Contraddizione e Surdeterminazione

Louis Althusser

 


Pubblicato in Per Marx, 1974
Trascritto per il MIA da Clara S.


 

 

Sottolineai una volta, in un articolo consacrato al giovane Marx, l'equivocità del concetto di « rovesciamento di Hegel ». Mi era sembrato che, presa in tutto il suo rigore, questa espressione si adattasse perfettamente a Feuerbach il quale rimette effettivamente « la filosofìa speculativa sui piedi » (per non ricavarne comunque altro, secondo un'implacabile logica, che una antropologia idealista), ma che essa non potesse applicarsi a Marx, almeno al Marx uscito dalla fase « antro-pologista ».
Dirò ora di più, suggerendo che, nella nota espressione: « La dialettica, in Hegel, è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale dentro il guscio mistico » , la formula del «rovesciamento» non è che indicativa, anzi metaforica e pone più problemi di quanti ne risolva.
Come intenderla infatti in questo esempio preciso? Non si tratta più qui del « rovesciamento » di Hegel in generale, vale a dire del rovesciamento della filosofia speculativa come tale. Dopo L'ideologia tedesca, sappiamo che questo tentativo non ha senso: chi pretende puramente e semplicemente di rovesciare la filosofia speculativa (per ricavarne ad esempio il materialismo) non sarà mai che il Proudhon della filosofia, il suo inconscio prigioniero, come Proudhon lo era del­l'economia borghese. Adesso si tratta della dialettica, e soltanto della dialettica. Quando però Marx scrive che bisogna « scoprire il nocciolo razionale dentro il guscio mistico » si potrebbe credere che il « nocciolo razionale » sia la dialettica e il guscio mistico la filosofia speculativa. È d'altronde quel che dirà Engels, in termini ormai consacrati dalla tradizione, quando distinguerà il metodo dal sistema. Noi dovremmo quindi gettare alle ortiche il guscio, l'involucro mistico (la filosofia speculativa) per conservare il prezioso nocciolo: la dialettica. Tuttavia Marx dice nella stessa frase che estrazione del nocciolo e rovesciamento della dialettica sono tutt'uno. Ma come può questa estrazione essere un rovesciamento? In altre parole che cosa, in questa estrazione, viene « rovesciato »?
Consideriamo attentamente le cose. Una volta estratta dal guscio idealista, la dialettica diventa « direttamente l'opposto della dialettica hegeliana ». Ciò vorrebbe forse dire che, lungi dal concernere il mondo sublimato e capovolto di Hegel, verrà ora applicata al mondo reale? Si potrebbe allora dire che Hegel fu davvero « il primo a esporne, ampiamente e consapevolmente, le forme generali di sviluppo ». Si tratterebbe perciò di riprendergli la dialettica e di applicarla alla vita invece di applicarla all'Idea. Il «rovesciamento» sarebbe, un rovesciamento di « direzione » della dialettica. Ma. tale rovesciamento di dire­zione lascerebbe, in realtà, la dialettica intatta.
Ora, nell'articolo citato, suggerivo appunto, facendo l'esempio del giovane Marx, che la ripresa rigorosa della dialettica nella forma hege­ liana non poteva che farci cadere in pericolosi equivoci, nella misura in cui è impensabile, proprio in virtù dei principi marxisti d'interpretazione di qualsiasi fenomeno ideologico, che la dialettica possa albergare nel sistema di Hegel come un nocciolo nel suo involucro 1. Con ciò volevo sottolineare l'assurdità che l'ideologia hegeliana non abbia con­ taminato in Hegel anche l'essenza della dialettica, o, poiché questa « contaminazione » non può che poggiare sulla finzione di una dialettica pura anteriore alla «contaminazione » stessa, che la dialettica hege­liana possa cessare di essere hegeliana e diventare marxista per il mi­racolo di una semplice « estrazione ».
Nelle rapide righe del Poscritto, Marx ha certo sentito questa difficoltà e non solo suggerisce, nell'accavallarsi delle metafore e in particolare in quel singolare accostamento di estrazione e di rovescia­mento, un po' più di quanto non dica, ma anche lo dice apertamente in altri passi, più e meno amputati da Roy.
Basta leggere da vicino il testo tedesco per scoprire che il guscio mistico non è affatto, come si potrebbe credere sulla parola di alcuni successivi commenti di Engels 2, la filosofia speculativa, o la « concezione del mondo,,» o il «sistema», ossia un elemento considerato come esterno al metodo, ma aderisce alla dialettica stessa. Marx arriva a dire che «la dialettica nelle mani di Hegel soggiace a una mistificazione», inoltre ci parla del suo « lato mistificatore » e della sua « forma misti­ficata», e oppone precisamente a questa «forma mistificata» (mysti-fizirte Form) della dialettica hegeliana, la forma razionale (rationelle Gestalt) della propria dialettica. È difficile dire con maggiore chiarezza che il guscio mistico altro non è che la forma mistificata della dialettica stessa, ossia non un elemento relativamente esterno alla dialettica (come il « sistema » ), bensì un elemento interno, consustanziale alla dia­lettica hegeliana. Non è quindi sufficiente liberarla dal primo involucro (il sistema), bisogna anche liberarla da questo secondo guscio che le aderisce addosso, che è, oserei dire, la sua stessa pelle, inseparabile da essa: un guscio anch'esso hegeliano fin nei fondamenti (Grundlage). Diciamo allora che non si tratta di un'operazione indolore e che questa apparente estrazione è in verità una demistificazione, ossia un'opera­zione che trasforma quello che estrae.
Ritengo dunque che, nella sua approssimazione, questa metafora del « rovesciamento » della dialettica ponga non tanto il problema della natura degli oggetti cui si tratterebbe di applicare un medesimo metodo (il mondo dell'Idea in Hegel - il mondo reale in Marx) bensì proprio il problema della natura della dialettica in sé, ossia il problema delle sue strutture specifiche. Non il problema del rovesciamento di « dire­zione » della dialettica, ma problema della trasformazione delle sue strutture. È superfluo spiegare che, nel primo caso, l'« esternità » della dialettica ai suoi possibili oggetti, ossia la questione dell'applicazione di un metodo, pone un problema predialettico, ossia un problema che, strettamente parlando, non può avere senso per Marx. Nel secondo caso si pone invece un problema reale, cui sarebbe estremamente im­probabile che Marx e i suoi seguaci non avessero dato teoricamente e praticamente, teoricamente o praticamente, una risposta concreta.
Concludiamo quindi questa fin troppo lunga analisi dicendo che se la dialettica materialista è « nella sostanza » l'opposto della dialet­tica hegeliana, se è razionale e non mistico-mistificata-mistificante, que­sta differenza radicale deve manifestarsi nella sua essenza, ossia nelle determinazioni e strutture sue proprie. Per dirla chiaramente, questo implica che certe strutture basilari della dialettica hegeliana, quali la negazione, la negazione della negazione, l'identità dei contrari, il « supe­ramento », la trasformazione della qualità in quantità, la contraddizione ecc., posseggano in Marx ( nella misura in cui anch'egli se ne serve, il che non sempre è il caso! ) una struttura diversa da quella che posseg­gono in Hegel. Questo implica anche la possibilità di individuare, de-scrivere, definire e pensare queste differenze di struttura. E, se è pos­sibile, è dunque necessario, direi persino vitale per il marxismo. Non ci si può infatti accontentare di ripetere sempre le medesime approssi­mazioni quali la differenza tra sistema e metodo, il rovesciamento della filosofia o della dialettica, l'estrazione del «nocciolo razionale », ecc., se non lasciando a queste formule la cura di pensare al nostro posto, ossia di non pensare, e di confidare nella magia di qualche parola total­mente screditata per compiere l'opera di Marx. Dico vitale, giacché sono convinto che lo sviluppo filosofico del marxismo è attualmente sospeso a questo compito 3.
E poiché bisogna pagare di persona, vorrei, a mio rischio e peri­colo, fermarmi un momento a riflettere sul concetto marxista di con­traddizione, a proposito di un esempio preciso: il tema leninista dell' «anello più debole ».
Lenin dava innanzi tutto un senso pratico a questa metafora. Una catena vale quanto vale il suo anello più debole. In generale chi vuole tenere sotto controllo una data situazione baderà che non ci sia alcun punto debole che renda vulnerabile l'insieme del sistema. Chi invece vuole attaccarla, anche se tutte le apparenze della forza sono contro di lui, basta che scopra l'unico fallo che rende precaria tutta questa forza. Nulla sin qui che suoni come rivelazione quando si è letto Ma­chiavelli o Vauban i quali conoscono l'arte di difendere quanto di di­struggere una roccaforte stimando, come dice un proverbio francese, che « toute cuirasse à son défaut ».
Ma ecco dove viene l'interessante. Se la teoria dell'anello più de­bole guida evidentemente Lenin nello sviluppare la teoria del partito rivoluzionario (il quale dovrà essere come coscienza e come organizza­zione un'unità senza falle per sfuggire alla presa avversaria e anzi pas­sare al contrattacco) ispira anche le sue riflessioni sulla rivoluzione stessa. Perché la rivoluzione è stata possibile in Russia? Perché è risul­tata vittoriosa? È stata possibile in Russia per una questione che tra­scendeva la Russia: perché con lo scatenarsi della guerra imperialista, l'umanità era entrata in una situazione oggettivamente rivoluzionaria 4.

