. Ma non si sentiva più rodere dalla nostalgia. La piccola vipera dell'invidia, piena di veleno, che l'aveva torturata, sembrava aver smussato il suo dardo. Lasciava in pace il cuore di Vassia. Invece del solito rettile, sorgeva nel cuore di Vassia, in una maniera inattesa, la pietà, la pietà per le lacrime di Nina Konstantinovna. Sì, era una pietà mescolata alla nostalgia e al dolore causati dalle offese che un altro cuore di donna aveva subito. Pensava a Nina. Si ricordava di averla vista piangere dopo aver ascoltato la musica, e asciugarsi le lacrime con la punta delle dita... Perché aveva sofferto? Perché aveva subito quei tormenti? In quell'epoca, attendeva un bambino. E aveva abortito. Perché?

Vassia si accostò al tavolo. Raccolse in un angolo tutti i tagli di stoffa di Grusa. Mise il calamaio sul tavolo, e cominciò una lettera.

«Nina Konstantinovna.

Io non vi conosco, e non so come siete. Vi ho visto solo una volta. Quella volta, ve lo dico francamente, non mi siete piaciuta. Ma quando vi siete messa a piangere, al momento di andarvene, dopo aver ascoltato l'orchestra, ho compreso con tutto il mio cuore la vostra infelicità. E ho avuto pietà di voi.

«Ho riletto la vostra lettera a Vladimir Ivanovic. Ve la rendo. Ho fatto male a prenderla, nascondendola a Vladimir. Ma la vostra lettera ha avuto l'effetto desiderato e non c'è motivo che siate adirata con me.

«Ho riflettuto molto sulla vostra lettera. L'ho appena riletta, e mi rendo conto che non sono né adirata, né offesa da essa. E mi rendo conto che avete subito per colpa mia dei grandi tormenti. A Vladimir, come a voi, io dirò: basta col giocare a rimpiattino, bisogna che voi vi sposiate con Vladimir Ivanovic, che vi sposiate ufficialmente. Siete più adatti l'uno all'altra. Io non sono la donna che va bene per lui. Abbiamo gusti diversi, seguiamo nella vita sentieri divergenti. Io non conosco i suoi pensieri. Egli non mi comprende. La nostra esistenza in comune è solo fonte di noie. Sarebbe lo stesso anche se voi non esisteste. Non è per causa vostra che ci siamo lasciati, Vladimir e io, non è perché voi me l'avete tolto. Voi avete potuto prendergli il cuore solo perché lui non provava amore per me. Come sono vissuta in passato senza Vladimir, così continuerò ad esistere. Mentre voi, invece, non potete vivere senza di lui. E' sempre così, quando si ama.

«Noi abbiamo vissuto, con Vladimir, in unione libera. Così non abbiamo bisogno di divorziare.

«Non ho niente da rimproverarvi. Se avessi saputo prima a che punto vi amavate, avrei agito così da molto tempo. Voi direte a Vladimir Ivanovic che non provo alcun odio per lui. Sono stata sua amica, tale resterò. d'altronde, se fosse necessario, sarei sempre pronta ad aiutarvi. Un tempo ho provato per voi un sentimento cattivo. Ma ecco che adesso ho tutto compreso: ho una grande pietà delle vostre lacrime, delle vostre sofferenze di donna, e di tutti i vostri tormenti. Io vi auguro come a una sorella di essere felice. Salutate Vladimir da parte mia, e ditegli che si prenda cura della sua giovane sposa. In ogni caso, vi mando il mio nuovo indirizzo. Se mi scriverete, vi risponderò certamente. Nina Konstantinovna, noi due, voi ed io, non siamo nemiche, benché ci siamo causate l’una all'altra dei dispiaceri. Ma non l'abbiamo fatto, tutte due, per cattiveria.

«Addio.

«Augurandovi una felicità completa,

Vassilissa Malyghina».

