Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Dario Romeo, settembre 2001
Capitolo
terzo
LA DECOLONIZZAZIONE, 1950-1958
Nota introduttiva
Cronologia
Egitto: siamo all'inizio del cambio della guardia imperialistica
Iran: Mossadeq porta al cambio dei petrolieri
Il capitalismo in Africa
Kenya: l'avanguardia del movimento anticolonialista
Argentina: lezione dalla crisi del peronismo
Nel triplice nodo di Suez convergono le contraddizioni dell'imperialismo
unitario
Ghana: un falso socialismo
Iran: il posto dell'ENI sulla scia degli imperialismi più forti
Egitto: Nasser è diventato adulto
Venezuela: i condizionamenti del petrolio favoriscono l'imperialismo più forte
Argentina: antimperialismo contro gli USA che non esclude l'investimento di
capitali stranieri
Medio Oriente: la penetrazione statunitense
Africa Nera: punto d'incontro tra lotta anticolonialista e lotta
proletaria
Nel primo articolo del 1950 che apre questa serie di cronache e di analisi più approfondite relative al fenomeno della decolonizzazione, vengono già enunciati alcuni concetti che collegano il rapporto stabilito dall'imperialismo con la diffusione del modo di produzione capitalistico negli Stati e nelle nazioni in formazione. Quanto viene analizzato dimostra, cioè, che l'imperialismo non è una classificazione astratta, ma il prodotto di un sistema sociale e di un modo di produzione che, attraverso una conflittualità armata permanente, lega tutti gli Stati ad una sola catena fatta di sfruttamento e di sopraffazione.
Nel 1950 si partiva dalla registrazione dei fatti più salienti per essere in grado di conoscere gli elementi che tengono unita la catena. Il materiale qui raccolto occupa soltanto un decennio di questi fatti e, tuttavia, la cronologia che lo precede non ha potuto esaurire l'elenco degli Stati citati nel testo, in quanto i conflitti che hanno caratterizzato l'affermazione di un rapporto "neocolonialistico" richiederebbe un volume di note. Quanto viene ricordato è però sufficiente a puntualizzare una concatenazione di fatti che ha portato certamente all'allargamento del mercato mondiale e all'espansione dell'imperialismo, ma anche alla determinazione di nuovi insanabili contrasti che, dopo vent'anni, si sono manifestati con l'aumento della rendita insita nel prezzo delle materie prime.
(Lorenzo Parodi)
Egitto:
siamo all'inizio del cambio
della guardia imperialistica
La lotta che l'imperialismo, nelle sue molteplici manifestazioni, sta conducendo nel mondo è una lotta estremamente diffusa e si ripercuote, seppure con minore intensità, in tutti i piccoli Stati, in tutte le comunità nazionali. Appunto questo riflettersi di un fenomeno generale in svariati fenomeni particolari costituisce la prova che l'imperialismo non è una classificazione teorica astratta, un ritrovato della polemica politica, ma è una reale e storica espressione di un sistema sociale di tipo capitalista, e risiede ovunque esistano contraddizioni sociali, classi dominanti e classi subalterne. Perciò quando denunciamo l'imperialismo come il peggiore nemico dei popoli, quando lo poniamo come il maggior ostacolo, posto sulla via rivoluzionaria, da abbattere, quando lo indichiamo alle masse come un inganno da cui bisogna non lasciarsi prendere, non denunciamo solo le centrali imperialiste, ma tutta la catena dell'imperialismo i cui anelli, indissolubilmente legati, sono tutti gli Stati borghesi, democratico popolari o pseudosocialisti.
Seguirne lo sviluppo interno, analizzarne il corso, annotare cronistoricamente i fatti più salienti ed importanti equivale a conoscere gli elementi che tengono unita la catena, il loro grado di omogeneità ed i loro insanabili contrasti.
Le recenti cronache dell'Egitto ce ne offrono l'occasione.
All'apertura della seduta inaugurale del Parlamento egiziano, il Primo Ministro Musata el Nahas Pascià ha dato lettura - presente re Faruk - del discorso della corona, nel quale si chiede la totale ed immediata evacuazione delle truppe britanniche dall'Egitto e l'annessione del Sudan alla corona egiziana. Nahas Pascià ha dichiarato che il suo governo ritiene superato il trattato anglo-egiziano come base idonea per le relazioni dei due paesi, e pertanto "si è reso inevitabile deciderne l'abrogazione e stabilire nuove clausole basate su altri principi che possano incontrare la nostra approvazione, e in particolare prevedano la totale ed immediata evacuazione delle forze britanniche e l'unificazione dell'Egitto e del Sudan sotto la corona egiziana."
Tale discorso, per le affermazioni perentorie che contiene, è di estrema importanza, soprattutto perché solleva un problema non lieve per la politica coloniale inglese, ed in secondo luogo perché nasconde a malapena una ben autorevole ispirazione.
Il discorso del Primo Ministro egiziano non segna che l'inizio di una vasta manovra e nel contempo è un sintomo acuto dei contrasti interni entro il mondo dei gruppi imperialistici occidentali. In linguaggio diplomatico appare come una sfida del "piccolo" Egitto alla "grande" Inghilterra. Ma in realtà ben altro significa.
A questa specie di sfida, il governo inglese risponde prontamente per bocca di Attlee ai Comuni. Il "leader" laburista, difendendo l'eredità coloniale inglese, ribatte che la Gran Bretagna non ritirerà le sue truppe dall'Egitto nonostante le richieste egiziane. Al rifiuto inglese fanno seguito violente manifestazioni nazionaliste: al Cairo e nelle altre principali città egiziane cortei di studenti manifestano davanti ai consolati inglesi. Il governo di Nahas Pascià assume atteggiamenti sempre più intransigenti, fomenta con discorsi incendiari le rimostranze nazionaliste, proclama in alcuni centri lo stato di emergenza, ingigantisce la questione.
La posizione egiziana influenza direttamente tutto il Medio Oriente. Il Segretario della Lega Araba, Azzam Pascià dichiara a Washington che "vi sarà spargimento di sangue se le truppe inglesi non se ne andranno." Vi sono tutti i sintomi per la maturazione di gravi incidenti.
Ma cosa vuol dire tutto ciò? Cosa si trama nella faccenda egiziana?
Per capire un atto politico internazionale di un paese, è necessario inquadrare questo atto in tutta la storia politico-economica che quel paese ha svolto e subito. La storia dell'Egitto è legata a tutta la politica coloniale inglese: infatti l'occupazione britannica data dal 1882, anno in cui l'Egitto venne occupato provvisoriamente. Da allora la terra egiziana divenne una vasta piantagione di cotone ed alimentò la sete di affari del commercio inglese.
Questa fertile colonia rappresentò per molto tempo la base dell'egemonia inglese nel Mediterraneo: il canale di Suez, assieme a Gibilterra, diventava, grazie all'occupazione del paese, uno dei più formidabili posti di blocco determinante praticamente tutto lo sviluppo economico dell'Europa. Analogamente allo sfruttamento internazionale del popolo egiziano, si verificava uno sfruttamento interno esercitato da una minoranza privilegiata di grossi capitalisti e di grandi proprietari terrieri, eredi naturali delle caste feudali così tenacemente abbarbicate alla memoria di una storia universalmente nota.