L'imperialismo aveva sconquassato il volto « pacifico » del vecchio ca­pitalismo. La concentrazione dei monopoli industriali, la dipendenza dei monopoli industriali dai monopoli finanziari, avevano aumentato lo sfruttamento operaio e coloniale. La concorrenza dei monopoli rendeva la guerra inevitabile. Ma questa medesima guerra che arruolava nelle sue interminabili sofferenze masse immense, compresi i popoli colo­niali donde si traevano truppe, gettava tutta quella carne da macello non solo nei massacri ma anche nella storia. L'esperienza e l'orrore della guerra avrebbero servito in tutti i paesi da relè e da rivelatore della lunga protesta di tutto un secolo contro lo sfruttamento capita­listico, nonché da punto di cristallizzazione, dandogli infine l'evidenza folgorante e i mezzi effettivi dell'azione. Ma questa conclusione a cui furono trascinate la maggior parte delle masse popolari europee ( rivolu­zioni in Germania e in Ungheria, rivolte e scioperi in Francia e in Italia, i soviet a Torino) non provocò il trionfo della rivoluzione altro che in Russia, proprio nel paese « più arretrato » d'Europa. Perché questa paradossale eccezione? Per la fondamentale ragione che la Russia rap­presentava, nel « sistema degli Stati » imperialisti , il punto più debole. La grande guerra aveva si aggravato e fatto precipitare questa debolez­za, non l'aveva però determinata da sola. La rivoluzione del 1905, pur nel suo stesso fallimento, aveva già dato la misura della debolezza della Russia zarista, le cui cause salienti stavano nell'accumulazione e nell'esasperazione di tutte le contraddizioni storiche allora possibili in un unico Stato. Contraddizioni di un regime di sfruttamento feudalesche all'alba del XX secolo continuava a regnare attraverso l'impostura, dei popi, sopra un'enorme massa contadina « incolta » , e tanto più feroce­mente quanto più cresceva la minaccia — circostanza che valse singo­larmente ad avvicinare la rivolta contadina alla rivoluzione operaia. Contraddizioni dello sfruttamento capitalista e imperialista, sviluppate su vasta scala nelle grandi città e sobborghi, nelle regioni minerarie, petrolifere, ecc. Contraddizioni dello sfruttamento e delle guerre colo­niali, imposte a interi popoli. Contraddizione enorme tra il grado di sviluppo dei sistemi di produzione capitalista (particolarmente in rap­porto alla concentrazione operaia: la più grande fabbrica del mondo, la fabbrica Putilov, che raggruppava 40.000 tra operai e ausiliari si tro­vava allora a Pietrogrado) e lo stato medioevale delle campagne. Esa­sperazione della lotta di classe in tutto il paese, non solo tra sfruttatori e sfruttati, ma anche all'interno delle classi dominanti stesse (grandi proprietari feudali, legati allo zarismo autoritaristico, poliziesco e mi­litarista; piccola nobiltà che continuamente fomentava congiure; gran­de borghesia e borghesia liberale in lotta contro lo zar; piccola bor­ghesia oscillante tra il conformismo e l'«estremismo» anarchizzante ). Cui vennero ad aggiungersi, nel corso degli eventi, altre circostanze « eccezionali » , inintelligibili fuori da questo «sviluppo » di contraddizioni interne ed esterne della Russia. Per esempio il carattere « evoluto » dell'elite rivoluzionaria russa, costretta in esilio dalla repressione zarista, ove si «coltivò» e raccolse tutta l'eredità dell'esperienza poli­tica delle classi operaie dell'Europa occidentale (e prima di tutto: il marxismo), circostanza che non fu estranea alla formazione del partito bolscevico, il quale superava di gran lunga come coscienza e come orga­nizzazione tutti i partiti « socialisti » occidentali; la «prova generale», della rivoluzione del 1905, che gettò una luce cruda sui rapporti di classe, li cristallizzò, come succede generalmente nei gravi periodi di crisi e permise cosi la « scoperta » di una nuova forma di organiz­zazione politica delle masse: i soviet; e infine — cosa non meno straordinaria — il « respiro » insperato che lo stato di spossatezza delle nazioni imperialiste lasciò ai bolscevichi per aprirsi anch'essi una « breccia » nella storia, e l'appoggio involontario ma efficace della bor­ghesia franco-inglese, che, volendo sbarazzarsi dello zar, fece, al mo­mento decisivo, il giuoco della rivoluzione . Insomma, persino in questi particolari di contorno, la situazione privilegiata della Russia di fronte alla possibile rivoluzione dipese da un accumularsi e da un esasperarsi di contraddizioni storiche tali che sarebbero riuscite inintelligibili in ogni altro paese che non fosse stato come la Russia, contemporaneamente in ritardo di almeno un secolo sul mondo dell'imperialismo e al vertice di esso.
Tutto questo Lenin lo dice in numerosissimi testi che Stalin ha riassunto in termini particolarmente chiari nelle conferenze tenute nell'aprile 1924 . La disuguaglianza di sviluppo del capitalismo sfociò, attraverso la guerra del 1914, nella rivoluzione russa perché la Russia era, nel periodo rivoluzionario che si apriva davanti all'umanità, l'anello più debole della catena degli Stati imperialisti: perché in essa si accumulava il maggior numero di contraddizioni storiche allora possibile; perché era contemporaneamente la nazione più retrograda e più progredita, contraddizione immane che le classi dominanti, divise, tra loro, non pote­vano eludere anche se non potevano risolvere. In altre parole la Russia, alla vigilia di una rivoluzione proletaria, si trovava in ritardo di una rivoluzione borghese, gravida quindi di due rivoluzioni, incapace, anche differendo la prima, di contenere l'altra. Lenin aveva visto giusto di­stinguendo in questa situazione eccezionale e « senza uscita » (per le classi dirigenti) le condizioni oggettive di una rivoluzione in Russia, e creando sotto la forma di un partito comunista che non avesse anelli deboli le condizioni soggettive, il mezzo dell'ultimo assalto contro l'anel-lo debole della catena imperialista.
Marx ed Engels si erano forse pronunciati diversamente dichiaran­do che la storia avanza sempre dal lato cattivo? Intendiamo con ciò il meno buono per coloro che la dominano. Intendiamo anche, senza for­zare le parole, il lato meno buono per chi... aspetta la storia da un altro lato, per esempio i socialdemocratici tedeschi della fine del XIX secolo, i quali si credevano deputati a breve scadenza al trionfo socialista, per il solo privilegio di appartenere allo Stato capitalista più forte e in piena espansione economica, mentre loro stessi erano in piena espan­sione elettorale (si danno di queste coincidenze...). Essi credevano evi­dentemente che la Storia avanzasse dall'altro lato, quello « buono », il lato del maggiore sviluppo economico, della maggiore espansione, della contraddizione ridotta al suo più puro schema (quello del capitale e del lavoro), dimenticando che nella fattispecie tutto questo succedeva in una Germania armata di un potente apparato statale e bardata di una borghesia che aveva da un bel pezzo ringoiata la « sua » rivoluzione poli­tica in cambio sia della protezione poliziesca, burocratica e militare di Bismarck (e di Guglielmo, poi), sia degli enormi profitti dello sfrutta­mento capitalista e colonialista, bardata inoltre di una piccola borghesia nazionalista e reazionaria; dimenticando che, nel caso specifico, questo schema cosi lineare di contraddizione era semplicemente astratto: la contraddizione reale faceva talmente corpo con queste «circostanze» che non era distinguibile, identificabile e governabile se non attraverso e dentro queste circostanze stesse.
Cerchiamo di cogliere il punto essenziale di questa esperienza pra­tica e delle riflessioni che ispira a Lenin. Incominciamo col dire che non fu solo questa esperienza ad illuminare Lenin. Prima del 1917 vi fu il 1905, prima del 1905 le grandi delusioni storiche dell'Inghilterra e del­la Germania, prima di esse la Comune, più lontano ancora lo scacco tedesco del '48-49. Tutte queste esperienze avevano costituito via via materia di riflessione (Engels: Rivoluzione e controrivoluzione in Ger­mania; Marx: Le lotte di classe in Francia, Il 18 brumaio, La guerra civile in Francia, Critica al programma di Gotha; Engels: Critica al programma di Erfurt, ecc.), direttamente o indirettamente, ed erano state messe in relazione con altre esperienze rivoluzionane anteriori: le rivoluzioni borghesi d'Inghilterra e di Francia.

Come riassumere allora queste esperienze pratiche e il loro commentario teorico, se non dicendo che tutta l'esperienza rivoluzionaria marxista dimostra che, se la contraddizione in generale (ma essa è già specificata: contraddizione tra forze di produzione e rapporti di pro­duzione, incarnata essenzialmente nella contraddizione tra due classi an­tagoniste) basta a definire una situazione in cui la rivoluzione è « all'or­dine del giorno », non può, per sua semplice virtù diretta, provocare una « situazione rivoluzionaria » e, a maggior ragione, una situazione I di rottura rivoluzionaria e insieme il trionfo della rivoluzione. (Perché questa contraddizione divenga « attiva » in senso forte, principio di rot­tura, ci vuole tutto un accumularsi di « circostanze » e di « correnti » tale che, qualunque ne sia l'origine e il senso (e buon numero di esse sono necessariamente per origine e senso paradossalmente estranee se non addirittura « assolutamente opposte » alla rivoluzione) «si fondano» tutte in un'unità di rottura: quando raggiungono cioè il risultato di raggruppare l'immensa maggioranza delle masse popolari nell'assalto di un regime che le classi dirigenti sono impotenti a difendere. Questa situazione non solo suppone la « fusione » delle due condizioni fonda­mentali in una « crisi nazionale unica », ma ogni condizione, presa (astrat­tamente) a sé presuppone anch'essa la « fusione » di un « cumulo » di contraddizioni. Come sarebbe possibile altrimenti che le masse popolari, divise in classi (proletari, contadini, piccoli borghesi) possano, consa­pevolmente o confusamente, gettarsi insieme in un assalto generale contro il regime esistente? E come sarebbe possibile che le classi domi­nanti, che sanno per cosi lunga esperienza e cosi sicuro istinto suggellate tra loro, nonostante: le loro differenze di classe (latifondisti, grande bor­ghesia, industriali, finanzieri, ecc.) l'unione sacra contro gli sfruttati, possano essere cosi ridotte all'impotenza, fiaccate nel momento supremo, senza soluzioni né dirigenti politici di ricambio, private del loro appog­gio di classe all'estero, disarmate nella roccaforte stessa del loro appa­rato statale, e all'improvviso sommerse da questo popolo che, mediante lo sfruttamento, la violenza e l'impostura, tenevano così bene al guin­zaglio? Quando in una situazione entrano in giuoco, nei medesimo giuo­co, un enorme cumulo di « contraddizioni », di cui alcune radicalmente eterogenee, che comunque non hanno tutte la stessa origine né lo stes­so significato né lo stesso livello e campo d'applicazione, e tuttavia « si fondono » in un'unità di rottura, non è più possibile parlare dell'unica virtù semplice della «contraddizione» in generale. Certamente la contrad­dizione di base che domina questo tempo ( in cui la rivoluzione « è all'or­dine del giorno » ) è attiva in tutte queste « contraddizioni » e persino nella loro « fusione ». Ma non si può tuttavia sostenere, a stretto rigore, che tutte queste « contraddizioni » e il loro « fondersi » non siano altro che un mero fenomeno. Giacché le « circostanze » o le « correnti » che la realizzano sono qualcosa di più del puro e semplice fenomeno. Dipendo­no dai rapporti di produzione che sono si uno dei termini della contraddi­zione ma al contempo la sua condizione d'esistenza;dipendono dalle so- vrastrutture, istanze derivate ma con consistenza ed efficacia proprie; di­pendono dalla stessa congiuntura internazionale che interviene come una delle determinanti con una sua funzione specifica. Il che significa che le « differenze » che costituiscono le varie istanze, giuoco, (e che si ma­nifestano in quell'« accumulazione » di cui parla Lenin), se si « fondo­no » in un'unità reale, non si «dissolvono» come puro fenomeno nel­l'unità interna di una contraddizione semplice. L'unità che esse costitui- scono in questo « fondersi » della rottura rivoluzionaria, è un'unità fatta della loro essenza e della loro efficacia, un'unità che esse costitui­scono partendo da ciò che sono e secondo le modalità specifiche della loro azione. Costituendo questa unità, ricostituiscono e realizzano l'unità fondamentale che le anima, ma nel far questo ne indicano anche la na­tura: la contraddizione è inseparabile dalla struttura sociale dell'intero corpo sociale in cui si esercita, inseparabile dalle sue condizioni formali di esistenza e dalle istanze stesse che governa; essa è quindi, nel suo intimo, modificata da queste condizioni, determinante ma anche al tem­po stesso determinata, e determinata dai diversi livelli e dalle diverse istanze della formazione sociale che anima: potremmo chiamarla surde-terminata nel suo principio stesso.
Non tengo in particolar modo a questo termine surdeterminazione (preso a prestito da altre discipline), ma lo adopero, in mancanza di me­glio, contemporaneamente come indice e come problema; inoltre esso permette abbastanza bene di vedere perché abbiamo qui a che fare con qualcosa di completamente diverso dalla contraddizione hegeliana.
La contraddizione hegeliana infatti, non è mai realmente surdeterminata benché spesso ne abbia tutte le apparenze. Nella Fenomenologia, per esempio, che descrive le « esperienze » della coscienza e la loro dialettica culminante nell'avvento del Sapere assoluto, la contraddizione non sembra semplice, bensì molto complessa. A rigore può essere detta semplice solo la prima contraddizione: quella tra la coscienza sensibile e il suo sapere. Ma più si procede nella dialettica della sua produzione, più la coscienza diventa ricca e la contraddizione complessa. Si potrebbe però dimostrare che questa complessità non è la complessità di una sur­determinazione effettiva, ma la complessità di una interiorizzazione cumulativa che ha solo le apparenze della surdeterminazione. Infatti, in ogni momento del suo divenire, la coscienza vive e sperimenta la propria essenza (che corrisponde al grado da essa raggiunto) attraverso tutti gli echi delle essenze anteriori che essa è stata, e attraverso la presenza allusiva delle forrne storiche corrispondenti. Con la qual cosa Hegel indica che ogni coscienza ha un passato soppresso-conservato {aufgehoben) nel suo presente stesso, e un mondo (il mondo di cui potrebbe essere la coscienza ma che nella Fenomenologia resta come ai margini, di una presenza potenziale e latente), e quindi che essa ha anche come passato i mondi delle sue essenze superate. Ma queste forme passate della co­scienza e questi mondi latenti (corrispondenti a queste forme) non interessano mai la coscienza presente come effettive determinazioni ad essa esterne: queste forme e questi mondi non la concernono che come echi (ricordi, fantasmi della sua storicità) di ciò che è diventata, ossia come anticipazioni di sé o allusioni a sé. Appunto perché il passato non è mai altro che l'essenza interna (l'in sé) del futuro che racchiude, questa presenza del passato è la presenza a se stessa della coscienza e non una vera determinazione ad essa esterna. Cerchio di cerchi, la coscienza non ha che un unico centro e solo esso la determina: le ci vorrebbero altri cerchi, cerchi aventi un centro differente dal suo, cerchi eccentrici, per risentire veramente nel suo centro della loro efficacia: bisognerebbe insomma che fosse surdeterminata da essi nella sua essenza. Cosa che non è.
Questa verità è ancora più chiara nella Filosofia della storia. Anche qui si ritrovano le apparenze della surdeterminazione: ogni società storica non è forse costituita da una infinità di determinazioni concrete, dalle leggi politiche alla religione, passando via via attraverso i costumi, le usanze, i regimi finanziari, commerciali, economici, il sistema educa­tivo, le arti, la filosofia, ecc.? Eppure nessuna di queste determinazioni è, nella sostanza, esterna alle altre non solo perché tutte insieme costi­tuiscono una totalità organica originale, ma anche e soprattutto perché questa totalità si riflette in un principio interno unico, che è la verità di tutte queste determinazioni concrete. Così Roma: la sua colossale storia, e tutte le sue istituzioni, conquiste e crisi, altro non sono che la manifestazione indi la distruzione, nel tempo, del principio interno della personalità giuridica astratta. Questo principio interno contiene si, in sé, come tanti echi, tutti i principi delle formazioni storiche supe­rate, ma come echi di se stesso: ecco perché non possiede anch'esso che un solo centro, che è il centro di tutti i mondi passati conservati nel suo ricordo: ecco pecche è semplice. E all'interno di questa semplicità ap­pare anche la sua stessa contraddizione: in Roma, la coscienza stoica, quale coscienza della contraddizione inerente al concetto di personalità giuridica astratta, una coscienza che mira sì al mondo concreto della soggettività, ma non lo coglie. È appunto questa la contraddizione che distruggerà Roma e farà sorgere il suo futuro: la figura della soggettività nel cristianesimo medioevale. Tutta la complessità di Roma non surdetermina quindi in nulla la contraddizione del principio semplice di Roma, che non è che l'essenza interna di questa infinita ricchezza storica.