Scrisse con cura il suo indirizzo, e mise le due lettere nella busta, mise un po' di saliva e la incollò. Poi,all'improvviso, nella sua anima, e non nel suo spirito, ebbe la certezza che era finito. Dov'era il dolore? Non c'era dolore. Dov'era la vipera, che l'aveva torturata? Non c'era vipera. Dov'era quella nostalgia inebriante, che assorbiva tutto? Era ugualmente scomparsa.

C'era stato una volta Volodia l'americano. Volodia era finito. Egli era diventato Vladimir Ivanovic. Pensò a Vladimir, ma scorgeva Nina. Evocò Nina, e Vladimir si disegnò al fianco di lei. Per Vassia, a quanto sembrava, costituivano solo una persona, un essere inseparabile, indivisibile. Ma ciò non le faceva male.

L'ultima brace dell'amore-passione aveva finito per consumarsi. Eccola ridotta in cenere. La calma e la pace regnavano nel suo cuore, come in un frutteto dopo la tempesta.

Vassia stava davanti all'abbaino. Ammirava la violenza del tramonto tra le nubi di porpora dai bordi d'oro. I corvi volteggiavano, gracchiavano alla ricerca di un riparo.

L'aria era piena di sentori di foglie morte, di funghi, di terra autunnale. Profumo, ardore, fragranza conosciuta. Niente di comune con i profumi piccanti invitanti al languore che aveva respirato vicino a Vladimir.

Vassia respirava con avidità. Beveva l'aria.

«E' bello vivere».

Si sporse dalla finestra, il suo corpo era quasi fuori.

Nel cortiletto, Grusa staccava la biancheria asciutta.

«Grusa! Grusa! Vieni Ho delle novità, delle buone notizie».

«Ho sentito, arrivo».

Venne di corsa, buttò la biancheria sul letto.

«Che c'è di nuovo? Hai forse ricevuto una lettera?»

«Sì, si tratta di una lettera. Ma non l'ho ricevuta io. L'ho scritta. Indovina a chi».

«A Vladimir Ivanovic».

«Ti sbagli, non a lui, alla sua donna, Nina Konstantinovna».

«E perché?» domandò Grusa sbalordita.

«Vedi, Grusa, ho riletto la lettera di Nina e ho sentito compassione per lei. In fin dei conti, è per causa mia che ha sofferto. E' per colpa mia che ha perduto il suo bambino... Ha raccolto la sua pazienza per sopportare tante pene e sofferenze. E tutto questo per colpa mia. Ma noi non siamo rivali, nemiche. Se mi avesse portato via Vladimir per calcolo, e non per amore, non l'avrei perdonata. Le avrei conservato rancore. Ma adesso, ho capito tutto, e non vedo perché dovrei volergliene. Lei ama Vladimir, l'ama con passione. L'ama più di me. E' nel suo diritto... Senza Vladimir, la vita non rappresenta niente per lei. E' proprio quello che lei scrive: "senza di te perirò". Mi sono domandata se io avevo veramente bisogno di Vladimir. A forza di pensarci e di ripensarci, Grusa, ho compreso chiaramente che la mia nostalgia non era per lui che la provavo. Ah, se fosse ritornato Volodia l'americano, sarebbe stata tutt'altra cosa... Io avevo nostalgia del vecchio Volodia, Grusa. Ma non esiste più, l'americano, e lui non può più esserlo. Allora perché torturare Nina? Perché mettermi contro la sua felicità... Io non monto la guardia al direttore. Come se io avessi bisogno di un "direttore"!»

«Che te ne faresti tu di un "direttore"!» Grusa era d’accordo con Vassia. «Il guaio è che c'è un gran numero dei nostri che ci hanno lasciato per diventare "direttori"Ma tu, Vassilissa, non curartene! Ne restano ancora abbastanza di ragazzi nostri. Guarda i senza partito, troverai tra di loro più comunisti, di quelli veri, proletari».