Frattanto, anche l'Egitto veniva compiendo la sua evoluzione storica verso un sistema capitalista e verso uno Stato borghese. L'era imperialista veniva, nel suo dinamismo conquistatore, ad elevare le ultime zone feudali e a immetterle nel mondo economico moderno.
Le piramidi dei Faraoni, i sarcofagi con i loro geroglifici indecifrabili, la Sfinge eterna e misteriosa, il sacro Nilo ormai non erano più che passatempi e curiosità per i turisti. Dietro le loro ombre, a fianco della loro imponenza, davanti alla loro classica presenza era sorto un mondo nuovo, nuovi predoni più spigliati, più pratici, nuovi schiavi che assomigliavano stranamente a quelli che una storia-leggenda ci descrive in file interminabili costeggianti il Nilo. Era scomparso il dio Sole per lasciare il posto ad un dio cattivo come il primo, avido di sacrifici, di sangue, di sfruttamento.
Nello stesso tempo si sviluppavano città importanti, centri industriali e commerciali; nasceva una vita culturale con le sue scuole e le sue università frequentate dalla gioventù borghese. Proprio da questi centri partiva il movimento nazionale che doveva far cessare l'occupazione provvisoria (1882-1914) e, successivamente, il protettorato britannico (1914-1922). I giovani borghesi, espressione di una rinascita indipendentista, per ottenere questi risultati dovettero combattere per le strade ed essere soggetti alla persecuzione. Lentamente il movimento nazionale estendeva le sue manifestazioni e le sue azioni sfruttando l'appoggio della classe operaia, formatasi durante i quarant'anni della dominazione inglese. Prima del Trattato del 1936, in base al quale veniva evacuato da parte inglese tutto il territorio tranne il canale di Suez, con riserva però di controllo e di supremazia, si ebbero scioperi e moti nel 1924, nel 1929, nel 1935.
Ma ormai il movimento nazionale aveva esaurita la sua funzione in vista dell'indipendenza reale del paese: la borghesia egiziana, come tutte le borghesie, si era incorporata nel capitalismo internazionale ed anche se assumeva atteggiamenti d'indipendenza era parte integrante del sistema, elemento controrivoluzionario dell'imperialismo.
Si affacciava ai confini del Medio Oriente una potenza ascendente della catena imperialista: il "trust" americano. Cominciava l'infiltrazione delle compagnie americane, si intesseva la rete degli interessi statunitensi, si "americanizzava" l'Egitto. L'Inghilterra venne a trovarsi di fronte ad un concorrente fortissimo.
La seconda guerra mondiale accelerò i tempi, mutando i rapporti di forza. Nel gennaio del 1946 il Presidente del Consiglio Nokrasci Pascià fa pressioni diplomatiche per annullare il trattato del 1936. L'Inghilterra risponde picche. Un corteo di studenti al Cairo viene fermato dalla polizia che ne uccide parecchi. Si arriva allo sciopero generale del 21 febbraio 1946 che vede diecine di morti, mitragliati dalle truppe inglesi. La reazione riesce a comprimere il moto che veniva sempre più condotto dalle masse popolari. La borghesia egiziana suggella con un regime dispotico ed antioperaio il proprio atto di asservimento ai dirigenti stranieri e stabilisce la propria dittatura di classe grazie anche all'inesperienza politica delle masse lavoratrici e alla mancanza di un movimento rivoluzionario.
Il fallimento delle agitazioni del febbraio 1946 apre la via ad una politica sciovinista che si conclude con le elezioni del 1950, in cui risulta la vittoria del Partito Wafdista con Nahas Pascià, attuale Presidente.
Si può dire, quindi, che gli Stati Uniti possono finalmente contare su di una forza politica abbastanza obbediente. Il gioco è fatto, la vecchia Inghilterra è battuta sul proprio terreno.
Le velleità del governo egiziano sono i primi schiaffi che la mano del piccolo Egitto dà all'Inghilterra; una mano sorretta e spinta, però, dagli Stati Uniti. Una mano che ha schiacciato prima le masse lavoratrici, che ha deviato il corso della effettiva liberazione egiziana, che ha raccolto i soldi del tradimento.
Perché anche la storia dell'Egitto ci insegna, come in tutto il mondo, che l'emancipazione dei lavoratori non può essere che il risultato della loro lotta rivoluzionaria costante, dura, tenace.
(" Il Libertario ", 5 dicembre 1950)
Iran: Mossadeq porta al cambio dei petrolieri
Sta rimettendosi di nuovo in moto la macchina pubblicitaria per richiamare l'attenzione, nel senso voluto dagli interessati, sull'insoluto problema del petrolio persiano. Dopo il quasi totale silenzio della stampa in queste ultime settimane - silenzio che non ha impedito la continuazione dell'azione sotterranea - i governi degli USA e della Gran Bretagna hanno sottoposto all'attenzione del governo di Teheran una nuova offerta ("un forte ammonimento") consistente nell'affidare ad un consorzio petrolifero americano l'incarico di curare la vendita del petrolio oltre che la sua estrazione ed il raffinamento. Sfrondata da tutti gli arzigogoli propagandistici quali il pericolo comunista, la catastrofica situazione economica persiana che si vuol risollevare, i diritti britannici, ecc., questo è il tono ed il contenuto della proposta: un ricatto ad una nazione in crisi, una velata minaccia di più drastiche misure.
Da notare come insista la nuova proposta sul "poco interesse che rappresenta l'affare per inglesi ed americani data l'aumentata produzione in altre località" per sviare dal centro del problema l'attenzione dei popoli. "Gli inglesi e gli americani vogliono aiutare disinteressatamente la Persia, gli inglesi e gli americani sono veramente democratici": in verità la strategia del petrolio è molto più complessa di queste rimasticature propagandistiche di un umanesimo, di un liberalesimo smentito dai fatti.
Ed i fatti valgono più di queste falsità propagandistiche.
Basti pensare alla spaventosa diminuzione delle riserve americane di petrolio (4 miliardi di tonnellate bastanti al massimo per 10-12 anni) che debbono essere conservate per situazioni di "emergenza", alla costante diminuzione della produzione americana (in 12 anni scesa dal 60% al 40% del totale mondiale) ed agli alti prezzi del suo petrolio nei confronti di quello iraniano (un pozzo USA produce 11 barili, un pozzo iraniano 45.000 al giorno). Se ciò non bastasse a smentire questo "disinteresse" stanno gli enormi profitti che l'Anglo-lranian Oil Company e il governo britannico in tasse traevano dal petrolio persiano: paghe di 200 lire al giorno agli operai, interessi al governo persiano pagati in misura inferiore al dovuto (su una produzione di 57 milioni di tonnellate ne denunciò solo 33) e l'aumento del capitale della AIOC da 4 a 200 milioni di sterline dal 1914 ad oggi. E poi ancora il fatto che solo un terzo della produzione (1.600.000 barili) delle sette più grandi compagnie petrolifere a capitale prevalentemente anglo-americano si svolge negli USA che impone di conservare a tutti i costi i pozzi dei paesi soggetti, Iran compreso.
Questa nota comune anglo-americana rende ufficiale la prevista divisione di interessi, oltre che fra le grandi compagnie, fra i due Stati e dimostra ancora una volta quanta verità vi sia nella formula "Stato cane da guardia della borghesia."