Se ora ci domandiamo perché mai i fenomeni di mutazione storica siano pensati da Hegel in questo concetto semplice di contraddizione, poniamo proprio la domanda essenziale. La semplicità della contraddi­zione hegeliana non è infatti possibile che per la semplicità del princi­pio interno che costituisce l'essenza di ogni periodo storico. Appunto perché è possibile, di diritto, ridurre la totalità, l'infinita diversità di una data società storica (la Grecia, Roma, il Sacro Romano Impero, l'In- ghilterra, ecc.) a un principio interno semplice, questa stessa sempli-cità, acquisita così di diritto alla contraddizione, può riflettervisi. Si deve essere ancora più netti? Questa stessa riduzione (di cui Hegel prese l'idea da Montesquieu), la riduzione di tutti gli elementi che fan­no la vita concreta di un mondo storico (istituzioni economiche, sociali, politiche, giuridiche, costumi, morale, arte, religione, filosofia e persino gli eventi storici: guerre, battaglie, disfatte, ecc.) a un principio interno d'unità, questa riduzione non è anch'essa possibile se non all'assoluta condizione di considerare tutta la vita concreta di un popolo come l'este-ridrizzazione-alienazione (Entàusserung-Entfremdung) di un, principio spirituale interno, che altro non è in conclusione se non la forma più astratta della coscienza di sé di questo mondo: la sua coscienza religiosa o filosofica, ossia la sua stessa ideologia. Si vede bene, penso, in quale senso il «guscio mistico» impronta e contamina il « nocciolo »: giacché la semplicità della contraddizione hegeliana non è mai che il riflesso della semplicità di questo principio interno di un popolo, ossia non della sua realtà materiale, ma della sua ideologia più astratta. Ecco perché Hegel può rappresentarci come « dialettica », ossia mossa dal giuoco sem­plice di un principio di contraddizione semplice, la Storia universale, dal lontano Oriente fino ai nostri giorni. Ecco perché per lui non esiste in fondo mai una vera rottura, un'effettiva fine — e neppure un'inizio ra­dicale — di una storia reale. Ecco perché anche la sua filosofia della storia è infarcita di mutazioni tutte uniformemente «dialettiche». Que­sta stupefacente concezione non si può difendere se non mantenendosi sulla sommità dello Spirito, ove poco importa che un popolo muoia quando ha incarnato quel determinato principio di un momento del­l'Idea (che ne ha già altri pronti) e quando incarnandolo se n'è anche spogliato per lasciarlo in eredità a quella Memoria di Sé che è la Storia, e insieme a quell'altro popolo (anche se i rapporti storici con esso sono molto deboli!) che, riflettendolo nella sua sostanza, vi troverà la pro­messa del proprio principio interno, ossia, come per caso, il momento logicamente consecutivo dell'Idea, ecc. Bisogna capire una buona volta che tutti questi arbitri (anche se attraversati a sprazzi da vedute vera­mente geniali) non rimangono miracolosamente confinati alla sola « con­cezione del mondo », al puro « sistema » hegeliano, ma si riflettono, in realtà, sulla struttura, sulle strutture stesse della dialettica hegeliana e particolarmente in quella « contraddizione » che ha per compito di fare avanzare magicamente verso il Fine ideologico i contenuti concreti di questo mondo storico.
Per questo il « rovesciamento » marxista della dialettica hegeliana è tutt'altro che una pura e semplice estrazione. Se infatti si'.coglie chia­ramente il rapporto di stretta intimità che la struttura della dialettica instaura in Hegel con la sua « concezione del mondo », ossia con la sua filosofia speculativa, è impossibile gettare davvero alle ortiche questa « concezione del mondo », senza essere obbligati a trasformare profon­damente le strutture della dialettica stessa. Se no, che lo si voglia o no, ci si trascinerà ancora dietro, centocinquant'anni dopo la morte di Hegel e cent'anni dopo Marx, i brandelli del famoso « involucro mistico ».
Ritorniamo dunque a Lenin e attraverso Lenin a Marx, Se è vero, come dimostrano tanto l'esperienza quanto la riflessione leninista, che la situazione rivoluzionaria in Russia dipendeva precisamente dal carat­tere d'intensa surdeterminazione della contraddizione fondamentale di classe, bisogna forse domandarsi in che cosa consista Veccezionalità ài questa « situazione eccezionale » e se, come ogni eccezione, questa ecce­zione non illumini la regola, se non sia, all'insaputa della regola, la re­gola stessa. Giacché infatti, non siamo forse sempre nell'eccezione? Ec- cezione l'insuccesso tedesco del '49, eccezione l'insuccesso parigino del 71, eccezione l'insuccesso socialdemocratico tedesco agli inizi del XX secolo in attesa del tradimento sciovinista del '14, eccezione il successo, del '17... Eccezioni, ma in rapporto a che cosai... se non in rapporto a una certa idea astratta ma confortante, rassicurante, di uno schema « dialettico » depurato, che aveva, nella sua stessa semplicità, come serbato la memoria (o ritrovato l'andamento) del modello hegeliano e la fede nella « virtù » risolutiva della contraddizione tra capitale e lavoro.