«Hai ragione. Sono sempre più numerosi, di giorno in giorno. Quanto agli altri, è parecchio che hanno barattato la loro condizione di proletari per qualche lampada rubata per qualche coperta felpata. Non ci si potrà mai intendere con quelli... Allora, ecco perché ho pensato, Grusa: perché devo tormentare questa Nina? Per tenermi Vladimir. Attualmente, in queste condizioni, lui non è più un marito, né uno scapolo. Non m'interessa. Bisogna farla finita, senza rancore... Basta con i tormenti. Lasciando Vladimir, io me l'immaginavo in un altro modo. Aspettavo non so che, avevo non so che speranza. Mi dicevo: se Vladimir mi lascia per un'altra, ne morrò di tristezza. Sono arrivata qui, ebbra di dolore. Non ho visto niente, lungo il viaggio... Ma appena arrivata al comitato di partito, appena mi sono rimessa al lavoro, appena sono stata circondata dalle preoccupazioni e dalle pene degli altri, la nostalgia è scomparsa come se non ci fosse mai stata... Non so se mi crederai, te lo dico in tutta franchezza, dal fondo del cuore: non provo né dolore né gelosia. La calma, la tranquillità regnano nel mio cuore».

«Gloria alla madre di Dio». Grusa si segnò in tutta fretta, gettando uno sguardo alla piccola icona appesa in un angolo della stanza. «Non per nulla ho pregato la santa madonna in ginocchio, tutte queste notti, Vassilissa. La invocavo perché aiutasse il cuore di una donna... Per la salvezza di Vassilissa».

Vassia sorrideva.

«Tu sei davvero sempre la stessa Grusa, l'incorreggibile Grusa. Tu ci credi ancora, nelle tue bigotterie. Per il resto, hai ragione. Eccomi guarita. Ho vissuto ebbra a lungo, non avevo più coscienza di me stessa, non vedevo più la vita. Avevo dimenticato che esistesse il partito... Ma adesso, eccomi di nuovo in piedi. Questa nuova situazione mi affascina. Tutto mi sembra nuovo. Ciò che è stato ieri sarà anche domani. Non c'è più Vladimir, ma c'è il partito... Questo mi fa ricordare il periodo dopo il tifo, quando ho cominciato a riprender gusto per la vita».

« Purché non ti riprenda la malattia quando il tuo buon marito ti scriverà lettere di pentimento...»

«No, Grusa, questo non può succedere». Vassilissa, perduta in un pensiero scosse la testa. «Sono stata sconvolta fino al fondo del cuore. Ma è scomparsa tutta la mia gelosia verso Nina. Resta solo la compassione. Ci siamo agitati tutti e tre in un circolo vizioso in cerca di una via d'uscita. Eravamo pieni di odio. Sicuramente, non poteva esserci via d'uscita finché non fosse scomparso l'odio. Ma quando ho lasciato che Nina mi entrasse nel cuore, sono uscita fuori da questo cerchio infernale. Non è che le abbia perdonato, perché alla fine non c'era niente da perdonare. Ma ho provato pietà per lei, come per una sorella, pensando alle nostre sofferenze di donne. Come tutte noi, lei aveva davvero sofferto, quanto me... Non era per colpa sua, ma la vita da noi era ancora talmente in disordine! Appena ho avuto pietà di lei, subito mi sono sentita più a mio agio. Finiti i tormenti, la nostalgia e la sofferenza».

«Ma certo, è vero. L'amore va sempre insieme ai tormenti. Appena hai dato un po' di gioia a qualcuno, sempre sopravviene il dolore, che si profila come un'om­bra dietro l'amore. Le sofferenze se ne vanno appena non ce più amore».