Le grandi compagnie USA che si offrono per vendere il petrolio persiano sanno di difendere, cogli interessi della Anglo-lranian, i loro stessi interessi, gli interessi generali delle 7 grandi compagnie (Standard, Shell, AIOC, Gulf Oil, Standard California, Socony, Vacuum) che formano uno "Stato" internazionale, una rete di interessi complessa che unisce l'una all'altra le compagnie: l'AIOC e la Gulf Oil controllano assieme la Kuwait Oil; la Socony e l'AIOC controllano il petrolio irakeno (Iraq Petroleum); la Standard (NJ), la Standard (California), la Texas Company e la Socony controllano la Arabian American Oil, ecc. Questo per dare alcuni esempi che valgono certo più del "disinteresse" anglo-americano.
Questa piovra dai mille tentacoli che domina quasi la totalità della produzione petrolifera mondiale, delle raffinerie, degli oleodotti, delle navi cisterna, ecc. cerca di presentarsi oggi in Persia sotto l'aspetto paternalistico della democrazia. Ieri col sigillo inglese, oggi con quello americano che non lede in nulla gli interessi degli azionisti (inglesi o americani o magari cinesi) dell'AIOC.
È probabile che al coperto di questa mascheratura Mossadeq accetti le nuove proposte per togliersi dal pericoloso metodo di utilizzare, per difendere gli interessi della borghesia, il proletariato; dubitiamo però che gli operai di Abadan ed i milioni di contadini affamati si accontentano, dopo aver lottato ed aver versato il loro sangue, di un semplice cambiamento di bandiera.
(" L'Impulso ", 15 gennaio 1953)
È il secolo dell'Africa, si dice, ed è vero perché di questo immenso continente il capitalismo mondiale e in particolare quello USA sta preparando la conquista. Trenta milioni di chilometri quadrati divisi in zone, protettorati e colonie sono oggi al centro dell'interesse degli esperti economici del capitalismo, mentre 198 milioni di abitanti si preparano ad entrare nel nuovo ciclo trasformativo senza nessuna tradizione storica della lotta di classe.
Alcuni dati possono dare la misura del fenomeno: 1) le immense trasformazioni di bonifica della Nigeria (877.000 chilometri quadrati; 24 milioni di abitanti; con 6.260.000 di popolazione agricola) che fa parte del Regno Unito per utilizzare industrialmente nel comprensorio del Niger le sue acque, sia per la produzione elettrica sia per irrigazione di vastissimi terreni coltivati a cotone e arachidi (2 milioni 558.000 quintali nel 1945, aziende industriali per produzione di oli vegetali); 2) l'industrializzazione dell'Africa del Nord iniziata dagli americani con strade, stazioni radio, depositi, officine di montaggio, aeroporti, ecc.; 3) lo sviluppo sempre più crescente del Sud Africa sia per l'industria che per l'agricoltura intensiva (26 milioni di quintali di granoturco nel 1949) come per il suo patrimonio zootecnico che gli permette una crescente industria delle carni (1947: equini 1.586.000, bovini 12 milioni 470.000, suini 1.118.000, ovini 32 milioni 612.000; produzione di carne 1949: 4.050.000 quintali); 4) le industrie e basi aeronautiche nella zona di Mogadiscio iniziate dagli inglesi in questi ultimi anni, le industrie del legname e della distillazione delle arachidi nella Costa d'Oro, Niassa, Rhodesia del Nord, Rhodesia del Sud, come pure rame, stagno, piombo, zinco, oro nelle stesse regioni; 5) la produzione di ortaggi, vini, olio in Algeria e Tunisia, che sono una caratteristica dello sviluppo capitalistico nell'agricoltura, il centro di raccolta di rottame di ferro della Tunisia, la produzione di carbone fossile del Sud Africa (25 milioni di tonnellate nel 1949); l'Etiopia che allarga il suo commercio estero (anno 1949: importazione, 91 milioni di dollari etiopici; esportazione, 74 milioni); 6) le officine di montaggio Ford di Massaua e una sempre più vasta rete di strade.
Obiettivi di ordine strategico militare ed espansione capitalistica sono le direttive di marcia per la conquista del continente africano; l'Africa del folclore, del turista e della caccia grossa sta scomparendo, il ciclo del colonialismo schiavista si avvia alla fine ed ha inizio la fase più moderna della penetrazione capitalistica.
In questo quadro vanno inseriti i due avvenimenti più importanti nel "continente nero": il colpo di Stato militare dell'Egitto e la rivolta nel Kenya.
Il movimento di ribellione delle popolazioni indigene del Kenya (protettorato inglese, 583.000 kmq; 5.454.000 abitanti; densità per kmq 9,4 abitanti; un patrimonio zootecnico di 4.785.000 bovini; 3.243.000 di ovini) contro i colonialisti inglesi rappresenta uno dei tanti episodi di rivolta contro un metodo di dominio condannato da un tipo nuovo di regime: quello del capitale industriale, che imporrà alle masse popolari indigene nuove forme di lotta di classe più drammatiche, più sanguinose ma tali da far acquistare a queste masse una cognizione più esatta del loro compito.
Nell'Egitto si è trattato di capovolgere la situazione per quanto si riferiva al vecchio metodo coloniale inglese; fare un repulisti interno allontanando la Corte, eliminando le cricche che intorno ad essa vivevano in un ambiente di corruzione.
Questo primo atto non poteva dare serie garanzie al capitalismo americano; vi erano le masse popolari egiziane, vi era l'ordine interno soprattutto da mantenere, vi era la fame e la miseria del proletariato agricolo da calmare.
Ecco dunque il governo militare che proclama la riforma agraria, assume pieni poteri e schiaccia il moto degli operai tessili che protestano per un migliore trattamento.
L'Egitto è un paese a struttura semifeudale con alcune caratteristiche
capitalistiche (1 milione di chilometri quadrati di superficie con 20 milioni di abitanti prevalentemente dediti all'agricoltura; la coltura del cotone, una delle maggiori fonti di ricchezza; 14 milioni di quintali di granoturco; 12 milioni di quintali di olio; 56.000 quintali di lino e un discreto patrimonio zootecnico). Ha una marina mercantile di 55 navi per un tonnellaggio di 102 mila tonnellate; il suo commercio estero dà per l'esportazione (anno 1949) 138 milioni di sterline e per l'importazione 167 milioni. Per il transito dal canale di Suez l'Egitto percepisce poco o nulla essendo il pacchetto azionario in possesso della Compagnia franco-inglese.
Pur non avendo ancora precise notizie sulla riforma agraria proclamata dal nuovo governo egiziano, si può comunque dire che essa si avvicina ad un tipo di nazionalizzazione della terra.
L'espropriazione viene fatta dallo Stato che indennizza gli agrari in un periodo trentennale, la distribuisce in forme particellari a coloni, contadini e coltivatori.
In generale l'agricoltura egiziana è tipicamente primitiva e schiavista, i grossi agrari percepiscono quasi tutta la rendita fondiaria non rinnovando il metodo produttivo in base alla tecnica moderna. Data la mancanza di una immissione capitalista nelle campagne e nel latifondo, l'agricoltura egiziana è in una fase precapitalistica salvo che per la coltura del cotone la quale, per la produzione e per l'impiego di manodopera salariata, rappresenta l'unica branca capitalistica di questo paese.