Non nego certamente che la « semplicità » di questo schema puro abbia potuto rispondere a certe verità soggettive della mobilitazione delle mas­se: sappiamo bene insomma, che le forme del socialismo utopistico hanno anch'esse avuta un'importanza storica e l'hanno avuta perché prendevano le masse tenendo conto dello stato della loro coscienza, dato che bisogna pur prenderle come sono anche e soprattutto quando le si vuole portare più avanti. Bisognerà davvero un giorno fare ciò che Marx ed Engels hanno fatto per il socialismo utopistico, ma questa volta per quelle forme ancora schematico-utopistiche della coscienza delle masse (persino di certi loro teorici) influenzate dal marxismo nella prima fase della sua storia: un vero studio storico delle condizioni e delle forme di questa coscienza. Ora si dà appunto il caso che tutti i più impor­tanti testi politici e storici di Marx ed Engels di questo periodo ci diano materia per una prima riflessione a proposito di queste sedicenti « eccezioni». Ne viene fuori l'idea fondamentale che la contraddizione, capi­tale-lavoro non è mai semplice, ma sempre specificata dalle forme e dalle circostanze storiche concrete in cui si esercita. Specificata dalle forme della sovrastruttura (Stato, ideologia dominante, religione, movimenti politici organizzati, ecc.); specificata dalla situazione storica interna ed esterna che la determina in funzione da una parte del passato nazionale stesso (rivoluzione borghese compiuta o « rientrata », sfruttamento feu­dale eliminato, del tutto, in parte, o niente, « costumi » locali, tradi­zioni nazionali specifiche, anche uno « stile proprio » delle lotte o del comportamento politico, ecc.) e dall'altra del contesto mondiale esistente, (ciò che vi domina al momento: « capitalismo concorrenziale » o « in­ternazionalismo imperialista », oppure competizione dentro l'imperiali­smo stesso, ecc.): buona parte di questi fenomeni potendo infatti dipen­dere dalla « legge della disuguaglianza di sviluppo » in senso leninista.
Che cosa sta a significare tutto ciò se non che la contraddizione in apparenza semplice è sempre surdeterminata? Qui l'eccezione si scopre regola, regola della regola, ed è allora a partire dalla nuova regola che bisogna pensare le vecchie « eccezioni », quali esempi metodologicamente semplici della regola. Posso allora per cercare di abbracciare, dal punto di vista di questa regola, tutto il complesso dei fenomeni, pro­porre che la « contraddizione surdeterminata » può essere surdetermi­nata sia nel senso di una inibizione storica, ossia di un vero e proprio «blocco» della contraddizione (per es. la Germania guglielmina), sia nel senso della rottura rivoluzionaria 1 (la Russia del '17), ma che, in queste condizioni, mai si presenta allo stato «puro»? Sarebbe allora, lo ammetto, la « purezza » stessa a costituire eccezione, ma non vedo quale esempio se ne potrebbe citare.
Ma allora, se ogni contraddizione si presenta nella pratica storica, e in rapporto all'esperienza storica del marxismo, come una contraddi­zione surdeterminata, se è questa surdeterminazione a costituire, di fronte alla contraddizione hegeliana, la specificità della contraddizione marxista; se la « semplicità » della dialettica hegeliana rinvia a una « concezione del mondo » e in particolare alla concezione della storia che, vi si riflette, bisogna pur domandarsi qual è il contenuto, quale la ragion d'essere della surdeterminazione della contraddizione marxista, e porsi il problema di sapere in che modo la concezione marxista della società può riflettersi in questa surdeterminazione. È un problema capitale questo, giacché è evidente che se non si mostra il legame necessario che unisce la struttura propria della contraddizione in Marx alla sua concezione della società e della storia, se non si fonda questa surdeter­minazione sui concetti della teoria marxista della storia, questa cate­goria resterà « campata in aria »: essa infatti, anche se esatta, anche se verificata dalla pratica politica, non è finora che descrittiva, e quindi contingente, e perciò, come ogni descrizione, alla mercé delle prime o delle ultime teorie filosofiche venute.
Ma qui finiamo ancora una volta col ritrovare il fantasma del mo­dello hegeliano: non più il modello astratto della contraddizione, bensì il modello concreto della concezione della storia che si riflette in esso. Per dimostrare infatti che la struttura specifica della contraddizione marxista si basa sulla concezione marxista della storia, bisogna assicu­rarsi che questa concezione non sia il puro e semplice « capovolgimen­to » della concezione hegeliana. È vero che si potrebbe sostenere a pri­ma vista che Marx abbia « rovesciato » la concezione hegeliana della storia. Vediamolo rapidamente. Tutta la concezione hegeliana è retta dalla dialettica dei princìpi interni a ogni società, ossia dalla dialettica dei momenti dell'idea. Come Marx ripete venti volte, Hegel spiega la vita materiale, la storia concreta dei popoli, attraverso la dialettica della coscienza (coscienza di sé di un popolo, la sua ideologia). Per Marx in­vece è la vita materiale degli uomini a spiegarne la storia, cosicché la loro coscienza e le loro ideologie non rappresentano altro che il fenomeno della loro vita materiale. Ci sono tutte le apparenze del « rovesciamento » riunite in. questa opposizione. Spingiamo le cose all'estre­mo, quasi alla caricatura. Che cosa vediamo in Hegel? Una concezione della società che fa sue le acquisizioni della teoria politica e dell'econo­mia politica del XVIII secolo, e che considera ogni società (moderna, si, ma i tempi moderni non fanno che far affiorare quello che prima era solo in germe) costituita da due società: la società dei bisogni, o società civile, e la società politica o Stato, e tutto ciò che si incarna nello Stato: religione, filosofia, ecc., insomma la coscienza di sé di un dato, tempo. In altre parole, detto schematicamente, la vita materiale da una parte e la vita spirituale dall'altra. Per Hegel la vita materiale (la società ci­vile, ossia l'economia) non è che Astuzia della Ragione, ed è mòssa, sotto l'apparenza dell'autonomia, da una legge a lei estranea: il suo Fine che è al contempo la sua condizione di possibilità, lo Stato, e per­ciò la vita spirituale. Ebbene c'è un modo, anche qui, di capovolgere Hegel vantandosi di far sorgere Marx. Questo modo consiste appunto nel rovesciare il rapporto tra i termini hegeliani, ossia nel conservare questi stessi termini: la società civile e lo Stato, l'economia e la politica-ideologia, ma trasformando l'essenza in fenomeno e il fenomeno in essenza o, se si preferisce, facendo agire l'Astuzia della Ragione a rove­scio. Mentre in Hegel è l'elemento politico-ideologico a costituire l'es­senza del fatto economico, in Marx sarebbe invece il fattore economico a costituire tutta l'essenza dell'opera politico-ideologica. Politica e ideo­logia non sarebbero allora che il puro fenomeno dell'economia, la quale ne costituirebbe la « verità ». Al principio « puro » della coscienza (di sé, di un dato tempo), principio interno semplice che, in Hegel, è prin­cipio di intelligibilità di tutte le determinazioni di un popolo storico, si sarebbe cosi sostituito un altro principio semplice, il suo contrario: la vita materiale, l'economia, principio semplice che diviene a sua volta l'unico principio d'intelligibilità universale di tutte le determinazioni di un popolo storico. Caricatura? In questa direzione vanno, se le si pren­de alla lettera, e avulse dal contesto, le famose frasi di Marx sul mulino a pale, il mulino ad acqua e la macchina a vapore. All'orizzonte di que­sta tentazione abbiamo il «pendant» esatto della dialettica hegeliana; con questa differenza, che non si tratta più di ingenerare i momenti suc­cessivi dell'Idea, bensì i momenti successivi dell'Economia, in virtù del­lo stesso principio della contraddizione interna. Questo tentativo finisce con la radicale riduzione della dialettica della storia alla dialettica gene­ratrice dei successivi modi di produzione. Ossia, al limite, delle diverse tecniche di produzione. Queste tentazioni portano, nella storia del marxismo, nomi specifici: economismo, se non addirittura tecnologismo.
Ma è sufficiente citare questi due termini per risvegliare immediatamente il ricordo delle lotte teoriche e pratiche condotte da Marx e dai suoi seguaci, per combattere queste « deviazioni ». E contro il sin troppo famoso testo sulla macchina a vapore, quanti testi perentori contro l'economismo! Facciamola dunque finita con questa caricatura, non per opporre all'economismo tutto il campionario delle condanne ufficiali, ma per esaminare quali principi autentici sono attivi in queste condanne e nel pensiero effettivo di Marx.
Diviene allora decisamente impossibile conservare, nel suo apparente rigore, la finzione del « rovesciamento». E invero Marx non ha conservato, neppur « capovolgendoli », i termini del modello hegeliano della società. Ne ha loro sostituiti altri che hanno con quelli solo lontani rapporti. Anzi ha sovvertito la relazione che regnava prima tra questi termini, cosicché sono tanto i termini quanto il loro rapporto a cambiare di natura e di senso.
I termini, intanto, non sono più gli stessi.
Certo Marx parla ancora di «società civile» (in particolare nell' ldeologia tedesca: termine che viene inesattamente tradotto con «so­cietà borghese») ma è per allusione al passato, per designare il luogo delle sue scoperte e non per riprenderne il concetto. Bisognerebbe stu­diare da vicino la formazione di questo concetto. Vi si vedrebbe allora delinearsi, sotto le forme astratte della filosofia politica e sotto le for­me più concrete dell'economia politica del XVIII secolo, non una vera teoria della storia economica e neppure una vera teoria dell'economia, ma una descrizione dei comportamenti economici e della loro formazio­ne, insomma una specie di Fenomenologia filosofico-economica. Ora quello che si può notare in tutto questo, tanto tra i filosofi (Locke, Hel-vétius, ecc.) quanto tra gli economisti (Smith, Turgot, ecc.) è che que­sta descrizione della società civile viene effettuata come se si trattasse della descrizione (e della fondazione) di ciò che Hegel, riassumendone perfettamente lo spirito, chiama « il mondo dei bisogni », ossia un mon­do che si riferisce immediatamente, come alla propria essenza interna, ai rapporti tra gli individui definiti dalla loro volontà particolare e dal loro interesse personale, insomma dai loro « bisogni ». Quando si sa che Marx ha basato tutta la sua concezione dell'economia politica sulla cri­tica di questo presupposto (l'homo oeconomicus, e la sua astrazione giuridica o morale, l'uomo dei filosofi) si dubita molto che abbia po­tuto riprendere un concetto che ne era il derivato diretto. Ciò che im­porta a Marx non è infatti né questa descrizione (astratta) dei compor­tamenti economici, né la pretesa di fondarla sul mito dell'uomo eco-nomico, ma l'«anatomia» di questo mondo e la dialettica dei muta­menti di questa « anatomia ». Ecco perché il concetto di « società civile » (mondo dei comportamenti economici singoli e loro origine ideo­logica) scompare in Marx. Ecco perché la realtà economica astratta (che Smith per esempio ritrova nelle leggi del mercato come risultato del suo sforzo di impostazione) è anch'essa pensata da Marx come l'effetto di una realtà più concreta e più profonda: come il modo di produzione di una determinata formazione sociale. Qui i comportamenti economici individuali (che servivano di pretesto a questa Fenomenologia economico-filosofica) sono per la prima volta messi a confronto con la loro condizione di esistenza. Grado di sviluppo dalle forze di produzione, stato dei rapporti di produzione: ecco quali sono ormai i concetti fondamentali di Marx. Se la « società civile » gli indicava il luogo (qui è il punto da approfondire...) bisogna confessare che essa non gliene forniva la materia. Ma dove si trova tutto ciò in Hegel?
Quanto allo Stato, è fin troppo facile dimostrare che non ha più in Marx lo stesso contenuto che in Hegel. Non soltanto, certo, perché lo Stato non può più essere la « realtà dell'Idea » ma anche e soprat­tutto perché lo Stato è pensato sistematicamente come uno strumento di coercizione al servizio della classe dominante degli sfruttatori. An­che in questo caso, sotto la « descrizione » e la sublimazione degli at­tributi dello Stato, Marx scopre un nuovo concetto, presentito prima di lui fin dal XVIII secolo (Longuet, Rousseau, ecc.), ripreso anche da Hegel nella Filosofia del diritto (che ne fece un « fenomeno » dell'Astu­zia della Ragione di cui lo Stato è il trionfo: l'opposizione tra povertà e ricchezza) e largamente utilizzato dagli storici del 1830: il concetto di classe sociale direttamente connesso con i rapporti di produzione. Questo intervento di un nuovo concetto, il rapporto in cui viene messo con un concetto base della struttura economica, ecco qualcosa che rivo­luziona da capo a fondo l'essenza dello Stato, il quale ormai non è più sopra i raggruppamenti ma al servizio della classe dominante; il quale non ha più come missione di adempiersi nell'arte, nella religione, e nel­la filosofia, ma di mettere queste al servizio degli interessi della classe dominante, di costringerle anzi, a costituirsi in funzione delle idee e dei temi che esso rende dominanti; il quale cessa quindi di essere la « verità » della «società civile», per diventare, non la « verità di» qualcos'altro, neppure dell'economia, ma lo strumento d'azione e di do minazione di una classe sociale, ecc.
E non sono soltanto i termini che cambiano: cambiano anche i loro rapporti.
Non si deve credere che si tratti di una nuova distribuzione tecnica delle parti imposta dal moltiplicarsi dei nuovi termini. In che modo si raggruppano infatti questi nuovi termini? Da una parte la struttura (base economica: forze di produzione e rapporti di produzione); dall'al­tra la sovrastruttura (lo Stato e tutte le forme giuridiche, politiche e ideologiche). Si è visto tuttavia che si poteva tentare di mantenere tra questi due gruppi di categorie lo stesso rapporto hegeliano (imposto da Hegel alle relazioni tra società civile e Stato): un rapporto da essenza a fenomeno sublimato nel concetto di « verità di... ». Così in Hegel lo Stato è la «verità » della società civile, la quale non è, grazie al giuoco dell'Astuzia della Ragione, che il suo fenomeno, adempiuto in esso. Ora in un Marx che verrebbe cosi ridotto alla statura di un Hobbes o di un Locke, la società civile potrebbe anche non essere altro che la « verità » dello Stato, suo fenomeno che un'Astuzia della Ragione Economica metterebbe allora al servizio di una classe: la classe dominante. Sfortu­natamente per questo schema troppo puro, non è cosi. In Marx la tacita identità (fenomeno-essenza-verità di...) di economia e politica scompare a beneficio di una nuova concezione dei rapporti tra le istanze determinanti nel complesso struttura-sovrastruttura che costituisce l'essenza di ogni formazione sociale. Che questi rapporti specifici tra struttura e sovrastruttura meritino ancora di essere teoricamente elaborati e inda­gati, non c'è dubbio. Tuttavia Marx ce ne dà in mano « gli estremi » e ci dice che è in mezzo ad essi che dobbiamo cercare: da una parte, la determinazione in ultima istanza ad opera del modo di produzione (l'economia), dall'altra la relativa autonomia delle sovrastrutture e la loro ef­ficacia specifica. Con questo Marx rompe chiaramente con il principio hegeliano della spiegazione attraverso la coscienza di sé (l'Ideologia) ma anche col tema hegeliano fenomeno-essenza-verità di... Abbiamo ve­ramente a che fare con un rapporto nuovo tra termini nuovi.
Ascoltiamo il tardo Engels rimettere, nel '90, le cose a punto con­tro i giovani « economisti » che invece non hanno capito che si trat­tava d'un nuovo rapporto 6. La produzione è il fattore determinante, ma solo «in ultima istanza». «Né Marx né io abbiamo affermato di più». Chi « forzerà questa frase » per farle dire che solo il fattore economico è quello determinante « la trasformerà in una frase vuota, astratta, assur­da». E spiegare ancora: «La situazione economica è la base, però i diversi . elementi della sovrastruttura, le forme politiche della lotta di classe e t suoi risultati, le costituzioni promulgate, una volta vinta la battaglia, dalla classe vittoriosa, ecc., le forme giuridiche e persino il riflesso di tut­te queste lotte reali nel cervello dei partecipanti, teorie politiche, giuridi­che, filosofiche, concezioni religiose e loro ulteriore evoluzione in siste­mi dogmatici, esercitano anch'esse la loro azione nelle lotte storiche e, in molti casi, ne determinano in modo preponderante la forma...». Bi­sogna prendere questa parola « forma » in senso forte e farle designare qualcosa di completamente diverso dal formale. Ascoltiamo ancora En­gels: « Lo Stato prussiano sorse e si sviluppò per l'azione di cause sto­riche e, in ultima istanza, economiche. Difficilmente però si potrà affer­mare senza pedanteria che, tra i numerosi staterelli della Germania set­tentrionale, proprio il Brandeburgo fosse destinato per necessità eco­nomiche e non anche per altri fattori (innanzi tutto per il fatto che, grazie al possesso della Prussia, aveva a che fare con i problemi polac­chi e quindi era implicato in relazioni internazionali, decisive del resto nella formazione del potere della Casa d'Austria) a diventare la grande potenza in cut si è incarnata la differenza economica, linguistica e anche, dopo la Riforma, religiosa tra Nord e Sud... » 7.