«E' falso, Grusa, tu interpreti male» rispose Vassilissa, sempre scuotendo la testa. «Io non ho mai cessato di amare Vladimir. Egli è sempre nel mio cuore. Ma questo amore è diventato del tutto diverso. L'odio che io prova­vo per lui è scomparso... C'è ora soltanto la gratitudine per l'amore passato, per il nostro amore di una volta. Perché dovrei odiare Vladimir? Finché mi ha amato, eravamo felici. Lui ha cessato di amarmi, di chi la colpa? Io gli sono riconoscente per il passato. Vladimir è diven­tato mio fratello, e Nina mia sorella. Quando io penso a loro, non solo non c'è furore né gelosia, ma il mio cuore si sente riconfortato. Non mi credi, Grusa? Parola d'ono­re! Siamo stati felici, insieme; ora è il loro turno. A ciascuno il suo, se non c'è né odio né menzogna».

«Sì, per le menzogne tu dici il vero. Ma quanto a veder Nina come una sorella, io non lo capisco. Tu sei troppo complicata. Io mi domando perché. Vassilissa, attenzione, non esagerare in un senso complicato, non essere comu­nista all'eccesso. E' evidentemente meglio che tu abbia perdonato Vladimir e Nina. Perdona e dimentica. Non conservar niente nel tuo cuore, né nella tua memoria... Ma quanto ad amarli, non ne vale la pena. E' meglio che tu riservi tutto il tuo amore e" tutto il tuo cuore per la massa operaia. Adesso sono davvero incastrati, quelli. Non hanno più fede in se stessi. La scienza del partito non gli basta più. Vogliono che gli si dia il calore della speranza... Ho un bell'essere una senza partito, niente mi sfugge. Tu lo vedi, Vassilissa, basta che tu mi interroghi e : ti dirò la verità. Il comunismo, io lo capisco bene quanto te».

Grusa, tu sei dei nostri. Tutti noi lo sappiamo. Ma come puoi ancora credere nelle tue immagini? Non ti arrabbiare! Non corrugare la fronte! Non ne parliamo più. Non voglio addolorarti e continuare a parlare così. Niente questioni tra noi. Vedi, Grusa, oggi ho il cuore in festa, mi sento illuminata, libera, leggera... E immagina un po' chi mi ha potuto guarire? Parla, su, indovina».

«Non lo so».

«I Fedossiev».

«Non è possibile. Che siano benedetti, allora. La signora Fedossiev si vedrà perdonati tutti i suoi peccati e le sue cattive azioni».

Questo le fece ridere.

«Ma Grusa, non ti ho ancora annunciato la grande notizia. Sono andata dalla dottoressa. Sono incinta. Ho solo da attendere».

«Incinta?» Grusa alzò le braccia al cielo. «Come hai potuto farlo? E tu hai lasciato fare tuo marito... Permetterai che il tuo bambino resti senza padre, oppure seguirai la moda e abortirai?»

«Perché abortire? Voglio che il bambino cresca. Quanto a mio marito, lo sai... E' solo un'etichetta per loro essere "padre"... La moglie di Fedossiev ha avuto tre bambini, e lui è andato a vivere con Dora».

«Sì, ma come farai per allevare un bambino, da sola?»

«Perché da sola? E' l'organizzazione che lo farà crescere. Noi faremo un nido d'infanzia. Ci ho già pensato. Ti assumiamo per lavorarci, tu ami i bambini. Così il bambino sarà di noi tutte. Un bambino comunista».

«Un bambino comunista?»

«Appunto».

Questo le divertì entrambe.

«Allora, Grusa, al lavoro. Bisogna imballare tutto alla svelta, e prendere il treno domattina presto. Domani, parto per andare a lavorare. Organizzerò tutto come intendo io, a modo mio. Ho la benedizione di Alexievic. Di nuovo al lavoro... Te l'immagini, Grusa. E' la gioia, Grusa, è la gioia».

Afferrò Grusa per le braccia e si misero a volteggiare attraverso la camera come bambine. Per poco non rovesciarono il manichino e scoppiarono in una risata che risuonò fino nel cortile.

Bisogna vivere Grusa. Vivere.

Vivere e lavorare.

Vivere e lottare.

Vivere e amare la vita

come le api nei cespugli di lillà!

come gli uccelli in fondo al giardino

come le cavallette nell'erba!





 






Ultima modifica 25.05.2010