La nazionalizzazione non è altro che una forma di sviluppo capitalistico e nel caso dell'Egitto si concepisce ciò proprio perché attraverso la penetrazione del capitalismo USA si sta formando anche una nuova classe dirigente. Con la nazionalizzazione i contadini, i coloni, i salariati entreranno nel gioco dello sviluppo capitalistico, nella crescente concentrazione del capitale nelle campagne che produrrà in forma più distinta gli aspetti della lotta di classe.
La lotta delle masse lavoratrici egiziane, caratterizzata da una posizione di "spontaneità", si appresta a dare il suo tributo alla lotta del proletariato mondiale. Oggi le masse lavoratrici egiziane mancano di organismi di lotta, sono prive di un movimento organizzato su basi rivoluzionarie, subiranno delle severe sconfitte, ma la loro spontaneità si trasformerà in coscienza di classe più rapidamente di quanto non si creda, e altrettanto rapidamente sorgerà un movimento di classe rivoluzionario.
(" L'Impulso ", 15 gennaio 1953)
I teorici del PCI sono davvero infaticabili. La nuova "stella" dei businessman, nonché vicepresidente degli USA mister Nixon, non aveva ancora alzato i tacchi da Accra e già i nipotini di Salgari con il mappamondo alla mano puntavano il dito e gridavano giulivi: "nel Ghana si tenterà una via al socialismo."
Proprio non si sa a chi dare il primato in questa "competizione pacifica" delle balle. A Nixon che si è precipitato a fare un bel giochetto di prestigiatore con un bel mazzo di dollari "democratici" davanti a quattro milioni di negri analfabeti e corrosi da una fame millenaria, oppure ai redattori de "l'Unità" che il giochetto, invece che con i dollari, lo fanno con le parole e che in quanto a socialismo certamente non sono meno ignoranti dei neri del Ghana.
Si potrà dire che ognuno fa il suo mestiere. Nixon deve procurare affari ai suoi padroni e piazza "democrazia", i giornalisti de "l'Unità" debbono dimostrare che tutto il mondo marcia verso il socialismo e quindi piazzano il "socialismo" anche in Africa.
Poco importa, poi, se la realtà è diversa, se il Ghana è un nuovo Stato africano che, sull'onda del movimento anticolonialista, ha acquistato l'indipendenza giuridica, ma non quella economica. Poco importa se il Ghana ha bisogno di capitali stranieri per conseguire un minimo di sviluppo economico. Poco importa se questa inderogabile necessità farà sempre "dipendere" l'indipendente Ghana dalla borsa straniera che molla i quattrini. I nostri imbonitori, a queste cose neppure ci pensano. Loro guardano il marchio di fabbrica. Se la borsa è quella dei dollari grideranno che il Ghana è "democratico", se invece è quella più striminzita dei rubli si sfateranno a proclamare che il Ghana è "socialista." Quando la borsa è dei dollari e il Primo Ministro Kwame Nkrumah ha velleità pianificatrici abbiamo l'ultima trovata dei ciarlatani: gli uni metteranno in guardia il "mondo libero" dalla silenziosissima penetrazione (di borse di fumo...) sovietica nella giungla africana, gli altri partiranno ad esplorare la nuovissima "via al socialismo."
Li illumineranno, strada facendo, le feconde parole di Nkrumah apparse ne "l'Unità" del 27 marzo: "Tanto per fare un esempio, il nuovo grande Hotel Ambassador, nel quale accogliamo i nostri ospiti di riguardo, sarebbe stato costruito, in qualsiasi altro paese capitalistico, da capitalisti privati. Qui da noi è stato il governo a prendere l'iniziativa." Chissà se poi, alloggiati come ospiti di riguardo nel "socialista" Hotel Ambassador e con l'ausilio di qualche funzionario della "Fruit Company", loro vicino di stanza, venuto per arraffare l'unica esportazione del paese, cioè il cacao, non siano così in gamba da spiegarci il "nucleo originale" del contributo marxista del nuovo leader africano?
"In queste particolari condizioni noi dobbiamo sviluppare la nostra via al socialismo. Abbiamo preso il comunismo e lo abbiamo adattato alle nostre condizioni, come hanno fatto i cinesi, adattandolo alle loro. Se non facessimo ciò, non daremmo alcun contributo al marxismo." Intanto mastichiamo cioccolato USA di puro cacao.
(" Azione Comunista " n. 14, 15 aprile 1957)
Egitto: Nasser è diventato adulto
Ai tempi della nazionalizzazione del canale di Suez, e poi del brigantesco attacco anglo-francese, non siamo stati tra quelli che per definire fascista il regime di Nasser finirono col non vedere che il peggiore fascismo era proprio nell'azione imperialista. Dicemmo allora che la ribellione nazionalista egiziana rappresentava, pur nel suo aspetto fascistico all'interno, un colpo per le posizioni dell'imperialismo e, come tale, andava appoggiata tenendo pero sempre presente che la lotta d'indipendenza politica dei paesi coloniali non significava indipendenza economica e che perciò in tale lotta si incuneava inevitabilmente l'espansione economica americana.
Per le stesse ragioni non fummo tra quelli che osannavano a Nasser, scorgendo in esso una specie di "socialista" filosovietico, e che gioivano all'arrivo di armi cecoslovacche nei porti egiziani. L'appoggio alla lotta coloniale si esaurisce in sé e diventa pura e semplice collaborazione se non è legato strategicamente alla lotta rivoluzionaria del proletariato dei paesi metropolitani: questa lotta da anni manca, invece, nelle cittadelle colonialiste.
Dopo la guerra di Suez e la sconfitta anglo-francese determinata dall'intervento massiccio statunitense, l'Egitto è entrato sempre più nell'orbita imperialistica americana. Il colpo di Giordania ha rinsaldato ancor più questi vincoli. Nasser ha bisogno di capitali per poter sviluppare la propria economia capitalistica, e non di parole. Ed i capitali glieli promette e glieli può solo dare l'America e non la Russia che ha gravi problemi economici da risolvere e che, di certo, non può disporre di una forte esportazione di capitale.
Inglesi e francesi, vistisi fregati dagli americani, hanno subito dimenticato il "fascista" Nasser ed hanno iniziato a pagare i pedaggi del canale per non rimetterci ulteriormente nei loro commerci. Anche Nasser si è avvicinato alla Gran Bretagna ed ora sono in corso importanti trattative economiche.
In pochi mesi gli interessi economici hanno fatto passare la spugna
sopra tante belle e brutte parole: gli scornati di sempre sono ancora quelli che pensano che il mondo imperialista sia retto dalle frasi della propaganda. Intanto anche nell'interno dell'Egitto tante cose sono state messe a posto. Qui gli scornati sono coloro che hanno sempre identificato gli interessi - e quindi i rapporti e le amicizie - della politica estera sovietica con gli interessi del socialismo. In questa immonda promiscuità la loro propaganda e la loro azione hanno sempre danneggiato l'avanzata del vero socialismo nel mondo. Regolarmente, poi, i fatti si sono sempre incaricati di smentire la loro demagogia.
Il 3 luglio cinque milioni di egiziani hanno eletto il nuovo Parlamento, cioè il primo Parlamento repubblicano. La cosa più interessante è che questo Parlamento è composto esclusivamente da 350 deputati che appartengono ad un unico partito nasseriano, la "Unione Nazionale." Non vi è, quindi, opposizione.