Eccoci davanti ai due estremi: l'economia determina, ma in ultima istanza (alla lunga, come dice spesso Engels), il corso della storiai Questo corso però, si « afferma » attraverso il mondo delle forme mul| tiple della sovrastruttura, delle tradizioni locali2 e delle circostanze internazionali. Non mi soffermo qui sulla soluzione teorica proposta da Engels al problema dei rapporti tra il fattore economico determinante in ultima istanza, e le determinazioni proprie imposte dalle sovrastrut­ture, dalle tradizioni nazionali, e dagli eventi internazionali. A me pre­me solo porre l'accento su tutto questo accumularsi di determinazioni efficaci (derivate dalle sovrastrutture e dalle circostanze particolari, na­zionali e internazionali) sul fattore determinante in ultima istanza, il fattore economico. Qui, mi sembra, può chiarirsi l'espressione di con­traddizione surdeterminata che proponevo, qui, perché allora non ab­biamo più il fatto puro e semplice dell'esistenza della surdeterminazio-ne, ma l'abbiamo riportata, almeno nell'essenziale e anche se il nostro procedere è ancora indicativo, ai suoi fondamenti. Questa surdetermina-zione diventa inevitabile e pensabile non appena si riconosce l'esistenza ' reale, in gran parte specifica e autonoma, irriducibile quindi a puro fe­nomeno, delle forme della sovrastruttura e della congiuntura nazionale e internazionale. Bisogna allora andare fino in fondo e dire che questa surdeterminazione non dipende da situazioni apparentemente straordi­narie o aberranti della storia (per esempio la Germania) ma è univer­sale; che mai la dialettica economica opera allo stato puro, che mai nella storia si vedono quelle istanze che sono le sovrastrutture ecc., farsi ri­spettosamente da parte, quando hanno fatto la loro opera o dissolversi come puro fenomeno per lasciare che avanzi sulla strada regale della dialettica sua maestà l'Economia perché i Tempi sarebbero venuti. L'ora solitaria dell'«ultima istanza» non suona mai, né al primo momento né all'ultimo.
Insomma l'idea di una contraddizione « pura e semplice », e non surdeterminata è, come dice Engels a proposito della « frase » economista, « una frase vuota, astratta e assurda ». Che possa servire da mo­dello pedagogico o piuttosto che abbia potuto, a un certo momento preciso della storia, servire da mezzo polemico e pedagogico, non fissa per sempre il suo destino. Alla fin fine i sistemi pedagogici cambiano, eccome, nella storia. Sarebbe ora di fare uno sforzo per elevare la peda­gogia all'altezza delle circostanze, ossia dei bisogni storici. Ma chi non vede che questo sforzo pedagogico ne suppone un altro schiettamente teorico? Se infatti è vero che Marx ci dà principi generali ed esempi concreti (Il 18 brumaio, La guerra civile in Francia, ecc.), se è vero che tutta la pratica politica della storia del movimento socialista e comu­nista costituisce una sconfinata riserva di « protocolli di esperienze » concrete, bisogna pur dire che la teoria dell'efficacia specifica delle so­vrastrutture e delle altre « circostanze » resta in gran parte da elabora­re e, prima della teoria della loro efficacia, o contemporaneamente (giacché attraverso l'indagine sulla loro efficacia si può cogliere la loro essenza), la teoria dell'essenza propria degli elementi specifici della so­vrastruttura. Questa teoria resta, come la carta dell'Africa prima delle grandi esplorazioni, una terra conosciuta nei suoi contorni, nei grandi rilievi e corsi d'acqua, ma il più delle volte, salvo qualche regione ben disegnata, sconosciuta nei particolari. Chi, dopo Marx e Lenin, ne ha davvero tentata e continuata l'esplorazione? Non conosco che Gram­sci 9. Eppure questo lavoro è indispensabile per arrivare se non altro a formulare qualche proposizione più precisa che non questa approssima­zione sul carattere, basato innanzi tutto sull'esistenza e sulla natura del­le sovrastrutture, della surdeterminazione della contraddizione marxista. Mi si consenta di fare ancora un'ultima riflessione. La pratica poli­tica marxista urta continuamente contro quella realtà che viene chiama­ta le « sopravvivenze ». Nessun dubbio: esse esistono davvero, se no non sarebbero cosi dure a morire... Lenin le combatteva entro il partito russo anche prima della rivoluzione. Inutile ricordare che dopo la rivoluzione, fino ancora ad oggi, hanno dato materia a una quantità di dif­ficoltà, battaglie e interpretazioni. Orbene che cosa è una « sopravvi­venza »? È di essenza « psicologica » o sociale? Si riduce alla soprav­vivenza di certe strutture economiche che la rivoluzione non ha potuto distruggere colle sue prime leggi: per esempio la piccola produzione (contadina principalmente, in Russia), che preoccupava tanto Lenin? O mette in causa anche altre strutture, politiche, ideologiche, ecc., costu­mi, abitudini, « tradizioni » magari, come la « tradizione nazionale », con i suoi tratti specifici? « Sopravvivenza »: ecco un termine cui si fa continuamente ricorso e che è ancora alla ricerca, non dirò del suo no­me (ne ha uno), ma del suo concetto. Ebbene, sostengo che per dargli il concetto che merita (e che ha ben meritato!) non ci si può acconten­tare di un vago hegelianismo del «superamento» e della «conservazione-di-ciò-che-è-negato-nella-negazione-stessa» (ossia della negazione della ne­gazione)... Infatti, se ritorniamo ancora un momento a Hegel, costatia­mo che la sopravvivenza del passato come « superato » (aufgehoben) si riduce semplicemente alla modalità del ricordo che non è d'altronde che l'inverso dell'anticipazione, ossia la stessa cosa. Come infatti fin dall'al­ba della Storia umana, nei primi balbettamenti dello Spirito orientale, gioiosamente prigioniero delle gigantesche figure del cielo, del mare e del deserto, e più tardi del suo bestiario di pietra, si tradiva già il pre­sentimento inconscio delle future realizzazioni dello Spirito assoluto, cosi in ogni istante del Tempo, il passato sopravvive a se stesso nella forma del ricordo di ciò che fu, ossia della promessa sussurrata del suo presente. Ecco perché il passato non è mai opaco e neppure è un osta­colo. È sempre digeribile, perché digerito in anticipo. Roma può ben re­gnare su un mondo impregnato di Grecia: la Grecia «superata» so­pravvive in quelle memorie oggettive che sono i templi riprodotti, la religione assimilata, la filosofia ripensata. Essendo già Roma senza sa­perlo quando si ostinava a morire per dischiudere il suo avvenire ro­mano, non è mai d'intralcio a Roma in Roma. Ecco perché il presente può nutrirsi delle ombre del proprio passato, proiettarle persino davan­ti a sé, come quelle grandi effigie della Virtù Romana che aprirono ai giacobini la strada della Rivoluzione e del Terrore. Gli è che il passato non è mai altro che il presente stesso cui esso non fa che ricordare quel­la legge d'interiorità che è il destino di ogni Divenire Umano.
Ma questo basta, penso, a fare capire che il « superamento » mar­xiano, per quel tanto di senso che questo termine può ancora avere (e, a dire il vero, non ha nessun senso rigoroso) non ha niente a che vedere con questa dialettica del confort storico; che il passato è tutt'altro che un'ombra, anche « oggettiva »: è invece una realtà strutturata terribil­mente positiva e attiva come lo sono, per il miserabile operaio di cui parla Marx, il freddo, la fame e la notte. Ma allora come pensare queste sopravvivenze} Come, se non partendo da un certo numero di realtà che in Marx sono appunto realtà, sia che si tratti di sovrastrutture, di ideologie, di « tradizioni nazionali », e persino di costumi, di « spirito » di un popolo, ecc.? Come, se non partendo da questa surdeterminazione di ogni contraddizione e di ogni elemento costitutivi di una società? Essa fa si, primo, che una rivoluzione nella struttura non modifica ipso facto, in un battibaleno (eppure dovrebbe farlo se la determinazione da parte del fattore economico fosse l'unica determinazione) le sovrastrut­ture esistenti e in special modo le ideologie, giacché queste hanno, in quanto tali, una consistenza sufficiente per sopravvivere a se stesse fuo­ri del contesto immediato della loro vita e persino per ricreare, « secer­nere » per un certo tempo, condizioni d'esistenza di sostituzione; se­condo, che la nuova società, uscita dalla rivoluzione, può, o per le for­me peculiari della sua nuova sovrastruttura o per « circostanze » speci­fiche (nazionali, internazionali) provocare essa stessa la sopravvivenza oisia la riattivazione degli elementi antichi. Questa riattivazione sareb­be propriamente inconcepibile in una dialettica priva di surdetermina­zione. Per esempio, per non eludere la questione più scottante, mi sem­bra che quando ci si domanda come abbia potuto il popolo russo, cosi generoso e fiero, sopportare su cosi vasta scala i crimini della repres­sione stalinista, come abbia potuto addirittura il partito bolscevico tol­lerarli, senza parlare poi dell'ultimo interrogativo: come ha potuto un dirigente comunista ordinarli?, bisogna rinunciare a ogni logica in chia­ve di « superamento » oppure rinunciare anche a iniziare il discorso. Ma è chiaro che anche qui, dal punto di vista della teoria, resta molto da fare. Non parlo soltanto dei lavori storici che sono la base di tutto: ma poiché sono la base di tutto parlo di ciò che costituisce la base anche dei lavori storici che si vogliono marxisti, il rigore: una concezione ri­gorosa dei concetti marxisti, delle loro implicazioni e del loro sviluppo; una ricerca e una concezione rigorose di ciò che è esclusivamente loro, ossia di ciò che li distingue per sempre dai loro fantasmi.
È più che mai importante, oggi, rendersi conto che uno dei primi fantasmi è proprio l'ombra di Hegel. Bisogna gettare un po' più di luce su Marx perché questo fantasma ritorni nella notte o, il che fa tutt'uno, un po' più di luce marxista su Hegel stesso. Solo cosi sfuggiremo al «rovesciamento», ai suoi equivoci e alle sue confusioni.


Giugno-luglio 1962


 

 

 

 

 

Annesso

 

 

Vorrei soffermarmi un momento su un passo della lettera di Engels a Bloch che nel testo che precede ho lasciato deliberatamente in disparte. Infatti questo passo, che riguarda il tentativo di Engels di dare una soluzione teorica fondata al problema della determinazione « in ultima istanza » da parte del fattore economico, è in realtà indipendente dalle tesi marxiste che Engels oppone al dogmatismo « economista ».
Si tratta, certo, di una semplice lettera. Ma siccome costituisce un documento teorico decisivo nel rifiuto dello schematismo e dell'econo­mismo, siccome ha già avuto e può ancora avere, per questa ragione, un'importanza storica, è meglio non dissimulare che l'argomentazione engelsiana non risponde più alle nostre esigenze critiche.
La soluzione di Engels introduce uno stesso modello a due diversi livelli di analisi.


A) Primo livello: Engels ha già dimostrato che le sovrastruttu­re, lungi dall'essere puri fenomeni dell'economia, hanno una propria ef­ficacia: « In molti casi questi fattori determinano in modo "preponde­rante" la forma » (delle lotte storiche). Il problema che nasce è allora: come pensare in queste condizioni l'unità dell'efficacia reale, ma rela­tiva, delle sovrastrutture, e del principio determinante « in ultima istan­za » dell'economia? Come pensare il rapporto di queste diverse effi­cacie? Come fondare dentro questa unità la funzione di « ultima istan­za » del fattore economico? Risposta di Engels: « Vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori {le sovrastrutture) in mezzo ai quali il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessarió attraverso la infinita massa dei casi accidentali (ossia di cose e di avve­nimenti il cui reciproco legame intimo è tanto lontano o tanto difficile a dimostrarsi che possiamo considerarlo come inesistente e trascurar­lo) ». Ecco dunque il modello esplicativo: « i diversi elementi della so­vrastruttura », agendo e reagendo gli uni sugli altri, producono un'infi­nità di effetti. Questi effetti sono paragonabili a un'infinità di casi acci­dentali (il cui numero è infinito e il cui legame intimo è cosi remoto e perciò cosi difficile a conoscersi, da essere trascurabile), attraverso i quali « il movimento economico » riesce ad affermarsi. Gli effetti sono i casi accidentali, il movimento economico è la necessità, la loro neces­sità. Lascio per il momento da parte questo modello: caso-necessità e i suoi presupposti. Quello che è particolare in questo testo è la funzione attribuita ai diversi elementi della sovrastruttura. Sembrerebbe come se fossero, una volta scattato tra loro il sistema azione-reazione, deputati a costituire l'infinita diversità degli effetti (cose e avvenimenti, dice Engels) tra i quali, come tra altrettanti casi, l'economia traccerà la sua strada sovrana. In altre parole, gli elementi della sovrastruttura hanno sì un'efficacia, ma questa efficacia si disperde in qualche modo all'infinito, nell'infinità degli effetti, dei casi, i cui legami intimi, quando si sarà raggiunta quest'estremità infinitesimale, si potranno considerare come inintelligibili (troppo difficili a dimostrarsi) e perciò inesistenti. La dispersione infinitesimale ha dunque come effetto di dissolvere nel­l'esistenza microscopica l'efficacia riconosciuta alle sovrastrutture nella loro esistenza macroscopica. Certo questa inesistenza è di ordine episte­mologico (si può cioè «considerare come» inesistente il legame micro­scopico; non è detto che sia inesistente: è inesistente per la conoscenza). Ma comunque stiano le cose, rimane il fatto che la necessità macrosco­pica « finisce per affermarsi », ossia finisce per prevalere, proprio den­tro questa diversità microscopica infinitesimale.
Qui bisogna fare due osservazioni:
Prima osservazione. In questo schema non abbiamo a che fare con una vera soluzione, abbiamo a che fare solo con l'elaborazione di una
parte della soluzione. Noi impariamo che le sovrastrutture, agendo-reagendo reciprocamente, traducono la loro efficacia in « avvenimenti e cose » infinitesimali, ossia in altrettanti « casi » accidentali. E vediamo che la soluzione deve potere essere fondata a livello di questi casi, poi­ché sono questi a introdurre il controconcetto della necessità (econo­mica) come determinante in ultima istanza. Ma questa non è che una mezza soluzione giacché il rapporto tra casi accidentali e necessità non è né teoricamente fondato né esplicitato; giacché (ed è per l'appunto negare questo rapporto e il suo problema) Engels presenta inoltre la necessità come del tutto esterna a questi casi (simile a un movimento che finisce per affermarsi in mezzo a un'infinità di casi). Ma allora non sappiamo se questa necessità è appunto la necessità di questi casi e. se lo è, perché lo è. Il problema resta qui in sospeso.
Seconda osservazione. Stupisce vedere Engels presentare qui le forme della sovrastruttura come l'origine di una microscopica infinità di eventi il cui legame interno è inintelligibile (e quindi trascurabile). Infatti da un certo punto di vista si potrebbe dire altrettanto delle forme dell'infrastruttura (ed è vero che le circostanze minute di avvenimenti economici microscopici potrebbero essere dette inintelligibili e trascu­rabili!). Ma soprattutto queste forme, come tali, sono sì principi di real­tà, ma anche principi d'intelligibilità dei loro effetti. Sono forme perfettatamente conoscibili e, a questo titolo, sono la ragione trasparente degli eventi che dipendono da esse. Come è possibile che Engels sorvoli tanto facilmente su di loro, sulla loro essenza e la loro funzione, per non con­siderare se non la microscopica polvere dei loro effetti trascurabili e inintelligibili? Più precisamente, questa polverizzazione dei casi non è assolutamente contraria alla funzione reale ed epistemologica di queste forme? E, poiché Engels l'afferma, che cosa ha invece fatto Marx nel 18 brumaio se non un'analisi dell'azione e delle reazioni reciproche di que­sti « diversi fattori »? un'analisi perfettamente intelligibile dei loro ef­fetti? Ma Marx è potuto arrivare a questa « dimostrazione » solo non confondendo gli effetti storici di questi fattori con i loro effetti micro­scopici. Infatti le forme della sovrastruttura sono si causa di un'infinità di eventi, ma non tutti questi eventi sono storici (cfr. Voltaire: tutti i figli hanno un padre, ma non tutti i « padri » hanno figli); lo sono solo quelli che i suddetti « fattori » assumono, scelgono, producono insom­ma come tali (per non fare che un caso: ogni uomo politico, insediato al governo, fa in funzione della sua politica e in funzione anche dei suoi mezzi, una certa scelta tra gli avvenimenti e li promuove di fatto al grado di avvenimenti storici, se non altro, per esempio, reprimendo una manifestazione). A questo primo livello, direi dunque per riepilogare che: 1) non abbiamo ancora una vera soluzione; 2) il « tradursi » dell'efficacia delle forme della sovrastruttura (di cui trattiamo qui) nell'infinità degli effetti microscopici (casi accidentali inintelligibili) non cor­risponde alla concezione marxista della natura delle sovrastrutture.
B) Secondo livello: Difatti al secondo livello della sua analisi vediamo Engels abbandonare il caso delle sovrastrutture e applicare il suo modello a un altro oggetto, che questa volta gli corrisponde: il combinarsi delle singole volontà. Lo vediamo cosi rispondere al problema, dandoci il rapporto tra casi e necessità, cioè fondandolo. « La storia è fatta in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dal conflitto di moltissime volontà singole, ognuna delle quali è a sua volta determi­nata cosi com'è da una somma di condizioni particolari di esistenza. Esi­ste quindi una innumerevole quantità di forze che si contrastano, un nu­mero infinito di parallelogrammi di forze da cui esce una risultante — l'avvenimento storico — che può essere considerata a sua volta co­me il prodotto di una forza agente come un tutto, in modo inconscio e cieco. Infatti ciò che ogni singolo vuole è contrastato da ogni altro sin­golo individuo e quello che ne risulta è qualcosa che nessuno ha volu­to. Cosi la storia si è svolta sinora alla stregua di un processo naturale soggetta anche, sostanzialmente, alle sue stesse leggi di sviluppo. Ma dal fatto che le diverse volontà — ciascuna delle quali vuole ciò che la spin­gono a volere la sua costituzione fisica, le circostanze esterne, e in ulti­ma istanza le circostanze economiche {circostanze sue personali o circo­stanze sociali generali) — non raggiungono quello che vogliono, ma si fondono in una media generale, in una risultante comune, non si ha il diritto dì concludere che siano uguali a zero. Al contrario, ciascuna con­tribuisce alla risultante e, quindi, è inclusa in essa ».
Mi scuso per questa lunga citazione ma dovevo riportarla per in­tero perché essa contiene proprio la risposta al nostro problema. Qui, infatti, la necessità è giustificata a livello dei casi stessi, è fondata sui casi stessi, come la loro risultante globale: è dunque, come si voleva, la loro necessità. La risposta che mancava alla prima analisi l'abbiamo ap­punto qui. Ma a quale condizione l'abbiamo ottenuta? alla condizione di avere cambiato di oggetto, alla condizione di partire, non più dalle so­vrastrutture, dalla loro interazione, e infine dai loro effetti microsco­pici, ma dalle volontà singole, opposte e combinate nei loro rapporti di forza. Sembrerebbe dunque che il modello applicato all'efficacia delle sovrastrutture fosse stato davvero tratto dal suo vero oggetto, col quale abbiamo finalmente a che fare: il giuoco delle volontà singole. Si capi­sce che abbia potuto mancare il suo primo oggetto, che non era il suo, e che possa cogliere il secondo che è davvero il suo.
In che modo viene dunque fatta la dimostrazione? Abbiamo visto che poggia sul modello fisico del parallelogramma delle forze: le volontà sono altrettante forze che contrapponendosi a due a due, in una situa­zione semplice, daranno come risultante una terza forza, differente da ognuna e tuttavia comune a entrambe, e tale che ciascuna, benché non vi si riconosca, ne faccia tuttavia parte, vale a dire ne sia coautrice. Fin dal principio vediamo dunque apparire il fenomeno fondamentale della trascendenza della risultante in relazione alle forze componenti; doppia trascendenza anzi: rispetto al livello delle forze componenti e rispetto alla riflessione interna di queste forze (ossia alla loro coscienza poiché si tratta qui di volontà). La qual cosa implica: 1) che la risultante sarà di un livello del tutto diverso dal livello di ogni singola forza (più ele­vato se esse si sommano, più basso se si contrappongono); 2) che la risultante sarà, nella sua essenza, inconscia (inadeguata alla coscienza di ogni volontà — e al contempo una forza senza soggetto, forza oggettiva ma, fin dall'inizio, forza di nessuno ). Ecco perché, al punto finale, di- venta questa risultante globale che può essere « considerata a sua volta come il prodotto di una forza agente come uh tutto, in modo inconscio e cieco ». È chiaro che si sono così date le basi teoriche nell'atto stesso di generarla, a quella forza in ultima istanza trionfante che è la deter­minazione dell'economia, questa volta non più esterna ai casi accidentali in mezzo ai quali si affermava, ma considerata come essenza interna di questi casi stessi.
Vorrei dimostrare: 1 ) che ora abbiamo davvero a che fare col vero oggetto del modello engelsiano; 2) che grazie a questa adeguazione En­gels risponde effettivamente all'interrogativo che si pone e ci dà real­mente la soluzione del problema posto; 3) che problema e soluzione non esistono se non in funzione dell'adeguarsi del modello al suo ogget­to; 4) che siccome questo oggetto non esiste, non esistono né il pro- blema né la soluzione; 5) che bisognerebbe cercare la ragione di tutta questa vana costruzione.
Sorvolo volentieri sul riferimento di Engels alla natura. Siccome il modello che si è scelto è anch'esso fisico (se ne trova il primo esempio in Hobbes, poi innumerevoli edizioni ulteriori, ricordo in special modo quella di Holbach, particolarmente pura), nulla di strano nel fatto che possa rinviarci dalla storia alla natura. Non è una dimostrazione, è una tautologia. (Avverto che qui si tratta solo del modello utilizzato e che evidentemente in questo discorso non è in questione la dialettica della natura, per la semplice ragione che essa dipende da un problema tutto diverso.) Dal punto di vista epistemologico una tautologia vale zero: può tuttavia avere una funzione edificante. È rassicurante potere fare riferimento diretto alla natura, la natura non si discute. (Hobbes lo di­ceva già: gli uomini si prendono per i capelli o si ammazzano per la politica, ma si intendono in pieno sull'ipotenusa e sulla caduta dei gravi.)
Quella che vorrei prendere in esame attentamente è proprio l'argo­mentazione stessa di Engels, quest'argomentazione che realizza, a prima vista, un accordo cosi perfetto tra il modello e il suo oggetto. Orbene che cosa vediamo? Un accordo a livello immediato tra modello e ogget­to. Ma al di qua e al di là un accordo postulato, non dimostrato, e al suo posto, l'indeterminazione, ossia dal punto di vista della conoscenza, il vuoto.
Al di qua. L'evidenza del contenuto che ci colpisce quando ci rap­presentiamo il parallelogramma delle forze (le volontà singole), cessa non appena ci si pone (e Engels se lo pone) il problema dell'origine (quindi della causa) delle determinazioni di queste volontà individuali. Allora siamo rinviati all'infinito. « Ciascuna è quella che è per una somma di condizioni particolari di esistenza ». Ciascuna volontà singola, semplice quando la si considera come un inizio assoluto, diventa il prodotto di un'infinità di circostanze microscopiche dipendenti dalla sua particolare « costituzione fisica » e dalle circostanze « esterne », dalle « circostanze personali proprie » « o » dalle « circostanze sociali generali », « in ulti­ma istanza » dulie circostanze esterne « economiche »; il tutto enunciato alla rinfusa e in modo tale che accanto a determinazioni meramente con­tingenti e individuali figurano anche determinazioni generali (e in parti­colare ciò di cui appunto si discute: le circostanze economiche (deter­minanti in ultima istanza). È chiaro che Engels mischia qui due tipi di spiegazione.