Un'altra curiosità è questa: su 2.500 candidati che dovevano ricevere l'approvazione delle autorità centrali per entrare nelle liste ne sono stati scartati ben 1.188, perché le loro idee politiche non collimavano con quelle del governo Nasser. Anche i candidati comunisti, che avevano appoggiato incondizionatamente Nasser da quando questi aveva iniziato a "filare" con la Russia, sono stati esclusi in blocco.
(" Azione Comunista " n. 20, 31 luglio 1957)
Medio Oriente: la penetrazione statunitense
Dopo la crisi di Suez, Giordania e Siria hanno messo in evidenza l'importanza politica-economica del Medio Oriente. In questo delicato settore del mercato mondiale imperialista si sta assistendo ad una rapida dinamica degli interessi economici e delle connaturali contraddizioni. Elemento determinante degli attuali sviluppi è senz'altro l'azione imperialistica degli Stati Uniti che si configura in una generica "dottrina Eisenhower" non ancora bene articolata. Essenziale è, però, lo studio della tendenza fondamentale di questa dottrina: vorremmo dire che, ai fini della comprensione della situazione mediorientale e dell'odierna situazione mondiale dell'imperialismo, lo studio della politica americana costituisce lo strumento principale d'interpretazione, essendo tanti altri aspetti (politica sovietica, nazionalismo arabo, formazione delle borghesie nazionali) importanti sì ma, per oggi, secondari.
Vi è molta letteratura statunitense che costituisce, grosso modo, la "teorizzazione" della politica americana nel Medio Oriente. Lo studio di tale letteratura pone in grado di conoscere le "idee" che guidano i "fatti" americani e, nello stesso tempo, permette di conoscere le forme nuove dell'espansione imperialistica, cioè il superamento del tradizionale colonialismo anglo-francese con nuove "tecniche" economiche-politiche e con nuove coperture ideologiche. Non si può prescindere da questa conoscenza nell'analizzare non solo il Medio Oriente ma pure tutta la zona afroasiatica.
In generale, però, tutta questa letteratura è altamente specializzata e, salvo poche eccezioni, non tradotta. Nell'impostare lo studio dell'imperialismo nel Medio Oriente terremo conto di alcune interessanti opere apparse in Francia e di qualche altra tradotta in Italia.
Un libro apparso in Italia nel 1953, presso le edizioni Leonardo da Vinci di Bari (William O. Douglas, "Fermenti in Medio Oriente"), può già servire a questa nostra rassegna. Si tratta di una serie di note di viaggio, alcune di "colore", altre propriamente politiche-economiche, dedicate a parecchi paesi mediorientali. Il Douglas è un alto e qualificato esponente della politica americana e quindi il suo giudizio ne riflette, anche se in parte, gli orientamenti, tanto più che il giudizio appartiene a quel settore più "illuminato" o, per meglio dire, a quel settore che chiede con più forza l'intervento nelle zone depresse, giustificandolo con un certo "anticolonialismo" e con una scaltra diffusione della "concezione di vita americana."
Sotto questo aspetto il libro è interessante per due motivi: a) per la documentazione che porta e per la denuncia che svolge delle condizioni di arretratezza feudale; b) per le soluzioni imperialistiche molto avanzate che propone, soluzioni che la "dottrina Eisenhower" non ha ancora fatte completamente sue e che, se venissero concretizzare, porterebbero ad una rapida e alquanto stabile espansione americana.
Al primo motivo appartengono, ad esempio, il giudizio sulla questione di Cipro, sulla Persia, sull'Azerbaigian, sulla Giordania, sull'India e su altri paesi. Lo citiamo solo in parte.
Cipro: le cause del malcontento popolare sono la concentrazione della proprietà terriera, la sovrapproduzione delle culture destinate all'esportazione e l'aspirazione all'unione con la Grecia. (A proposito della Grecia sono interessanti i dati sulla persecuzione antipartigiana e sull'apporto delle donne alla rivolta. Nel 1949 le donne rappresentavano il 35% dei guerriglieri greci: ciò era dovuto alla parità di diritti che i comunisti - rompendo una rigida tradizione di soggezione - avevano instaurato nei villaggi. Nel 1949 i tribunali militari reazionari processarono 43.419 uomini e 6.525 donne partigiane; di questi, ben 15.573 uomini e 2.144 donne furono condannati alla reclusione e 5.466 uomini e 513 donne condannati alla pena capitale. Alla fine dei 1949 erano state eseguite 2.618 condanne a morte di uomini e 162 di donne.)
Azerbaigian: nel 1946 il governo filosovietico di Pishevan fece la riforma agraria, annullata dalla Persia quando rioccupò la regione. Ecco un tipico esempio di come governi filosovietici possono essere rimpianti dalle masse contadine. Con la rioccupazione persiana queste masse furono ricacciate nella miseria e nella fame. Se nel 1950, scrive l'autore, vi fossero state libere elezioni Pishevan sarebbe stato eletto con il 90% dei voti. Eppure i comunisti erano meno di mille su tre milioni di abitanti.
Persia: nel 1943 si sviluppa nelle tribù dei Kurdi il movimento nazionalista "Kumela", che aveva ramificazioni anche in Turchia, ed i sovietici lo incoraggiarono contro l'Iran, l'Iraq e la Turchia. Nel 1946 i sovietici permisero la fondazione del Kurdistan, Repubblica autonoma il cui Presidente, Qazi Mohamed, venne impiccato dai persiani quando rioccuparono la regione mesi dopo. Qazi è rimasto un eroe dell'indipendenza curda. La sua riforma agraria fu accolta dalla popolazione che la rimpiange.
Giordania: vi sono proprietari terrieri che possiedono persino 1.500 villaggi in cui sono padroni anche degli abitanti, praticamente loro servi.
India: politica di terzo blocco. Nehru dichiara: "per noi la Cina è un paese asiatico mentre la Russia non lo è." In Politica interna vi è l'anticomunismo. Il Partito Socialista è il più attivo del paese. Il suo capo, Narajan, è un ex comunista diventato gandhiano. Il problema alimentare è gravissimo, acuito dalla superstizione religiosa che non permette l'uso dei bovini. Ciononostante Nehru è convinto che l'India sia sottopopolata. Anche in India è in corso una riforma agraria. Per il Douglas la questione agraria è al centro di tutti i problemi sociali e politici, contingenti e in sviluppo, del Medio Oriente e dell'Asia.
Da buon borghese americano comprende che solo impostando una vasta riforma agraria si creano basi solide e non artificiose per lo sviluppo dell'economia capitalistica e si eliminano tutti quegli strati sociali che lo impediscono con la loro parassitaria presenza. Nel Douglas è l'esperienza americana, la più avanzata e la più radicale della storia del capitalismo, che si riflette e non quella europea. Da qui tutto il suo insistere su questo tasto: non a torto poiché il 90% degli arabi è legato all'agricoltura e da ciò deriva la loro miseria. L'autore centra il problema dello sviluppo economico quando dice che senza una profonda riforma agraria non vi può essere una rapida industrializzazione. Nella conclusione scrive: "i grandi piani di industrializzazione dell'Asia, che si sentono discutere a Washington, intensificherebbero unicamente lo sfruttamento delle masse e affretterebbero il giorno della vittoria dei comunisti." Quindi la prima riforma da fare è quella della terra: una proposta pratica è quella di utilizzare gli investimenti di dollari nell'organizzare una specie di Tennessee Valley Authority nel bacino del Tigri e dell'Eufrate (pare che adesso il governo USA stia trattando in questo senso).