Primo tipo: un tipo non marxista, ma adeguato al suo oggetto pre­sente e alle sue ipotesi, la spiegazione attraverso l'infinità delle circo­stanze o dei casi (una forma che si trova già in Helvétius e in d'Hol-bach): questa spiegazione può avere un valore critico (nella misura, come era il caso già nei XVIII secolo, in cui essa era destinata, tra l'al­tro, a confutare ogni intervento divino), ma, dal punto di vista della conoscenza, è vuota. Tutto quello che ottiene è un'infinità senza conte­nuto, una generalizzazione astratta e a stento programmatica.
Secondo tipo: contemporaneamente però Engels fa intervenire un tipo di spiegazione marxista quando allinea tra le circostanze infinite (che sono per essenza microscopiche) quelle determinazioni al contempo generali e concrete che sono le circostanze sociali e le circostanze econo­miche (determinanti in ultima istanza). Ma questo tipo di spiegazione non corrisponde al suo oggetto perché rappresenta, all'origine, la solu­zione stessa che si tratta di produrre e di fondare teoricamente (la ge­nerazione della determinazione in ultima istanza). Riepiloghiamo: o si rimane nell'oggetto e nel problema che si pone Engels, e allora siamo di fronte all'infinito e all'indeterminato (dunque al vuoto epistemologico); oppure decidiamo di prendere come origine la soluzione (piena di contenuto) che è appunto quello su cui si discute. Ma allora non siamo più né nell'oggetto né nel problema.
Al di là. Ci ritroviamo nella medesima alternativa. Infatti, posto il primo parallelogramma, abbiamo solo una risultante formale che non è uguale alla risultante definitiva. La risultante definitiva sarà la risul­tante di un'infinità di risultanti, ossia il prodotto di un'infinita prolife­razione di parallelograrnmi. Anche in questo caso, o si fa credito all'infi­nito (ossia all'indeterminato, ossia al vuoto epistemologico) perché pro­duca nella risultante finale la risultante che si vuole dedurre: quella che coinciderà con la determinazione in ultima istanza dell'economia, ecc.; il che significa che si ha fiducia nel vuoto per produrre il pieno, (e per esempio, se ci si attiene al modello formale puro della composizione del­le forze, non sfugge ad Engels che le suddette forze in campo possono annullarsi oppure contraddirsi... in tali condizioni chi ci prova che la risultante globale non sarà, per esempio, uguale a zero, o comunque, chi ci prova che sarà appunto la risultante che si vuole, quella economica e non un'altra, quella politica o quella religiosa? A questo livello formale non si ha nessuna assicurazione, di nessuna specie, sul contenuto delle risultanti di nessuna risultante). Oppure si introduce surrettiziamente, nella risultante finale, il risultato che si aspetta, in cui si ritrova sempli­cemente quella determinazione macroscopica che si era fin dall'inizio fatta scivolare in mezzo alle varie determinazioni microscopiche nel con­dizionare la volontà singola: l'economia. Sono obbligato a ripetere qui quello che ho detto dianzi: o si resta nel problema che Engels pone al suo oggetto (le volontà singole), ma allora si cade nel vuoto epistemolo­gico dell'infinità dei parallelogrammi e delle loro risultanti; oppure si dà semplicemente la soluzione marxista ma allora non è più fondata teoricamente e non valeva la pena cercarla.
Il problema che si pone è dunque il seguente: perché tutto è cosi chiaro e tutto concorda cosi bene a livello delle volontà singole, e per­ché tutto diventa vuoto o tautologico al di qua e al di là di esse? Come è possibile che, se ben posto, corrispondente cosi bene all'oggetto in cui è posto, il problema sia incapace di soluzione non appena ci si allontani dal suo oggetto iniziale? Domanda che resta l'enigma degli enigmi fin­tanto che non si nota che è proprio il suo oggetto iniziale a imporre in­sieme l'evidenza del problema e l'impossibilità della sua soluzione.
Tutta la dimostrazione di Engels è infatti legata a quell'oggetto particolarissimo che sono le volontà singole, messe in rapporto secondo il modello fisico del parallelogramma delle forze. Questo è il suo vero presupposto e metodologico e teorico. Qui effettivamente il modello ha un senso: gli si può dare un contenuto e lo si può adoperare. Esso ci « descrive » rapporti umani bilaterali di rivalità, di contrapposizione o di cooperazione apparentemente « elementari ». A questo livello si può avere l'impressione di raccogliere in unità reali e discrete, visibili anche, l'infinita diversità anteriore delle cause microscopiche. A questo livello il caso si fa uomo, tutto il movimento anteriore si fa consapevole. Tutto comincia qui ed a partire di qui si può iniziare il lavoro deduttivo. Ma disgrazia vuole che questa base cosi sicura non serva da fondamento a niente, che questo principio cosi chiaro non sfoci che nel buio, salvo re­stare fisso in se stesso e ripetere, come immobile dimostrazione di tutto ciò che ci si aspetta da esso, la propria evidenza. Ma qual è appunto que­sta evidenza? Bisogna riconoscere che questa evidenza non è altro che quella dei presupposti dell'ideologia borghese classica e dell'economia politica borghese. Da che cosa parte infatti questa ideologia classica (sia che si tratti di Hobbes nella composizione dei conatus, sia di Locke e di Rousseau nella generazione della volontà generale; sia di Helvétius o d'Holbach nella produzione dell'interesse generale, sia di Smith e Ri­cardo — i testi abbondano — nei comportamenti dell'atomismo), da che cosa parte, se non appunto dai mettere fronte a fronte queste famose volontà sìngole, che non sono affatto il punto di partenza della realtà, ma il punto di partenza per una rappresentazione della realtà, per un mito destinato a dare (in aeterno) un fondamento naturale (il che vuol dire appunto per l'eternità) agli obiettivi della borghesia? Se Marx cri­ticò così bene in questo esplicito presupposto il mito dell'homo oeconomicus, come può Engels riprenderlo cosi ingenuamente? Come può di­mostrarci se non attraverso una finzione ottimista quanto la finzione dell'economia borghese, attraverso una finzione più vicina a Locke e a Rousseau che a Marx, che la risultante delle volontà individuali e la risultante di queste risultanti, ha effettivamente un contenuto generale, incarna veramente la determinazione in ultima istanza dell'economia (penso a Rousseau che voleva a ogni costo che da un voto ben indiriz­zato, da volontà particolari divise le une dalle altre e composte assieme uscisse quella miracolosa Minerva: la volontà generale). Gli ideologi del XVIII secolo (Rousseau a parte) non domandavano ai loro presupposti teorici di produrre qualcosa di diverso da se stessi. Domandavano ad essi semplicemente di dare un fondamento ai valori che tali presupposti in­carnavano già e questo spiega perché, per loro, la tautologia avesse un senso, diversamente da Engels il quale vorrebbe invece ritrovare il con­trario dei presupposti stessi.
Ecco perché Engels nel suo testo riduce quasi a zero le sue pretese. Che cosa ci resta allora di questo schema e di questa « dimostrazione »? Questa frase che, dato tutto il sistema delle risultanti, la risultante finale contiene qualche cosa delle singole volontà originarie: « ognuna con­tribuisce alla risultante e, quindi, è inclusa in essa ». È un pensiero che in un altro contesto potrebbe servire a rassicurare certi spiriti inquieti della loro presa sulla storia o, una volta morto Dio, inquieti sul ricono­scimento della loro personalità storica. Direi quasi che è un buon pen­siero disperato, un pensiero che può nutrire disperazioni, vale a dire spe­ranze. (Non è un caso che Sartre, sulla stessa base del « problema » di Engels, sul problema del « fondamento » e della genesi della necessità « senza autore » della storia, persegua lo stesso oggetto con argomenti altrettanto filosofici benché d'altra ispirazione.)
Che cosa ci resta d'altro? Una frase in cui la risultante finale non è più la determinazione economica a lunga scadenza, ma... « l'avveni­mento storico ». Dunque le volontà particolari producono eventi storici! Ma quando si considerano le cose dappresso, si può a estremo rigore ammettere che lo schema ci possa anche dare la possibilità dell' avveni­mento (sono di fronte degli uomini: succede sempre qualche cosa, o niente, il quale niente è pur sempre un avvenimento: attendere Godot) ma assolutamente no la possibilità dell'avvenimento storico, assoluta­mente no la ragione che distingue nell'infinità delle cose che avvengono agli uomini nei loro giorni e nelle loro notti, anonimi a forza di essere personali, l'avvenimento storico come tale. Il fatto è che bisognerebbe (per una volta!) porre il problema all'inverso o piuttosto diversamente. Mai infatti si darà ragione di un avvenimento storico, — nemmeno in virtù di quella legge che fa mutare la quantità in qualità — se si pre­tende di generarla dalla possibilità (illimitata) dell' avvenimento non sto­rico. Ciò che fa si che tale avvenimento sia storico, non è il fatto che sia un avvenimento, ma il suo inserirsi in forme anch'esse storiche, nelle forme della « storicità » come tale (le forme della struttura e della so­vrastruttura), forme che non hanno nulla di quello scadente infinito in cui naviga Engels quando smette di rimanere aderente al modello origi­nale, forme invece perfettamente definibili e conoscibili (conoscibili, Marx l'ha ripetuto, e Lenin ancora dopo di lui, attraverso discipline scientifiche empiriche ossia non filosofiche). Un avvenimento che rientra in queste forme, che ha di che rientrare in queste forme, che è un conte­nuto possibile per queste forme, che le modifica, che le riguarda diret­tamente, le consolida o le mette a repentaglio, che le provoca, o che esse provocano, o anche scelgono e selezionano, ecco un avvenimento storico. Sono dunque queste forme a condizionare tutto, e a detenere in antici­po la soluzione del falso problema che si era posto Engels (e a dire il vero, non si tratta neppure di detenere la soluzione, poiché non c'è mai stato altro problema se non quello che appunto Engels si era posto movendo da presupposti puramente ideologici); giacché non c'è mai stato insomma nessun problema.
Certamente, c'erano tutte le apparenze di un problema per l'ideolo­gia borghese: si trattava di ritrovare il mondo della storia movendo da principi {l'homo oeconomicus e le sue vicende politiche e filosofiche) che, lungi dall'essere principi scientifici di spiegazione erano al contra­rio semplicemente la proiezione della sua immagine del mondo, delle sue aspirazioni, del suo programma ideale (un mondo che fosse riduci­bile (alla sua essenza: la volontà cosciente degli individui, le loro opere e le loro azioni private...). Ma dopo che questa ideologia, senza cui questo problema non si sarebbe mai posto, fu spazzata via da Marx, come potrebbe restare ancora il problema che essa si poneva, ossia come potrebbe restare un problema?
Per concludere questo lungo commento mi sia consentito ancora fare due osservazioni: una di ordine epistemologico, l'altra di ordine
storico.
Farò osservare, riflettendo sul modello di Engels, che ogni discipli­na scientifica si stabilisce a un certo livello, precisamente al livello in cui i suoi concetti possono ricevere un contenuto (senza di che non sono il concetto di niente, ossia non sono concetti). Questo è il livello della teoria della storia di Marx: il livello dei concetti di struttura, di sovra­struttura e di tutte le loro specificazioni. Ma quando la medesima disci­plina scientifica pretende di produrre, partendo da un livello che non è il suo, partendo da un livello che non costituisce l'oggetto di nessuna conoscenza scientifica (come, nel nostro caso, la genesi delle volontà individuali partendo dall'infinità delle circostanze, e la genesi della risul­tante finale partendo dall'infinità dei patallelogrammi...) la possibilità del proprio oggetto e dei concetti che gli corrispondono, allora cade nel vuoto epistemologico, oppure, cosa che ne è la vertigine, nel pieno filo­sofico. È il destino del tentativo cui si abbandona Engels nella lettera a Bloch: e ci si accorge che è impossibile distinguere il vuoto epistemo­logico dalla vertigine filosofica, poiché sono un'unica e medesima cosa. In questo testo preciso, con argomenti desunti (e questa è alla fin fine la loro sola cauzione, d'ordine esclusivamente morale) dai modelli delle scienze naturali, nella forma loro propria, Engels è qui solo filosofo. Filosofico è l'uso del suo « modello » di base. Ma anche e prima di tutto, filosofico il suo intendimento. Insisto di proposito su questo punto giacché ne abbiamo un altro esempio recente, quello di Sartre, che si è anch'egli preoccupato di fondare filosoficamente (sotto questo rispetto ha su Engels il vantaggio di saperlo e di dirlo) i concetti epistemolo­gici del materialismo storico. E basta far riferimento a certe pagine della Critica della Ragione dialettica per vedere che, se rifiuta la rispo­sta di Engels e i suoi argomenti, Sartre ne approva però in fondo il ten­tativo. Non c'è tra loro che una divergenza di mezzi, ma su questo par­ticolare punto, sono uniti da un medesimo intento filosofico. Non si può sbarrare la strada a Sartre se non chiudendo quella che Engels gli apre.
C'è però allora da porsi il problema di questa tentazione filosofica che affiora in certi testi di Engels. Perché accanto ad intuizioni teoriche geniali si trovano in Engels esempi di questo ritorno indietro al di qua della critica marxista di ogni « filosofia »? La risposta a questo proble­ma non la possiamo avere che dalla storia dei rapporti che intercorrono tra il pensiero marxista e la « filosofia », e dalla nuova teoria filosofica (in senso non ideologico) che la scoperta di Marx portava in sé. Un pro­blema che non posso evidentemente affrontare qui. Ma forse bisogna cominciare col convincersi dell'esistenza di questo problema per avere la voglia e i mezzi di porlo correttamente, quindi di risolverlo.


 

 

 

Note


1. Sul « nocciolo » cfr. Hegel, Introduzione alla filosofia della storia, Vrin, trad. Gibelin, p. 38. I grandi uomini « vanno considerati al pari di eroi in quanto non si limitano ad attingere i loro scopi e la loro vocazione in un corso di avvenimenti calmo, ordinato, consacrato dal sistema vigente, ma anche a una fonte il cui contenuto è oscuro e non ancora arrivato all'esistenza attuale, nello spirito interno, ancora sotterraneo, che picchia contro il mondo esterno e lo spezza non essendo più il seme adatto a questo nocciolo». Variante interes­sante nella lunga storia del nocciolo, della polpa e del seme. Il nocciolo fa qui la parte del guscio, contenente un seme, il nocciolo ne è l'esterno, il seme l'interno. Il seme (il nuovo principio) finisce col mandare in briciole l'antico nocciolo che non gli va più bene (era il nocciolo dell'antico seme...), vuole un nocciolo che sia suo: nuove forme politiche, sociali, ecc. Ci si potrà rammentare di questo testo tra poco allorché si tratterà della dialettica hegeliana della storia.
2. Cfr. il Feuerbach di Engels. Non bisogna certamente prendere alla lettera tutte le formule di un testo, da un lato destinato a una grande diffusione popolare — e perciò, come Engels stésso non nasconde, abbastanza schematico — dal­l'altro redatto da un uomo che aveva vissuto, quarant'anni prima, la grande avventura _ intellettuale della scoperta del materialismo storico, ed era quindi pas­sato anch'egli attraverso certe forme filosofiche di coscienza, forme di cui inizia, a grandi tratti, la storia. In effetti questo testo ci offre una critica abbastanza interessante dell'ideologia di Feuerbach (Engels vede chiaramente che in Feuer­bach «la natura e l'uomo restano soltanto parole». E.S. p. 31) e offre inoltre una buona messa a punto dei rapporti tra marxismo e hegelianismo. Engels sotto­linea per esempio (il che mi sembra essenziale) la straordinaria capacità critica di Hegel nei confronti di Kant (p. 22), e dichiara testualmente che: « il metodo dialettico era inutilizzabile nella forma hegeliana» (p. 33}). Altra tesi fonda­mentale: lo sviluppo della filosofia non è filosofico; furono le « necessità pratiche della loro lotta » religiosa e politica a forzare i neohegeliani a opporsi al « sistema» di Hegel (p. 12); è il progresso delle scienze e dell'industria a mettere in sub­buglio le filosofie (p. 17). Sottolineiamo ancora il riconoscimento del profondo influsso di Feuerbach sulla Sacra famiglia (p. 13), ecc. Tuttavia quésto medesimo testo contiene formule che, prese alla lettera, ci cacciano in un vicolo cieco. Cosi il tema del « rovesciamento » è abbastanza vivo da ispirare a Engels questa con­clusione, bisogna dirlo, logica: « ...alla fin fine il sistema di Hegel, come_ metodo e contenuto non rappresenta altro che un materialismo rovesciato idealisticamente sulla testa » (p. 17). Se il rovesciamento di Hegel nel marxismo è veramente giustificato, bisogna pure che inversamente Hegel non sia che un materialismo in anticipo anch'esso capovolto: due negazioni affermano. Più oltre (p. 34) vediamo che questa dialettica hegeliana è inutilizzabile nella forma hegeliana appunto perché cammina sulla testa (l'idea, non il reale): « Ma in questo modo la dialettica stessa dell'idea non divenne altro che il riflesso cosciente del movimento dialettico del mondo reale, e cosi la dialettica hegeliana venne raddrizzata, o, per dirla più esatta­mente, mentre prima poggiava sulla testa, la si rimise di nuovo sui piedi ». For­mule evidentemente approssimative ma che, nella loro stessa approssimazione, met­tono l'accento su una difficoltà. Segnaliamo infine una singolare dichiarazione sulla necessità per ogni filosofo di costruire un sistema (p. 8: Hegel era « costretto a costruire un sistema... e questo deve, secondo le esigenze tradizionali, conclu­dersi con un genere qualunque di verità assoluta »), necessità « che nasce da un, bisogno insopprimibile dello spirito umano, il bisogno di superare tutte le con­traddizioni » (p. 10); e un'altra affermazione che spiega i limiti del materialismo di Feuerbach con la vita ritirata in campagna, e la conseguente solitudine e fossilizzazione (p. 21).

3. L'opuscolo di Mao Tse-dun (Sulla contraddizione), redatto nel 1937, con­tiene tutta una serie di analisi in cui la concezione marxista della contraddizione appare sotto una luce totalmente estranea alla prospettiva hegeliana. Invano si cercherebbero in Hegel i concetti essenziali di questo testo: contraddizione prin­cipale e contraddizione secondaria; aspetto principale e aspetto secondario della contraddizione; contraddizioni antagoniste e 'non antagoniste; legge della disu­guaglianza di sviluppo delle contraddizioni. Tuttavia il testo di Mao, ispirato alla lotta contro il dogmatismo nel partito cinese, resta generalmente descrittivo e per contropartita sotto certi aspetti astratto. Descrittivo: i suoi concetti corri­spondono ad esperienze concrete. Parzialmente astratto: i suoi concetti, nuovi e fecondi, sono presentati più come specificazioni della dialettica in generale, che come implicazioni necessarie della concezione marxista della società e della storia.

4. Lenin, Opere, t. XXIII, p. 400 (ed. francese). « Furono le condizioni oggettive accumulate dalla guerra imperialista che portarono l'umanità intera in un vicolo cieco e la misero di fronte al dilemma: o lasciare perire ancora milioni di uomini e annientare la civiltà europea, oppure passare il potere in tutti i paesi civili al proletariato rivoluzionario, compiere la rivoluzione socialista. » Lettera a J. Bloch 21 Settembre 1890 : « È colpa in parte di Marx e mia se talvolta i giovani attribuiscono al lato economico un'im­portanza maggiore di quanto non gli sia dovuta. Di fronte agli avversari dove­vamo sottolineare il principio essenziale da loro negato, e cosi non sempre trova­vamo il tempo, il luogo, l'occasione di dare il giusto posto agli, altri fattori che partecipano, all'azione reciproca». (Sulla rappresentazione engelsiana della deter-min'azione « in Ultima istanza » vedi l'Annesso, p. 97).
In quest'ordine di ricerche, vorrei citare le note che Gramsci consacra alla tentazione meccanicistica-fatalista nella storia del marxismo nel XIX secolo. (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, Einaudi, 1948, pp. 13-14). « Si può osservare come l'elemento deterministico, fatalistico, mecca­nicistico sia stato un "aroma" ideologico immediato della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti), resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere "subalterno" di determinati strati sociali.
« Quando non si ha l'iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l'identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata. "Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare, ecc." La volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di fina­lismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della prov­videnza ecc. delle religioni confessionali. Occorre insistere sul fatto che anche in tal caso esiste realmente una forte attività volitiva... ed è anzi da porre in rilievo come il fatalismo non sia che un rivestimento da deboli di una verità attiva e reale Ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità del determinismo meccanico, che, spiegabile come filosofia ingenua della massa e solo in quanto tale elemento intrinseco di forza, quando viene assunto a filosofia riflessa e coe­rente da parte degli intellettuali, diventa causa di passività, di imbecille auto-sufficienza... » Questa opposizione (« intellettuali » - « massa ») può sembrare strana sotto la penna di un teorico marxista. Bisogna però sapere che il concetto gramsciano di intellettuale è infinitamente più vasto del nostro, che non è esaurito dall idea che gli intellettuali si fanno di se stessi, ma dalla loro funzione sociale di organizzatori e dirigenti (più o meno subalterni).
Per questo Gramsci può scrivere:
"Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un' affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi, un partito potrà avere una maggiore o minore composizione d grado più alto o di quello più basso, non è ciò che importa: importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale » (Gli intellettuali el'organizzazione della cultura, Opere di A. Gramsci, Torino, Einaudi 1964 p 12)

6. F.Engels, Lettera a Bloch, 21 settembre 1890.

7. Engels aggiunge: « Raramente Marx ha scritto qualcosa in cui questa teoria non abbia la sua parte; Il 18 brumaio però è un esempio particolarmente eccel­ lente della sua applicazione. Nel Capitale vi si accenna spesso ». Cita anche l'' Antiduhring e il Feuerbach.

8. «.Anche le condizioni politiche, ecc., e persino la tradizione che influenza la mente degli uomini, esercitano una funzione... » (F. Engels, Lettera a Bloch, cit.).

9. I tentativi di Lukàcs, limitati alla storia della letteratura e della filosofia, mi sembrano contagiati da un hegelianismo vergognoso, come se Lukàcs volesse farsi assolvere da Hegel di essere stato l'allievo di Simmel e di Dilthey. Gramsci è di un'altra levatura. Le note e gli appunti dei suoi Quaderni del carcere pren­dono in esame tutti i problemi fondamentali della storia italiana ed europea: economica, sociale, politica, culturale. Vi si trovano sul problema, oggi fonda­mentale, della sovrastruttura, idee assolutamente originali e talvolta anche geniali. Inoltre vi si trovano, come avviene quando si tratta di vere scoperte, nuovi concetti, per esempio il concetto di egemonia, ottimo esempio d'un abbozzo di soluzione teorica in merito ai problemi dell'interpretazione delle sfere economica e politica. Purtroppo chi ha continuato, almeno in Francia, lo sforzo teorico di Gramsci?


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Ultima modifica 29.08.2008