Certamente la tesi del Douglas sulla priorità della riforma agraria sulle misure di industrializzazione costituisce una delle alternative di azione dell'imperialismo americano. Nei suoi aspetti generali rappresenta pure uno dei problemi che s'incontrano nell'analisi marxista dell'imperialismo. Sinora non vi sono ancora sufficienti elementi per potere dare una risposta definitiva. Le contraddizioni economiche, provenienti e da stratificazioni feudali e da modernissime forme capitalistiche, oltre a rispecchiare l'ineguale sviluppo del capitalismo su scala mondiale sono alla base dei problemi non ancora risolti e da risolvere creativamente nel corso dell'attività pratica e dell'elaborazione teorica del marxismo rivoluzionario.
(Inedito, agosto 1958)
Africa Nera: punto
d'incontro tra lotta anticolonialista
e lotta proletaria
Il
nostro anticolonialismo e l'Africa Nera
Illusorie «vie africane al socialismo»
L'interferenza imperialistica
e lo sviluppo economico
Caratteristiche politiche della Federazione della Rhodesia e
Nyassaland
Caratteristiche economiche della Federazione
Prospettive e tappe dell'indipendenza della Federazione
Lo sciopero operaio alla
diga di Kariba
Il nostro anticolonialismo e l'Africa Nera
Con l'inizio del 1959 e con un ritmo rapidissimo, il movimento di
liberazione dell'Africa Nera ha assunto vastità e proporzioni assolutamente
nuove. L'ondata di indipendenza va
toccando ogni lembo dell'Africa e scuote terribilmente le forme
d'organizzazione colonialista instaurate dalle potenze imperialiste. Quando si potrà fare la storia
dell'indipendenza africana, uno degli elementi che più la caratterizzeranno
sarà certamente il rapido ritmo di sviluppo, che non trova riscontro
nell'ascesa della borghesia nel vecchio e nel nuovo continente.
La storia del risorgimento europeo ed americano marcia a cavallo di secoli; quella africana corre nello spazio di pochi decenni, quasi di pochi anni. Anche per questa ragione difficile diventa il seguire il movimento africano ed ancora più difficile si presenta il compito di studiarlo in tutti i suoi fattori oggettivi e nei suoi molteplici aspetti.
Illusorie «vie africane al socialismo»
Spesse volte ci troviamo di fronte a partiti di recentissima
formazione, con basi ideologiche estremamente contraddittorie, che racchiudono
elementi di tradizione estranei alla cultura politica europea, con dirigenti
nuovi e quasi sempre giovani, con problemi particolari ed originali. Di fronte
a questa complessità del movimento africano che impedisce un particolareggiato
giudizio, la posizione del marxismo rivoluzionario segue la chiarissima
demarcazione di classe e si schiera apertamente in favore dell'indipendenza
africana. Ancora ignote ci sono le forme particolari di sviluppo del
capitalismo nazionale nell'Africa Nera e sarebbe lavoro sterile tracciare delle
minute previsioni. Esse saranno sempre riducibili a quelle essenziali, ormai
classiche per la nostra dottrina, che nelle linee generali descrivono la fase
storica della formazione del capitalismo in tutto il mondo.
Tale analisi va centrata sullo sviluppo dei rapporti di produzione. Fuori di essa non vi è che l'eclettismo, che non manca di dare, anche per quel che riguarda l'Africa, fantomatiche e lambiccate «vie al socialismo» nel continente africano, che mal nascondono sotto il più brillante revisionismo la vecchia piaga dell'opportunismo. La rivolta antimperialista dei popoli africani non prelude affatto alla formazione della società socialista nel continente. Essa è una tappa necessaria per la rottura del dominio imperialista, per la disgregazione della stratificazione feudale, per la liberazione di forze ed energie economiche necessarie alla costituzione di un mercato nazionale e di una struttura capitalistica industriale, per la trasformazione delle tribali plebi agricole in proletariato moderno, per l'instaurazione di una moderna società, per una nuova classificazione sociale, base necessaria alla lotta e alla rivoluzione socialista. Solo per questo noi appoggiamo la lotta d'indipendenza africana.
L'interferenza imperialistica e lo sviluppo
economico
Certo, non tutti i problemi si risolvono e si chiudono in questa nostra
affermazione programmatica, ma solo partendo da questa posizione di principio
si possono affrontare tutte le altre questioni inerenti agli sviluppi della
lotta imperialista.
Uno dei problemi principali pensiamo sia quello della interferenza imperialistica, cioè della lotta tra potenze imperialiste che si attua su tutta l'arena mondiale e, perciò, anche nelle aree sottosviluppate. In linea di massima pensiamo siano valide tre considerazioni.
1) Mentre l'interferenza imperialistica gioca un ruolo non secondario nell'Africa
del Nord e nel Medio Oriente, attualmente il suo ruolo è debolissimo
nell'Africa Nera.
2) L'interferenza imperialistica in generale (escludendo, naturalmente, le
potenze interessate nel dominio colonialista, cioè Inghilterra e Francia e, in
misura minore, Portogallo, Spagna e Belgio) è esercitata più in direzione
economica che strettamente politica.
Tale interferenza economica non sparirà, anzi è destinata ad aumentare quanto
più le nazioni coloniali emancipate attueranno il loro sviluppo economico,
allargheranno necessariamente il loro scambio commerciale, potenzieranno il
loro mercato interno e dovranno attingere il capitale d'investimento
dall'estero data la loro debole accumulazione capitalistica. Tali interferenze
oggettivamente non possono sparire. Stati Uniti ed URSS combatteranno anche
nell'area economica del continente nero la lotta per la conquista dei mercati
che già hanno iniziato e che costituisce uno dei problemi tipici del rapporto
di forze tra queste due potenze. Ma
anche questo fatto non può certo valere contro l'indipendenza coloniale: prima
di tutto, perché l'esportazione dei capitali non cesserà se non quando la
rivoluzione proletaria farà crollare le cittadelle dell'imperialismo; in
secondo luogo, perché la legge economica dell'esportazione imperialistica,
mentre dilaziona la crisi generale nei paesi avanzati e frena la lotta
rivoluzionaria dei proletariati metropolitani, obiettivamente accelera la morte
del capitalismo decuplicando le forze proletarie rivoluzionarie che dovranno
attuarla. E poi l'interferenza economica si sviluppa in parecchie forme e in
parecchi gradi e ciò avviene a seconda dello sviluppo della borghesia nazionale
e del proletariato dei paesi arretrati.
Tutti sanno che il continente americano è, in proposito, un buon campo
di osservazione storica. America Latina
e Nordamerica furono per secoli soggette al capitale inglese. Gli Stati Uniti
anzi formarono la loro economia con l'importazione di capitale inglese in
misura molto maggiore delle repubbliche sudamericane che pure erano sganciate
politicamente da Spagna e Brasile dall'inizio dell'800. E questo fatto non solo
non impedì l'indipendenza economica statunitense rispetto all'Inghilterra,
bensì, possiamo dire, la permise, la rafforzò e creò una forte borghesia
nazionale capace di dirigerla e svilupparla.
3) Nella lotta contro l'imperialismo non sono tanto le prospettive a breve
scadenza quelle che contano, quanto quelle a lunga scadenza. Ebbene, nessuno
può negare che la lotta d'indipendenza africana è dettata da forti necessità di
sviluppo economico e sempre nella storia sono queste necessità di sviluppo
economico che muovono gli uomini e li fanno compartecipi, creatori della loro
vita sociale. Nell'Africa Nera, questo
primo passo si sta realizzando. Da un
immobilismo sociale e culturale di secoli, in pochi anni le masse si stanno
mettendo in movimento. Il pungolo della dominazione imperialistica le fa uscire
dalla maledetta tana dell'avvilimento, dell'isolamento, della rassegnazione. Senza questo primo passo niente era
possibile. Oggi il movimento è iniziato e nel movimento le masse apprendono le
prime nozioni della cultura moderna, cominciano ad usare le prime nozioni di
distinzione politica, economica e sociale, rivendicano una istruzione tecnica e
linguistica, aprono gli occhi di fronte ad un mondo fino ad ieri oscurato
dall'ignoranza e dalla superstizione.
Camminando si educano.
Questi sono alcuni punti che riteniamo debbano essere fermi nell'affrontare attualmente la questione coloniale. Ovviamente ve ne sono tanti altri ed è nostro compito studiarli, esporli, divulgarli, porli all'attenzione e alla discussione dei gruppi rivoluzionari e del movimento operaio. È ciò che ci proponiamo di fare. In fondo, il contribuire alla soluzione della questione coloniale anche con un impegno di divulgazione e di chiarificazione è un mettere in atto quell'internazionalismo militante da noi propugnato.
Occorre uscire dal «localismo» tanto amato ed esaltato in chiave nazionale dai sistemi borghesi parlamentari e da tutti i partiti che in essi vegetano. Occorre anche superare le posizioni di facile attesa dei «grandi fatti internazionali», ingredienti mistificati con i quali gli stessi partiti sedicenti internazionalisti cercano di giustificare il loro riformismo.
L'internazionalismo
operaio è, prima di tutto, solidarietà, è conoscenza della situazione mondiale,
conoscenza delle lotte di classe che impegnano tutto il proletariato
internazionale, presa di posizione cosciente e responsabile di fronte ad
avvenimenti che sconvolgono il mondo.
Raggiungere questo grado di coscienza e di responsabilità rivoluzionaria significa, infine, aver superato quell'infantilismo ideologico e politico che porta alcuni sbandati a lasciare la coda di Togliatti per seguire la coda di Nenni o viceversa: tutto ciò tradisce una mancanza di analisi approfondita, che ha degradato la vita politica del proletariato italiano ad una macchina che fa fracasso e gira a vuoto dietro «slogan» che hanno spesso la durata di una cicala e dà prodotti strani, polpettoni con un pizzico di nostrano nazionale, uno di pacifismo internazionale nel fondamentale grosso sugo del parlamentarismo dalla corta vista del giorno per giorno, cosa per cosa.
Solo con una ampia visione della situazione di classe internazionale, frutto di una seria fedeltà al marxismo, si possono superare i vicoli ciechi del politicantismo di destra e di sinistra, si possono costruire le pattuglie dell'avanguardia rivoluzionaria, si possono gettare le basi di quell'ampio quadro strategico leninista che vede intrecciare rivoluzioni socialiste nei paesi industriali e lotte d'indipendenza coloniale nei paesi arretrati. Lavorare in questa direzione, lavorare, formare gruppi e quadri rivoluzionari che abbiano rotto irrimediabilmente con l'opportunismo, lavorare a dare una coscienza ideologica sui problemi dell'imperialismo e del colonialismo, rappresenta oggi, in Italia, uno dei primi anche se modestissimi aiuti alla lotta di liberazione delle masse afroasiatiche in generale e delle masse africane in particolare.
Caratteristiche politiche della Federazione della
Rhodesia e Nyassaland
Verso la fine di febbraio - pare che le prime manifestazioni siano
iniziate nella notte del 18 febbraio con un attacco alla prigione di Karauga -
un grande moto di rivolta indipendentista ha scosso una delle zone più
pacifiche del dominio coloniale inglese: il Nyassaland. La notizia sembrerebbe di secondaria
importanza se non fosse proprio in questo caso una di quelle notizie che
indicano con forza la testimonianza di quanto il movimento d'indipendenza si
vada estendendo nel continente africano.
Ma prima di tutto vediamo che cosa ha significato il Nyassa nel sistema
di oppressione imperialista.
Il primo agosto 1953 gli inglesi, per rafforzare il loro dominio nella zona, crearono la Federazione Centroafricana comprendente tre territori: Rhodesia meridionale, Rhodesia settentrionale e Nyassa. La Federazione è vastissima (1.262.986 km quadrati) e non ha sbocchi diretti sul mare. Comprende sette milioni circa di africani e 230.000 bianchi, dei quali la maggior parte sono stabiliti nelle due Rhodesie e solo circa 7.000 abitano nel Nyassa. La proporzione tra neri e bianchi è di 13 a uno nella Rhodesia meridionale, di 42 a uno nella Rhodesia settentrionale e di 588 a uno nel Nyassa. Federando il Nyassa gli inglesi ottenevano, quindi, lo scopo di controbilanciare lo svantaggio numerico e di controllare centralisticamente una zona prettamente nera al 99,6 per cento.
Lo scopo per cui fu fondata la Federazione risponde alla strategia dell'imperialismo inglese, e cioè di creare una colonia, con un governo proprio ma in mano agli inglesi, che contrasti sia le pretese del tipo dei nazionalisti dell'Unione Sudafricana che quelle dei movimenti di indipendenza ispirati al Ghana di K. Nkrumah o addirittura quelle della rivolta dei Mau Mau del Kenya. Queste due ultime forme di lotta indipendentista - che nel caso del Kenya potrebbe spingersi, date le forti comunità dei Kikuyu che le abitano, sino alle confinanti Uganda e Tanganika troverebbero, secondo il disegno inglese, nella Federazione una specie di barriera neutralizzatrice. La Federazione dovrebbe rappresentare, perciò, una base di sicurezza inglese nell'Africa centrale, anche nel caso che l'Unione Sudafricana abbandonasse il Commonwealth.
Altri fattori sono intervenuti dopo la costituzione della Federazione e dopo le discussioni che la accompagnarono. Prima del 1953 gli africani della Rhodesia settentrionale e del Nyassa, che credevano aperta la via all'autogoverno, si opposero tenacemente alla Federazione che tale via avrebbe preclusa con la costituzione di un Parlamento federale di trentasette membri di cui solo sei africani. Rivolsero persino appelli alle Nazioni Unite e la loro eco giunse anche alla Camera dei Comuni dove la decisione di istituire la Federazione fu approvata con 304 voti contro 260.
Caratteristiche economiche della Federazione
Ma, come dicevamo, altri fattori di natura economica
intervenivano nella vita della Federazione. Soprattutto lo sviluppo economico
della Rhodesia meridionale che è plasticamente dimostrato dalla grandiosa diga
di Kariba che imbriglierà il fiume Zambesi e che, con un investimento di
miliardi di dollari, sarà lo sbarramento più grande del mondo. Il solo
riferimento alla grandiosa opera ed all'imponente investimento indica di quale
evoluzione delle strutture sia al centro la Federazione. In pratica, assistiamo
in questa zona ad un massiccio intervento del capitale statunitense che in via
diretta o indiretta, tramite la Banca Mondiale, sta creando una fortissima
testa di ponte nell'Africa centrale non solo per le necessità tradizionali di
rifornimento di materie prime pregiatissime (cromo, ecc.) a basso prezzo, ma
pure per nuove necessità di esportazione di capitali. Siamo di fronte ad
un fatto che opera, nel tramite della sovrastruttura classica colonialista
inglese della Federazione, una svolta importantissima nella penetrazione
imperialistica nell'Africa Nera. Ed è qui dove la semplice critica
anticolonialista non basta più e dove non bastano neppure i semplici slogan
contro l'imperialismo monopolistico. È innegabile che la creazione della
gigantesca diga sullo Zambesi, con l'enorme potenziale energetico che metterà a
disposizione per l'industrializzazione di ogni tipo, supera gli schemi della
spoliazione monopolistica nelle colonie e getta le basi per una forte struttura
economica regionale (energia per tutti gli Stati limitrofi), per molti versi
autosufficiente e potenzialmente autonoma. Indubbiamente anche questa nuova
struttura rientra nell'egemonia dell'imperialismo americano ed è concepita nel
quadro di sistemi internazionali per la complementarità ed il potenziamento
della economia statunitense.
Su questo aspetto non ci sono dubbi. Ma questo aspetto, a lunga scadenza e nelle prospettive dell'indipendenza del continente nero e della sua industrializzazione, non è quello che conta maggiormente. Il fatto più importante è che la potenza imperialista più avanzata, cioè quella che ha maggiore eccedenza di capitali e maggiore necessità di evitare una crisi economica, sia costretta ad uscire dalle tradizionali forme di penetrazione colonialista (prelevamento di materie prime, imposizione di una monocultura) ed a creare obiettivamente strutture economiche nazionali nelle zone coloniali soggette.
Prospettive e tappe dell'indipendenza della
Federazione
Che, poi, la Federazione Centroafricana rimanga, per molto o per
meno tempo, giuridicamente inglese o che diventi uno Stato indipendente con una
forte ingerenza americana, ciò può essere visto solo nel ritmo di
sviluppo dell'indipendenza politica.
Può darsi che attualmente gli americani preferiscano appoggiare al massimo la prima soluzione, come può darsi benissimo che intravedano nella seconda una forma temporanea di equilibrio e di stabilità economico-politica. Tutto ciò dipende dal grado di maturazione del nazionalismo centroafricano e dalla sua capacità di attacco.
Ma quello che è inevitabile, alla lunga e sulla base di una forte struttura economica in formazione, è la nascita di un capitalismo nazionale o regionale (in gran parte dell'Africa impropria è la definizione nazionale, in quanto le attuali nazioni sono delle semplici suddivisioni politiche operate dalle potenze europee, suddivisioni che vengono superate dai movimenti nazionalisti che parlano in termini di ampie regioni o di Stati Uniti africani). Tale capitalismo entrerà in futuro in conflitto con l'egemonia dell'imperialismo straniero.
Si dirà che il capitalismo nazionale, nel caso della Federazione, è rappresentato dai bianchi i quali con il loro ferocissimo ed indiscriminato razzismo vogliono impedire la formazione capitalista dell'elemento nero. Prescindendo dal fatto che la formazione del capitalismo nel continente nero, ed in generale in tutte le zone sottosviluppate, avviene nella forma moderna del capitalismo di Stato e che, quindi, anche la lotta contro l'imperialismo impugna spesso l'arma delle nazionalizzazioni, non bisogna dimenticare tre fattori:
1)La formazione di una struttura capitalistica ad opera dell'imperialismo
straniero anche se, come nel caso della Federazione, rafforza le posizioni
capitalistiche della minoranza bianca che sistematicamente esclude l'elemento
nero, crea necessariamente un forte proletariato nero e rafforza ed estende la
proletarizzazione della popolazione nera.
In larga misura permette, nello stesso tempo, la proletarizzazione dei
movimenti politici del nazionalismo nero ed estende il ruolo politico dei
sindacati neri. Alla fine generalizza
nel programma indipendentista l'obiettivo della nazionalizzazione economica. In
queste condizioni obiettive, almeno per l'Africa centro-orientale, non vi sono
altre prospettive. A meno che non si
vogliano indicare i modelli sudafricano ed algerino, modelli precarissimi e
destinati a scomparire. Nel Sud Africa si è creato un capitalismo nazionale di
razza bianca, ma la barriera della segregazione che lo sostiene sarà travolta
non appena il nazionalismo africano si sarà rafforzato anche nelle zone
attualmente deboli. Il modello algerino
non ha alcuna probabilità di sopravvivenza economica anche nel caso di una
soluzione politica di compromesso, soluzione molto improbabile ed
aleatoria. Senza contare che nessun
paese africano offre quelle possibilità storiche, politiche e sociali per una
emigrazione bianca di massa come in più di un secolo si è verificata in
Algeria.
2) Lo sviluppo economico dei paesi africani non solo crea un proletariato ma
aiuta, nello stesso tempo e nelle nuove condizioni generali di vita, il già
forte incremento demografico. La difesa razziale del capitalismo della
minoranza bianca cozza contro un fattore naturale insopprimibile.
3) Lo stesso processo storico della formazione delle colonie nel continente
africano contiene già il germe di dissolvimento di ogni forma di capitalismo
che a lunga scadenza non sia nazionale ed africano. Si possono creare forme di capitalismo nazionale dirette, in
stretta dipendenza con l'imperialismo straniero, dalla minoranza bianca, ma
esse saranno travolte dal processo di unità economica dell'Africa. Il movimento nazionalista è fortemente
unitario perché la «balcanizzazione» operata dai colonialisti non aveva radici
tradizionali e perché le esigenze di sviluppo economico esigono imperiosamente
l'unificazione economica. Sotto questi aspetti l'Africa ha degli enormi
vantaggi nei confronti del la storia della formazione europea. Sorprende oggi vedere Stati resisi
indipendenti da pochi mesi fondersi con altri Stati giovanissimi. È il caso
della Guinea e del Ghana. Lo ripetiamo:
è una esigenza di vita economica favorita dal fatto che il nazionalismo
africano si è creato come rivolta al colonialismo e non ha altre tradizioni
storiche che non siano quelle della tribù o dei grandi imperi neri unitari.
Lo sciopero operaio alla diga di Kariba
Anche alla luce di tutte queste considerazioni il moto di rivolta
del Nyassa acquista un significato più profondo di quanto possa apparire dalle
cronache. Per la prima volta nella storia, il moto del Nyassa si è incontrato
contemporaneamente con un movimento tipicamente proletario: lo sciopero degli
operai neri della diga di Kariba.
Questo episodio classista, che arricchisce il contenuto della lotta di
indipendenza e la spinge ad un livello sociale molto avanzato, ha accelerato anche
la lotta puramente anticolonialista delle popolazioni del Nyassa. La presenza di un forte proletariato nero
nella Rhodesia meridionale ha costituito un validissimo aiuto per gli africani
del Nyassa ritenuti tra i più pacifici e i più sottomessi delle colonie. Anche gli anelli più forti della catena
imperialista si incrinano al calore di un fuoco nuovo che scintilla nell'Africa
Nera: la lotta di classe.
(« Azione Comunista » n. 44, 10 aprile 1959)
Ultima modifica 09.09.2001